di
Damiano Palano
Era il 1978, quando
nelle librerie italiane giunse un piccolo volume di Sergio Cotta, che fin dal
titolo – Perché la violenza? Una
interpretazione filosofica – si presentava come un tentativo di affrontare
le inquietudini di quel delicato momento storico. Dopo un decennio, il «maggio
strisciante» italiano volgeva ormai al termine, ma la violenza sembrava
aumentare ogni giorno la propria intensità. E ciò che avveniva in Italia pareva
essere solo l’eco di quanto si svolgeva sulla scena del mondo. A quella spirale
incontrollata, Cotta cercava di fornire una risposta da filosofo del diritto.
Ma la spiegazione che forniva era ben lontana dal risolversi in
un’interpretazione delle tensioni del tempo. E che non si trattasse di una
riflessione schiacciata sull’attualità diventa chiaro leggendo la nuova
edizione del volume, curata da Gabriella Cotta e meritoriamente riproposta
nella collana «Orso blu» da Scholé (pp. 204, euro 16.50), il nuovo marchio
dell’editrice Morcelliana. Cotta era innanzitutto ben consapevole di come la novità della violenza contemporanea
fosse in gran parte ascrivibile al modo in cui essa era percepita e valutata.
Le tecnologie della comunicazione, diffondendo notizie di conflitti e guerre
che hanno luogo nei più lontani territori del mondo, finiscono infatti col
rendere la violenza onnipresente. Ma anche per la costante visibilità, la
violenza – osservava Cotta – finisce col perdere il proprio significato, nel
senso che tutto viene percepito come violenza. Il vero elemento discriminante
rispetto al passato era però soprattutto l’esaltazione della violenza, un
tratto che secondo il filosofo caratterizza specificamente l’esperienza
novecentesca. Se l’Ottocento aveva puntato a costringere la violenza (e la
guerra) nelle forme giuridiche, il XX secolo aveva imboccato la direzione
opposta. Le cause ‘sociologiche’ erano per Cotta ascrivibili sia alla
condizione urbana, sia all’ideologizzazione delle guerre locali. Ma dal momento
che la violenza diventava – o era percepita – come onnipresente, si poneva solo
un’alternativa secca: rassegnarsi a subirla, oppure proporsi di eliminarla (ma,
paradossalmente, utilizzando mezzi violenti).
Gli sforzi dello
studioso erano comunque soprattutto rivolti al tentativo di distinguere la violenza
dalla forza. E la soluzione – una volta scartate varie proposte – veniva
rinvenuta nella sregolatezza, ossia
nell’assenza di misura interna dell’atto violento. A contrassegnare la violenza
per Cotta sono cioè l’immediatezza,
la sproporzione rispetto allo scopo,
la non-durevolezza, l’imprevedibilità. Più precisamente, la
violenza è al tempo stesso causa ed effetto di una ‘passione’ spersonalizzante.
Sia chi compie la violenza, sia chi la subisce è cioè oggetto di un processo di
‘spersonalizzazione’. Chi subisce la violenza è reso da essa un semplice oggetto,
mentre chi la esercita «si autospossessa del proprio sé». «In questo circuito»,
osserva Cotta, «si annulla il riconoscimento reciproco della qualità di
persona». Ciò che si perde è la misura comune, e per questo risulta anche
negata alle radici la dialogicità dell’esistenza. L’elemento proprio della violenza – e ciò che
la distingue dalla forza – è allora il fatto che essa scaturisce dalla
«cessazione del riconoscimento reciproco» e dalla negazione della misura
comune: «tutti indizi precisi che si è smarrita la coscienza di quella
relazione ontologica, di coesistenza», in virtù della quale l’essere dell’«ente
uomo» è un «essere-con-l’altro».
Naturalmente la
proposta di Cotta – saldamente collocata in una prospettiva giusnaturalista –
si pone agli antipodi rispetto alle posizioni ‘realiste’, secondo cui
all’origine (e alla base) di ogni ordinamento giuridico bisognerebbe sempre
riconoscere un fondamento politico. E inoltre il criterio suggerito dal
filosofo rischia forse di lasciare anche in ombra l’aberrante logica della
‘de-umanizzazione’, che punta a legittimare la violenza ‘de-umanizzando’ i
nemici, ma che, paradossalmente, scaturisce dalla consapevolezza della comune
appartenenza al genere umano. Ciò nonostante – e forse anche per le domande che
lascia senza risposta – a quarant’anni di distanza Perché la violenza? continua a fornire un contributo rilevante alla
discussione teorica. E altrettanto importante rimane anche il monito che nell’Epilogo il filosofo lasciava ai suoi
lettori: «La dismisura non si supera radicalmente con la misura, ma con ciò che
è oltre la misura stessa: la carità».