di Damiano Palano
Dopo una lunga pausa estiva, con questo post "Maelstrom" riprende le attività. Scusate l'interruzione!
Essi vivono, un vecchio film di John Carpenter uscito alla fine degli anni Ottanta, rappresenta quasi un paradigma dell’immaginario complottista. Per caso, il protagonista della pellicola, John Nada, viene in possesso di un paio di occhiali da sole, che, una volta indossati, gli rivelano il mondo in modo completamente diverso da come l’aveva visto fino a quel momento. Quando inforca gli occhiali, riesce infatti a riconoscere le reali fattezze degli alieni che si sono impadroniti della terra e che monopolizzano potere, ricchezza, successo. Nel suo La guerra di tutti. Populismo, terrore e crisi della società liberale (Minimum fax, pp. 309, euro 18.00), Raffaele Alberto Ventura sostiene che oggi siamo un po’ tutti dei John Nada, più o meno consapevoli. Le narrazioni cospirazioniste alimentino infatti la cinematografia di Hollywood e la musica pop. Ma se l’intento in questi casi è puramente commerciale, la fortuna delle leggende cospirazioniste, diffuse dai social media, ha anche molte implicazioni politiche. La pellicola di Carpenter fornisce d’altronde anche un’ottima raffigurazione della logica che l’immaginario cospirativo dei movimenti populisti contemporanei, i quali si appellano al popolo contro il potere di minoranze invisibili e si propongono di ‘svelare’ il dominio di una casta vorace di potenti, nascosta nel cuore delle istituzioni democratiche. Per molti versi, il successo delle teorie del complotto – sostiene Ventura – è una conseguenza del sovraccarico informativo, di un’«era del sospetto» in cui la moltiplicazione di dati, statistiche e opinioni finisce per lasciare il cittadino disarmato, incapace di distinguere il vero dal verosimile. E l’ossessione del complotto si nutre proprio della convinzione che la rappresentazione della realtà proposta dagli «esperti», dagli istituti di statistica, dalla «tecnocrazia» non sia altro che una grande mistificazione. Un simile scetticismo mina la fiducia che sta alla base dell’edificio sociale, prepara l’ascesa di forze populiste, ma soprattutto crea le condizioni per un’irreversibile scalata agli estremi. Il cospirazionismo è d’altronde per Ventura solo uno dei tasselli della «guerra di tutti» verso cui l’Occidente si sta indirizzando. Come ha più ampiamente sostenuto nel suo precedente libro Teoria della classe disagiata, la crisi contemporanea nasce a suo avviso principalmente dal ritorno sulla scena della domanda di riconoscimento: un riconoscimento sociale garantito dalla realizzazione individuale, ma anche un riconoscimento tra comunità. La crisi è così soprattutto l’effetto di una «bancarotta simbolica», in virtù della quale la popolazione – cessando di rappresentare se stessa come un corpo unitario - «rischia in ogni momento di tornare a essere una moltitudine prepolitica». In altre parole, non saremmo più in grado di controllare quelle parole, miti e finzioni, che pure erano fondamentali per sostenere la convivenza democratica.
Gli
appunti di lettura che Ventura dedica alla cultura pop – in alcuni casi davvero
originali – si allineano per molti versi alla tesi di recente sostenuta da
Francis Fukuyama sulla centralità che già oggi hanno le lotte per l’identità.
La convinzione che la «Storia» fosse finita si scontra cioè con il ritorno
sulla scena di nuovi conflitti per il riconoscimento (individuale e collettivo),
cui il mercato non può dare una riposta. In questo senso, ci invita a leggere
la turbolenza degli ultimi anni proprio come la conseguenza di un duplice
processo, che da un lato vede la caduta delle grandi identità collettive,
mentre, dall’altro, vede nascere nuove micro-comunità (più o meno immaginarie),
alimentate dal risentimento, dal rancore, dalla paura. «Malgrado tutti i nostri
sforzi, non siamo riusciti ad annientare la Storia», scrive infatti Ventura. In
altre parole, anche se le frontiere non sono più in grado di contenerle, le
differenze esistono ancora e le identità non si sono dissolte. Anzi, per molti
versi, la richiesta di identità è destinata a crescere proprio nella misura in
cui le barriere fisiche non sembrano più in grado di separare davvero il dentro dal fuori. Ma è forse proprio per questo che, invece di tentare di
annullare le differenze in nome di un generico universalismo, il grande compito
del presente è costruire nuove identità collettive. In cui possano tornare a
riconoscersi anche i tanti John Nada di oggi.
Damiano Palano
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