di
Damiano Palano
Questa nota sul libro di Reinhold Niebuhr, Uomo morale
e società immorale, ripubblicato da Jaca Book cinquant’anni dopo la sua
prima edizione italiana, è apparsa su "Avvenire" il 30 gennaio 2019.
Senatores boni viri, senatus mala bestia, dicevano i romani per riferirsi ai meccanismi che,
nella discussione in assemblea, potevano condurre a decisioni all’apparenza
irrazionali o persino immorali. E così quella frase è stata spesso utilizzata dai
critici del parlamentarismo e della democrazia per sostenere che anche
individui colti e pienamente razionali, nella foga della discussione pubblica,
possono rimanere vittima di cieche passioni politiche. Ma il contrasto tra la
morale individuale e le logiche collettive – un problema classico della riflessione
politica occidentale – naturalmente non è stato solo ricondotto a difetti di
razionalità o alle dinamiche che innescano le passioni negli organi collegiali.
In uno dei suoi primi libri, Uomo morale
e società immorale – ripubblicato da Jaca Book cinquant’anni dopo la sua
prima edizione italiana, uscita nel fatidico 1968 – il teologo protestante statunitense
Reinhold Niebuhr (1892-1971) affrontava la questione dalla prospettiva
originale del suo originale «realismo cristiano». Il bersaglio polemico del
teologo erano infatti gli approcci che spiegavano il contrasto tra la moralità
individuale e l’«immoralità» della società insistendo su difetti di educazione
o di informazione. Per Niebuhr, si trattava invece di un conflitto strutturale,
determinato dal fatto che i gruppi umani si rivelano scarsamente capaci di
controllare razionalmente gli istinti, di comprendere i bisogni degli altri, di
andare al di là dei loro interessi. L’egoismo, scriveva addirittura, «deve
essere considerato una caratteristica inevitabile delle comunità umane». Queste
componenti rendevano impraticabile l’obiettivo di rendere pienamente razionale
l’organizzazione sociale e politica. Per quanto potessero aumentare
l’intelligenza e la buona volontà morale nel corso della storia, osservava
infatti, esse non sarebbero mai state davvero sufficienti per abolire
definitivamente il conflitto. I «limiti della natura umana» rendevano
impossibile il conseguimento di una società interamente pacificata, anche se
certo erano possibili progressi nella riduzione della violenza. «Qualsiasi
cooperazione sociale su una scala maggiore di quella del gruppo tenuto insieme
da rapporti primari», spiegava, «esige una misura di coercizione», resa
indispensabile dalle limitazioni dell’intelligenza e dell’immaginazione umana. Ciò
comportava che la pace fosse sempre instaurata al prezzo dell’ingiustizia,
perché chi detiene il potere in una collettività tende ad abusarne. Inoltre,
implicava la conflittualità tra gruppi, perché ogni gruppo umano tende a
sviluppare ambizioni imperialistiche e progetti di espansione che vanno al di
là della semplice autoconservazione. E se non si riconosceva l’«ostinata
resistenza dell’egoismo di gruppo», la conseguenza erano progetti politici
irrealistici e fallimentari.
Quel libro, apparso nell’edizione originale nel 1932,
rifletteva anche le tensioni dell’America del tempo, oltre che la vicinanza del
teologo al socialismo democratico e persino al marxismo (o quantomeno ad alcune
delle sue istanze). In seguito, Niebuhr avrebbe abbandonato quelle posizioni
politiche, ma quando il libro uscì, qualcuno lo definì come un «realista
rosso», per il suo obiettivo di coniugare un approccio realista alla politica
con la vicinanza alla causa dei «diseredati». D’altronde il pensatore definiva
esplicitamente la propria prospettiva come «realista», anche se il suo
approccio si discostava sensibilmente da quella Realpolitik che legittima la politica di potenza come l’unica
scelta ragionevole in un mondo conflittuale. Per Niebuhr, le mete da perseguire
erano invece un ordine più giusto e una riduzione dei conflitti. Ma riteneva
che l’unico presupposto per raggiungerli fosse il riconoscimento ‘realistico’
dei «limiti della natura umana». Una società umana pienamente pacificata e perfettamente
giusta rimaneva cioè un sogno irrealizzabile. L’obiettivo doveva essere
piuttosto una società in cui ci fosse «abbastanza giustizia» e in cui la
coercizione fosse «sufficientemente non-violenta». «Fino alla fine della
storia», scriveva Niebuhr evocando Agostino, «la pace del mondo dovrà essere
guadagnata con la lotta», e così non potrà mai essere «una pace perfetta». E solo
se la mente e lo spirito avessero cercato non di «conquistare o di eliminare la
natura», ma di farne «strumenti al servizio dello spirito umano e dell’ideale
morale», si sarebbe potuti giungere a «una giustizia più vera e a una pace più
stabile».
Damiano Palano
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