di Damiano
Palano
Pochi saggi politici possono vantare un successo così
vasto e duraturo come quello ottenuto dalla Psicologia
delle folle di Gustave Le Bon (1842-1931). Pubblicato per la prima volta
nel 1895, il libro conobbe subito una fortuna travolgente in Francia ed ebbe
traduzioni in tutto il mondo. E da allora non ha cessato di essere letto e
ripubblicato. A più di un secolo dalla sua prima uscita viene riproposto ora in
una nuova edizione anche dalla casa editrice milanese Shake, nota soprattutto
per avere diffuso in Italia sul finire del Novecento i testi chiave della
cultura cyberpunk. Probabilmente la
scelta non è fortuita, perché anche Le Bon fu a suo modo un visionario che comprese,
ben prima di molti suoi contemporanei, la trasformazione che stava avvenendo.
Nel suo libro, che puntava a essere una sorta di Principe adeguato alla nuova «era delle folle», forniva
innanzitutto una spiegazione ‘scientifica’ della psicologia collettiva. E riteneva
in particolare che in determinate situazioni – quando si formava una «folla
psicologica» – i singoli individui smarrissero la loro componente razionale,
per rimanere preda di una forza emotiva primordiale, capace di trascinarli verso
violenze efferate o verso atti di eroismo. Le Bon non mancava di fornire una
serie di indicazioni a coloro che aspiravano a governare le folle. E gli
strumenti che suggeriva per «far penetrare lentamente le idee e le credenze nell’animo
delle folle» erano soprattutto tre: l’affermazione («svincolata da ogni
ragionamento e ogni prova»), la ripetizione e il contagio.
Molte delle tesi al centro del libro erano tutt’altro
che inedite. Per molti versi, La
psychologie des foules costituiva anzi solo una sintesi – senza dubbio
evocativa – di un’ampia letteratura cresciuta nella seconda metà
dell’Ottocento. Molte delle «leggi» che Le Bon fissava nel suo pamphlet si limitavano infatti a
tradurre in un linguaggio letterariamente efficace quelle intuizioni che già un
singolare magistrato sociologo come Gabriel Tarde aveva sviluppato in alcune
sue opere, e cui l’italiano Scipio Sighele – epigono della scuola lombrosiana –
aveva fornito una certa coerenza nel suo libro sulla Folla delinquente (1891). Le raffigurazioni delle orde selvagge,
utilizzate per esemplificare la psicologia elementare delle moltitudini,
attingevano infine soprattutto a quel fenomenale archivio che erano le Origini della Francia contemporanea di
Hippolyte Taine. Ma, a dispetto dei molti debiti contratti con i suoi
predecessori (debiti che peraltro si rifiutò sempre di riconoscere), Le Bon
ebbe comunque il merito di utilizzare le ipotesi sulla psicologia collettiva
per fondare quella che si proponeva di essere una nuova scienza di governo (e
non solo per spiegare le condotte devianti).
Nonostante i tormentati rapporti con il mondo
accademico, la popolarità di Le Bon crebbe costantemente, varcando i confini
francesi. Nel corso di una sua visita a Parigi, nel 1914, l’ex presidente
americano Theodore Roosevelt chiese per esempio di conoscerlo e in un colloquio
riservato dichiarò di avere tenuto le sue Leggi
psicologiche dell’evoluzione dei popoli costantemente sulla scrivania nel
corso di tutta la presidenza. Ma questa attestazione di stima non fu l’unica
che gli giunse dal mondo politico. Molti uomini di Stato, sia in Francia sia in
altri paesi, entrarono infatti in contatto con Le Bon, che si fece peraltro instancabile
propagandista del suo ruolo di ‘consigliere del principe’, pubblicando in
appendice ai suoi volumi antologie di giudizi elogiativi pronunciati da elevate
personalità politiche. Come Mussolini, che nel 1931 gli scrisse: «la democrazia
è il regime che dà o cerca di dare l’illusione al popolo di essere sovrano. Gli
strumenti di questa illusione sono stati diversi secondo le epoche e secondo i
popoli, ma questo fondamento e quell’obiettivo non sono mai variati»
Non è dunque affatto sorprendente che La psicologia delle folle torni a essere letta nell’epoca degli ‘sciami digitali’ e delle fake news. Naturalmente oggi consideriamo le ipotesi di Le Bon e la sua spiegazione della «folla psicologica» come prive di scientificità, e per di più incrostate da distorsioni per noi inaccettabili. Ma quella rappresentazione elementare delle dinamiche collettive coglie ancora vividamente molti elementi del presente. E le sue pagine non hanno perso il fascino che dovevano esercitare sui lettori di più di centoventi anni fa.
Damiano Palano
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