di
Damiano Palano
Questa recensione all'Ordinamento
giuridico, il capolavoro teorico di Romano, riproposto al pubblico in un’edizione curata da Mariano
Croce (Quodlibet, pp. 236, euro 18.00), è apparsa su "Avvenire" il 9 febbraio 2019.
Nel
1909, in una celebre prolusione tenuta all’Università di Pisa, Santi Romano
sostenne che lo Stato moderno era entrato in crisi. L’organizzazione statale,
delineata nei suoi contorni dalla Rivoluzione francese, si stava infatti rivelando
«troppo semplice» dinanzi al proliferare di organizzazioni di interessi
economico-sociali e alla nascita di ‘nuove corporazioni’. La diagnosi formulata
dal giurista siciliano non era isolata, ma in Italia aprì una fitta discussione
sulla «crisi dello Stato». Il dibattito, protrattosi per anni, investì anche lo
stesso statuto delle scienze giuridiche, o quantomeno alcuni dei capisaldi su
cui si fondava la scuola giuridica nazionale capeggiata da Vittorio Emanuele
Orlando, con cui Romano si era peraltro laureato a Palermo sul finire
dell’Ottocento. L’intuizione che lo Stato scaturito dalla fine dell’Antico
regime (e soprattutto dall’abolizione dell’ordine corporativo) fosse «troppo
semplice» non rimase solo una provocazione. Ma divenne negli anni seguenti il
punto di partenza per un’ambiziosa e originale riflessione sul concetto stesso
di diritto, destinata a confluire nell’Ordinamento
giuridico, il capolavoro teorico di Romano, apparso in volume nel 1918 e
riproposto al pubblico a un secolo di distanza in un’edizione curata da Mariano
Croce (Quodlibet, pp. 236, euro 18.00).
Le
tesi a partire da cui Romano ridefiniva il diritto erano tutto sommato
piuttosto semplici, anche se erano destinate a produrre notevoli ripercussioni.
Innanzitutto, ai suoi occhi era del tutto fuorviante ricondurre il diritto a
una norma o a un insieme di norme. L’ordinamento giuridico, lungi dall’essere
solo la giustapposizione di singole norme, poteva essere davvero compreso nella
sua natura se lo si riconosceva come un’unità, e cioè come l’insieme dei
meccanismi e degli ingranaggi «che producono, modificano, applicano le norme
giuridiche, ma non si identificano con esse». Il diritto era cioè, per Romano,
non solo la norma, ma anche l’entità sociale capace di porla. L’ordinamento
giuridico era un’istituzione, un
«corpo sociale» dotato di un’individualità esteriore e visibile, espressione
della socialità umana, chiuso e capace di conservare la propria identità pur dinanzi
al mutare dei suoi elementi. La
concezione ‘istituzionalista’ del diritto era inoltre il presupposto di
un’operazione ancora più radicale, diretta a riconoscere la pluralità degli
ordinamenti giuridici. In altri termini, se si concepiva il diritto come un’istituzione,
era inevitabile riconoscere anche che ogni gruppo umano organizzato tende a
dotarsi di diritto. Il diritto cessava così di essere inteso come uno strumento
posseduto in via monopolistica dallo Stato, e veniva dunque spezzata
l’equivalenza tra Stato e diritto su cui una parte significativa della dottrina
giuridica otto e novecentesca si era fondata, talvolta cedendo a una sorta di
‘divinizzazione’ dello Stato (che Romano rimproverava per esempio ad Hans
Kelsen). Lo Stato, in questa nuova prospettiva, non era altro che «una specie
del genere ‘diritto’», ma si potevano riconoscere ordinamenti giuridici più o
meno definiti tanto dentro quanto fuori dallo Stato. Esempi giungevano dal
diritto internazionale e dal diritto ecclesiastico, i quali si presentavano
pienamente come ordinamenti giuridici, pur senza essere riducibili al diritto
statale. Ma, in fondo, ogni organizzazione – e persino quelle ‘nuove
corporazioni’ che affioravano agli inizi del secolo – poteva essere
riconosciuta come un ordinamento.
Il libro di Santi Romano ebbe immediatamente una
grande diffusione tra gli studiosi del Vecchio continente, e per esempio, alla
metà degli anni Trenta, Carl Schmitt vi ritrovò i cardini di un terzo pensiero
giuridico, alternativo al normativismo e al decisionismo. E oggi l’Ordinamento giuridico continua a essere
letto, soprattutto nel mondo anglosassone, anche se per nuovi motivi da quelli
di allora. La visione istituzionalista del diritto che lo studioso siciliano
proponeva è infatti oggi forse ancora più preziosa che un secolo fa. Perché
l’idea del diritto come ordinamento, e soprattutto il riconoscimento della
pluralità degli ordinamenti, diventano una chiave importante per decifrare un
mondo in cui lo Stato non appare più come il monopolista del diritto, in cui
gli attori sociali assumono un ruolo di produzione giuridica, e in cui anche le
linee di confine tra diritto pubblico e diritto privato – insieme alla classica
distinzione tra Stato e Società – tendono a sfumarsi.
Damiano Palano
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