di Damiano Palano
Questa recensione al libro di Marco Filoni in Anatomia di un assedio. La paura nella città
(Skira, pp. 101, euro 18.00), è apparsa su "Avvenire" il 27 ottobre 2019
Nel latino arcaico il nemico era indicato con il termine perduellis, mentre l’hostis era ancora solo lo straniero, o meglio l’ospite con cui si intrattengono relazioni di reciprocità. In seguito la parola hostis andò invece a identificare non solo lo straniero, ma soprattutto quell’estraneo con il quale si ha un rapporto (almeno potenzialmente) conflittuale: il «nemico pubblico» contro cui si può entrare in guerra, e che per questo rimane ben distinto dall’inimicus, il nemico ‘privato’ che ci si può contrapporre per rivalità economiche o questioni passionali. L’ambivalenza con cui in origine veniva concepito l’hostis si perse così abbastanza rapidamente. L’idea di un rapporto pacifico, che prevede un obbligo di reciprocità, passò invece in eredità al termine hospes, all’interno del quale rimase sempre il duplice valore di ‘ospitante’ e di ‘ospitato’, che d’altronde si riconosce anche nella lingua italiana. Sebbene sia scomparsa precocemente dal lessico dell’inimicizia, la duplicità propria della figura dello straniero – per cui lo straniero è ospite e potenzialmente suo nemico – si può individuare, in filigrana, nella stessa struttura della convivenza umana.
Nel denso viaggio dentro l’immaginario occidentale compiuto da Marco Filoni in Anatomia di un assedio. La paura nella città (Skira, pp. 101, euro 18.00), la dimensione urbana emerge infatti come costitutivamente lacerata da una presenza minacciosa. Irriducibile alle fortificazioni che ne delimitano i confini, o alle architetture che ne ospitano gli abitanti, coincide infatti fin dalle origini, almeno per la cultura occidentale, con gli esseri umani che la costituiscono. Come diceva il Nicia di Tucidide: «Uomini costituiscono la città, non mura o navi vuote di uomini». Ed è per questo che l’indagine di Filoni sulla città è una ricerca sulla paura degli uomini. E non tanto sulle paure che di volta in volta si fissano su oggetti diversi, o che auspicano il controllo, l’espulsione o l’eliminazione di qualche specifica minaccia, quanto sulla paura esistenziale che alligna costantemente – come il perturbante freudiano – nella topografia degli antichi villaggi e delle metropoli più avanzate. Non è d’altronde certo casuale che nella Genesi il compito di fondare Enoc, la prima città, spetti proprio a Caino, che rifiuta di riconvertirsi alla vita nomade. La città di Caino è così una sfida al cielo. Da quel momento, come scrive Filoni, «la città è diventata una matassa indistinta e confusa di paure», un «fantasma che insegue l’uomo nella sua tana», e che lo assedia dentro e fuori. Dopo aver attraversato tutta la nostra storia, e nonostante viviamo oggi nell’epoca forse più sicura, la paura dell’altro, della malattia, della carestia continua a colonizzare le nostre vite. Ma – avverte Filoni – non dovremmo vergognarci della nostra paura. Dovremmo anzi riconoscerne la dimensione strettamente ‘politica’. Solo «conoscendo ciò che ci incute timore possiamo comprendere le nostre inquietudini». E solo in questo modo possiamo evitare il rischio di delegare ad altri, insieme alla nostra paura, anche la nostra libertà.
Damiano Palano
Nessun commento:
Posta un commento