di
Damiano Palano
Questa recensione al volume di Jerry Z. Muller, Contro
i numeri. Perché l’ossessione per dati e quantità sta rallentando il mondo
(Luiss University Press, pp. 200, euro 20.00), è apparsa su "Avvenire" del 24 ottobre 2019.
Tutto cominciò probabilmente con
Frederick Winslow Taylor (1856-1915) e il progetto di una «direzione
scientifica del lavoro». Naturalmente anche altri prima di lui – per esempio
Andrew Ure e Charles Babbage – si erano posti il problema di un’organizzazione
razionale della produzione. Ma proprio il «taylorismo» fissò una serie di
principi destinati a segnare l’intero Novecento. Rampollo di una ricca famiglia
di Filadelfia, Taylor rifiutò di proseguire gli studi ad Harvard e decise di entrare
in fabbrica come operaio, dove assunse ben presto incarichi direttivi. Nella
sua attività poté mettere a frutto i tratti di una personalità che alcuni
biografi hanno definito «ossessivo-coatta» e propria di un «eccentrico
nevrotico». Fin da giovanissimo, Taylor aveva infatti contato i propri passi e
misurato il tempo impiegato per svolgere varie attività, sempre con l’obiettivo
di ottenere una maggiore efficienza. Sfruttando quella che era un’inclinazione
per lui naturale, iniziò così a elaborare i principi della «direzione
scientifica del lavoro»: in sostanza, per controllare al meglio il lavoro di un
operaio, era necessario scomporne le mansioni, riducendole a compiti
estremamente semplici, che non comportavano alcuna decisione autonoma e nessuna
abilità specifica. L’attività di ideazione e progettazione poteva essere così
separata dall’esecuzione, mentre i ritmi del processo di lavoro – una volta che
questo era stato ridotto a segmenti elementari – potevano essere agevolmente
controllati dalla direzione. E naturalmente coloro che erano più rapidi nello
svolgere il loro compito potevano essere premiati con incentivi monetarie.
Naturalmente l’obiettivo che spinge a misurare le performance di medici, insegnanti e poliziotti – ma anche di molti altri operatori – è quello di garantirne l’efficienza, di eliminare i margini di improduttività, di introdurre una reale «meritocrazia», in grado di premiare i più ‘bravi’ e di punire i meno laboriosi, motivati o capaci. Ma i risultati rimangono molto incerti. L’applicazione di quei criteri ha infatti spesso generato problemi ulteriori e innescato effetti perversi, per molteplici motivi, che Muller enumera puntigliosamente. Innanzitutto, ciò che può essere misurato non sempre si riferisce agli aspetti più importanti. Inoltre, i dati si riferiscono alle risorse impiegate e non ai risultati, mentre la standardizzazione dei dati spesso impedisce la loro contestualizzazione. Infine, la misurazione dei parametri può essere manipolata in vari modi, che comunque allontanano dagli obiettivi di fondo delle singole organizzazioni. Per esempio, medici che non vogliono peggiorare gli indicatori di performance evitano operazioni rischiose e si dedicano solo a quelle facili, ospedali che puntano a non intaccare le performance positive rifiutano pazienti a rischio di decesso, mentre ricercatori che vogliono migliorare gli indici di produttività preferiscono pubblicare articoli con minimi aggiornamenti, piuttosto che impegnarsi in lunghe indagini, destinate a produrre risultati solo dopo molto tempo.
Il libro di Muller non nega ovviamente che i numeri siano importanti e non contesta che i parametri possano aiutare a capire, almeno in alcuni casi, se qualcosa non funziona in un’organizzazione complessa. Ma il punto è che questi numeri non possono sostituire il giudizio personale e devono semmai affiancarlo. Solo la valutazione consapevole di chi conosce effettivamente uno specifico ambito – e sa dunque quale significato assegnare ai numeri – può impedire infatti che l’ossessione si trasformi in un dispotismo controproducente. Per Muller dovremmo dunque «sapere quanto peso dare ai parametri, individuare le loro tipiche distorsioni e riconoscere ciò che non può essere misurato». E dovremmo anche poter decidere che, per giungere a valutazioni meditate, almeno qualche volta è meglio fare a meno dei numeri.
Damiano Palano
Nessun commento:
Posta un commento