di Damiano Palano
Questa recensione al volume di Yves Mény, Popolo ma non troppo. Il malinteso democratico (Il Mulino), è apparsa sul quotidiano "Avvenire".
In una celebre conferenza della metà degli anni Ottanta, Norberto Bobbio individuò una serie di grandi «promesse» che la «democrazia reale» non era stata in grado di mantenere. I pensatori democratici moderni avevano infatti confidato che, una volta consegnato al «popolo» lo scettro del potere, la politica avrebbe radicalmente cambiato volto: le oligarchie sarebbero scomparse, i rappresentanti avrebbero agito senza subire condizionamenti, l’uguaglianza si sarebbe estesa a tutti gli ambiti della vita associata e i cittadini avrebbero conquistato una cultura politica responsabile. Naturalmente – lo riconosceva lo stesso Bobbio – non tutte quelle promesse erano davvero realizzabili. E probabilmente alcune di quelle ambizioni nascondevano anche una vocazione ‘totalitaria’. Ma in ogni caso si doveva prendere atto della notevole distanza che separava gli ideali dalla realtà della democrazia.
Nei trent’anni seguiti alla Guerra fredda
la discussione sulle «promesse non mantenute» si è notevolmente infittita, e si
sono così moltiplicate le diagnosi – più o meno pessimiste – sulla «crisi», sul
«disagio» o persino sul declino delle istituzioni democratiche occidentali. Per
molti versi è inevitabile che ciò accada, perché la democrazia – molto più di
altre forme di regime – non può evitare di alimentare attese destinate a essere
deluse. Negli ultimi anni il dibattito ha però imboccato una direzione
differente. Per circa un ventennio, la denuncia dei critici è stata soprattutto
legata alla difficoltà dei sistemi democratici di mantenere l’impegno a ridurre
le diseguaglianze, alle conseguenze della globalizzazione, allo spostamento del
potere verso centri decisionali sottratti al controllo degli elettori. Anche se
questi temi non sono affatto assenti nella discussione contemporanea, dopo il
2008 l’attenzione ha cominciato a soffermarsi anche su altri aspetti, e in
particolare sulla capacità delle istituzioni democratiche di resistere
all’impatto delle trasformazioni economico-sociali e all’ascesa delle nuove
forze «populiste», che di quei mutamenti sono in gran parte una conseguenza.
Una testimonianza di questa nuova stagione
di discussione è offerta dal volume La
démocratie dans l’adversité, curato in Francia da Chantal Delsol e Giulio
De Ligio (Cerf), nel quale circa quaranta studiosi di varia provenienza si
interrogano sulle implicazioni politiche delle trasformazioni sociali,
economiche e comunicative che stiamo vivendo. In molti casi si focalizzano sul
nesso tra l’esplosione populista e i vincoli ‘tecnocratici’ che – non solo in
Europa – riducono i margini di azione dei leader eletti dai cittadini. E non è
casuale che questa stessa tensione sia al centro dell’ultimo libro di Yves
Mény, Popolo ma non troppo. Il malinteso
democratico (Il Mulino, p. 210, euro 15.00). Quasi vent’anni fa il
politologo francese, insieme al collega Yves Surel, pubblicò una delle prime
indagini sui movimenti populisti, che nel frattempo è diventata un classico sul
tema. E tornando oggi sulla questione non può evitare di riconoscere il
successo clamoroso di quei movimenti. Negli anni Ottanta e Novanta del secolo
scorso, i populisti erano infatti sfidanti radicali ma quasi sempre marginali,
mentre oggi sono diventati i protagonisti della scena, non solo perché hanno
talvolta conquistato la guida politica dei loro paesi, ma anche perché hanno
modificato sostanzialmente lo stile e i temi del dibattito. Una simile fortuna
viene ricondotta a due grandi processi: per un verso, il mercato globale ha contribuito
a ‘svuotare’ di potere le democrazie nazionali; per l’altro, le nuove
tecnologie hanno colpito i sistemi di rappresentanza e mediazione degli
interessi su cui le democrazie si sono costruite: «internet, con una potenza di
fuoco e una rapidità mai viste prima», scrive Meny, «rende ogni
cittadino-utente uguale a chiunque altro, dà lo stesso peso a qualsiasi
opinione o preferenza, qualunque essa sia: informata, consapevole, brillante,
ignorante, innovativa, consumata o mostruosa». Mentre nel passato i critici
della democrazia ne auspicavano un superamento, oggi pretendono però di parlare
«in nome del popolo», ossia di farsi portavoce di quello stesso popolo che l’establishment e la classe politica hanno
lasciato indietro. I populisti non ricorrono cioè a ideologie
anti-democratiche, ma attingono allo stesso patrimonio del pensiero
democratico, anche se ne danno ovviamente una declinazione ben precisa (e
tendenzialmente anti-pluralista). Dal momento che le cause del fenomeno sono
profonde, Meny esclude che l’ondata populista sia destinata a esaurirsi a
breve, anche perché l’«uberizzazione» della politica a suo avviso è destinata a
proseguire. Ma il quadro delineato dallo studioso francese non è segnato (solo)
dal pessimismo, principalmente perché non esclude che le sfide di oggi possano
contribuire a rinnovare il patrimonio delle liberaldemocrazie e a trovare un
nuovo compromesso in grado di conciliare libertà, uguaglianza e giustizia
sociale. Guardando al passato (e soprattutto alla vecchia esperienza del People’s
Party americano), Meny osserva infatti che «sono stati proprio i populisti, con
le loro cattive maniere, le loro intemperanze e la loro ignoranza, a fare
qualche passo in più nelle giusta direzione». Ma la sfida della democrazia 3.0 è
probabilmente oggi ancora più complessa che in passato. Si tratta infatti di
immaginare e costruire una convivenza democratica capace di oltrepassare la
dimensione dello Stato nazionale, in cui storicamente la democrazia moderna è
nata e cresciuta. E più che tornare alle vecchie «promesse non mantenute» del
progetto democratico, si tratta allora di proiettare quelle promesse in una
nuova dimensione e in un nuovo spazio istituzionale. Cercando la strada che
passa tra le due opzioni – forse tra loro neppure alternative – di un mercato
globale senza regole e di una democrazia nazionale chiusa in se stessa e
concentrata nella difesa di un demos sempre
più simile a un ethnos.
Damiano Palano
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