di
Damiano Palano
Questa recensione al volume di William Davies, Stati
nervosi. Come l’emotività ha conquistato il mondo (Einaudi, pp. 363, euro
18.50), è apparsa su quotidiano "Avvenire" il 25 settembre 2019 con il titolo Chi specula la nostra fragilità emotiva?
L’invasione marziana
simulata da Orson Welles è rimasta famosa. La domenica sera del 30 ottobre 1938
un’emittente americana mandò in onda un adattamento radiofonico della Guerra dei mondi di H.G. Wells. La
programmazione musicale venne interrotta da alcuni comunicati straordinari, in
cui si dava notizia dell’atterraggio di un disco volante vicino a New York e dell’inizio
del conflitto con gli alieni, secondo le sequenze del romanzo. Alcuni giornali
nei giorni seguenti scrissero che la trasmissione aveva innescato una
travolgente ondata di panico e di isteria collettiva, perché molti ascoltatori
– che non avevano sentito l’annuncio iniziale del programma – erano stati
tratti in inganno dalla verosimiglianza dei comunicati. Il fenomeno fu anche
studiato dall’Istituto Gallup e da alcuni ricercatori di Princeton. E in
qualche modo la vicenda divenne il simbolo della capacità dei media di
manipolare le emozioni del pubblico, o di creare delle fake news di grande impatto. Probabilmente, però, anche la storia
dell’ondata di panico fu in larga parte una
«bufala». Secondo alcune ricostruzioni recenti, il programma di Welles ebbe
in realtà un pubblico piuttosto limitato, le persone tratte in inganno furono
davvero poche e gli episodi di isteria collettiva vennero quantomeno
ingigantiti dalla stampa. D’altronde, in un contesto comunicativo in cui le
fonti erano giornali e radio, e in cui i collegamenti telefonici erano ancora
scarsamente diffusi, la velocità di trasmissione delle notizie – di quelle
vere, ma anche di quelle false – non doveva essere particolarmente rapida. E
probabilmente è invece proprio nella velocità degli scambi, oltre che nella
pluralità dei canali informativi, la grande differenza tra le fake news di oggi e quelle di ieri.
Parte riconoscendo proprio
questo dato William Davies nel suo libro Stati
nervosi. Come l’emotività ha conquistato il mondo (Einaudi, pp. 363, euro
18.50). Secondo il sociologo britannico, nell’era digitale il vuoto di
informazioni attendibili «viene colmato da voci, fantasie e congetture, alcune
delle quali immediatamente distorte ed esagerate per adattarle al discorso che
si vuole veicolare». E questo fa sì che – come le vecchie folle di Gustave Le Bon
– anche noi rinunciamo sempre più spesso alle nostre facoltà razionali, per
affidarci alle emozioni. Una conferma di questa lettura è offerta dal seguito
che ottengono gli appelli carichi di emotività dei leader populisti, o anche
dal discredito di cui sono oggetti gli «esperti». Ma Davies cerca risposte più
profonde, che lo conducono all’alba dell’età moderna. Nel corso del Seicento, le
scienze europee fissano infatti due cruciali linee di confine: in primo luogo, grazie
a Hobbes, separano guerra e pace; in secondo luogo, con Cartesio, distinguono
nettamente tra mente e corpo. L’ordine politico della modernità nasce proprio
dalla costruzione del Leviatano hobbesiano, mentre l’idea moderna di una
scienza ‘oggettiva’ si intreccia con la visione cartesiana. Secondo Davies
questi confini sarebbero invece oggi sempre più incerti, e da questo
discenderebbe l’importanza delle componenti emotive. Per un verso, la
distinzione tra guerra e pace (insieme a quella tra interno ed esterno) è
sempre meno netta. Per l’altro, le nuove conoscenze mettono in discussione la
sagoma cartesiana, proponendo un’immagine dell’essere umano come posseduto da
istinti ed emozioni. Dunque, l’hobbesiano «stato di natura» torna a essere
realistico. La richiesta di sicurezza diventa sempre più importante, mentre la
fiducia in istituzioni ‘neutrali’ e super
partes si indebolisce. L’esperienza del deterioramento fisico sperimentata
da una parte della popolazione occidentale (e testimoniata per esempio dalla
riduzione dell’aspettativa di vita nel Regno Unito) riporta inoltre sulla scena
richieste relative alla sicurezza corporea. Ma contribuisce anche ad accrescere
la dose di emotività delle rivendicazioni contro gli «esperti». Così chi
soffre, e ha bisogno di empatia, può trovare nel «nazionalismo» un rimedio, se
non una cura. E, in un circolo vizioso, tutto ciò contribuisce ad alimentare un
clima di guerra, nel quale le emozioni e l’entusiasmo si rivelano risorse
strategiche.
Al termine di un lungo
percorso attraverso la modernità, Davies sostiene che è un errore pretendere
che i «fatti» si difendano da soli. In altre parole, nel nuovo contesto
comunicativo, dovremmo prendere atto che l’ideale di scientificità costruito
dalla modernità non funziona più. E benché si possa parteggiare per gli
scienziati, è anche indispensabile dare ascolto e capire «la paura, il dolore e
il risentimento». Ma l’invito che il sociologo rivolge ai politici – che dovrebbero
«riscoprire la capacità di fare promesse semplici, realistiche e in grado di
cambiare la vita delle persone» - non è molto più di un topolino partorito da
un’enorme montagna teorica. A ben guardare, d’altronde, anche nell’ambizioso
affresco storico-dottrinario dipinto da Davies qualcosa non torna. A proposito
dell’odierna confusione tra guerra e pace, coglie per esempio una tendenza
reale. Ma, quando sostiene che ciò comporta il ritorno della «guerra di tutti
contro tutti», sembra dimenticare il Novecento, e cioè le passioni del «secolo
breve», la violenza politica, gli scontri ideologici, la «guerra civile
mondiale», che certo non furono un frutto dei social media. Per quanto si
possano considerare con preoccupazione i segnali di deterioramento del
dibattito pubblico e la crescente polarizzazione politica, si dovrebbe d’altronde
evitare di cedere a troppo facili paragoni storici. Come ci insegna la leggenda
della «beffa» di Orson Welles, oltre a diffidare delle «bufale», dovremmo
sempre considerare con cautela anche le spiegazioni deterministiche, che
talvolta ingigantiscono il ruolo effettivamente giocato dalle delle fake news. E che rischiano di non
cogliere la specificità delle trasformazioni contemporanee.
Damiano Palano