di Damiano Palano
Questa recensione a volume di Jean-Didier
Vincent, Biologia del potere (Codice,
pp. 201, euro 20.00) è apparsa sul quotidiano "Avvenire".
Nel 1975 l’entomologo Edward O. Wilson
pubblicava un ambizioso trattato in cui delineava i contorni di una nuova
disciplina, volta a fornire una nuova interpretazione del comportamento sociale
di ogni specie. Nel proposito dello studioso, la «sociobiologia» poteva consentire
di raggiungere una «nuova sintesi» tra le scienze naturali e le scienze umane,
riconducendo tutti i comportamenti sociali all’esigenza comune della ricerca di
una migliore efficienza genetica. Si trattava di una proposta radicale, che
peraltro si combinava con la fortuna che in quegli anni conoscevano le ricerche
etologiche di Konrad Lorenz e libri di grande popolarità come La scimmia nuda di Desmond Morris. Quella
fortuna nasceva anche dalla reazione all’ambizione di costruire l’«uomo nuovo»
e di riprogettare ‘razionalmente’ l’ordine sociale. Dinanzi a simili speranze,
la «sociobiologia» di Wilson, così come l’etologia di Lorenz, invitava a
diffidare dell’idea che l’essere umano fosse una tabula rasa. In un’ottica rigidamente evoluzionistica, Wilson
assegnava peraltro un ruolo centrale al concetto di dominanza: ai suoi occhi la definizione delle relazioni gerarchiche
era infatti vitale per la capacità di un gruppo di darsi un’organizzazione e
dunque per mettere in atto comportamenti aggressivi (necessari alla
sopravvivenza). Comprensibilmente, la proposta della «nuova sintesi» incontrò
però più di qualche obiezione. In larga parte gli scienziati sociali
rimproverarono a Wilson una visione determinista del rapporto tra natura e cultura: in sostanza, la produzione culturale – nelle sue
differenti articolazioni – perdeva qualsiasi autonomia, mentre il comportamento
sociale della «scimmia nuda» finiva con l’essere affiancato a quello di una
colonia di polli. E proprio per questo l’idea della «nuova sintesi» non fu raccolta
dagli studiosi della politica e della società.
Negli
ultimi due decenni, i progressi conseguiti nel campo delle neuroscienze hanno
però reso nuovamente attuale la domanda sulla possibilità di una «nuova
sintesi». E un modo per accostarsi alla portata della sfida è il volume di Jean-Didier
Vincent, Biologia del potere (Codice,
pp. 201, euro 20.00). Anche se il neurobiologo francese non esita a ricorrere
ai risultati condotti su macachi e altre scimmie, la distanza dalla
«sociobiologia» di Wilson è netta, non solo sotto il profilo del metodo, ma
anche per le ipotesi principali, che riconoscono ampiamente la specificità
dell’«animale uomo». Didier non abbandona il concetto di dominanza, ma ritiene
che per comprendere davvero i gruppi umani si debba adottare un’idea di
leadership più complessa e strettamente connessa al «cervello sociale». In sostanza,
una parte rilevante dell’attività cerebrale che contrassegna specificamente gli
esseri umani (e, in misura minore, alcuni primati) è legata al mondo sociale in
cui l’individuo è inserito. Il tratto fondamentale del cervello sociale è così rappresentato
dall’empatia: la capacità che gli individui hanno di accedere al cervello degli
altri ‘mettendosi nei loro panni’. E, secondo Vincent, è proprio l’empatia a
fornirci la chiave per comprendere la «biologia del potere» e le sue
ambivalenze.
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