di Damiano Palano
Questo testo è apparso su Cattolica News il 21 giugno 2019 in occasione di una discussione sui cento anni dell'appello "ai liberi e forti" di Luigi Sturzo
Il
18 gennaio 1919, in una sala dell’albergo Santa Chiara di Roma, vide la luce il
Partito Popolare Italiano. A dare origine al nuovo soggetto politico fu un
piccolo gruppo di esponenti del mondo cattolico, che, illustrando in un celebre
documento i lineamenti programmatici del partito, indirizzò un appello «a tutti
gli uomini liberi e forti» che sentivano «alto il dovere di cooperare ai fini
superiori della Patria, senza pregiudizi né preconcetti». Tra i principali
promotori dell’iniziativa era naturalmente Luigi Sturzo, che già in un discorso
tenuto a Caltagirone alla vigilia di Natale del 1905 aveva sostenuto la
necessità di dar vita a un partito di ispirazione cristiana, in grado riportare
i cattolici italiani all’interno della vita politica nazionale. Quasi quindici
anni dopo, la situazione politica del Paese, nella quale il Partito Popolare
nacque effettivamente, era però radicalmente cambiata. L’esperienza della
guerra mondiale aveva per molti versi impresso un’impronta indelebile nella
società italiana, proiettandola verso la modernizzazione, ma anche portando
alla luce le strutturali debolezze del processo di unificazione. Gli anni dello
scontro bellico avevano infatti definitivamente sancito l’ingresso dell’Italia
nell’era delle masse, cui era stato richiesto un impegno senza precedenti e che
avevano sperimentato tecniche di mobilitazione del tutto inedite. Ma i quattro
anni di guerra avevano anche contribuito a scavare, tra il «Paese reale» e la
classe politica liberale, un solco ancora più profondo, destinato ad aggravare
il deficit di legittimazione che fin dalle origini gravava sulle istituzioni
del nuovo Stato nazionale. E le nuove tensioni internazionali che
contrassegnavano lo scenario postbellico – dalla dissoluzione dell’Impero austro-ungarico,
alle conseguenze della rivoluzione bolscevica – avrebbero contribuito ad
alimentare quei conflitti e quelle rivendicazioni che, di lì a poco, precipitarono
l’Italia in uno dei periodi più difficili della sua storia unitaria.
Benché
affondasse le radici nella dottrina sociale della Chiesa e nella storia del
movimento cattolico, l’appello ai «liberi e forti» coglieva pienamente la
novità dello scenario che si stava delineando e la portata delle sfide che si
ponevano al Paese. Non casualmente, le sintetiche linee programmatiche del
nuovo partito si aprivano esprimendo il pieno sostegno al progetto wilsoniano
della Società delle Nazioni. Per quanto fosse necessario non compromettere «i
vantaggi della vittoria conquistata con immensi sacrifici», per gli estensori
del manifesto era infatti «imprescindibile dovere di sane democrazie e di
governi popolari trovare il reale equilibrio dei diritti nazionali con i supremi
interessi internazionali e le perenni ragioni del pacifico progresso della
società». Mentre a Parigi si apriva la conferenza di pace, il nuovo partito non
esitava così a indicare, nel «patrimonio politico-morale delle genti cristiane»,
il riferimento necessario per dare una nuova struttura all’ordine mondiale. Se
il riconoscimento delle aspirazioni nazionali, il disarmo universale,
l’abolizione della segretezza dei trattati, l’affermazione del principio della
libertà dei mari, il pieno riconoscimento della libertà religiosa definivano il
quadro dell’approccio che il neonato partito auspicava, il programma non
mancava naturalmente di toccare i grandi nodi della politica interna, relativi
soprattutto alla necessità di adeguare l’architettura istituzionale. Un punto
chiave era così l’introduzione del sistema elettorale proporzionale, cui molti
in seguito avrebbero imputato il problema dell’accresciuta ingovernabilità, ma
che allora era inteso come strumento essenziale per garantire una maggiore
rappresentatività del Parlamento. Ma, più in generale, il programma auspicava
anche il superamento dell’impronta centralistica dello Stato ottocentesco, grazie
al pieno riconoscimento del pluralismo associativo e all’avvio di riforme nel
campo della previdenza e dell’assistenza sociale, nella legislazione del
lavoro, nella tutela della proprietà privata.
Mentre
tensioni internazionali e turbolenze interne tornano a intrecciarsi in diverse democrazie
occidentali, molti osservatori evocano oggi analogie con l’avvio della «crisi
dei vent’anni» innescata dalla fine della grande guerra. I problemi di una
società che imboccava la via della modernizzazione e di un’impetuosa
trasformazione sociale erano però ben diversi da quelli con cui si confrontano le
nostre società. A distanza di un secolo dalla sua stesura, l’importanza che
ancora oggi conserva l’appello del 18 gennaio 1919 non sta tanto, dunque, nelle
specifiche soluzioni che profilava o nella strada che indicava ai «liberi e
forti». Per quanto la lezione della storia rimanga sempre una bussola
irrinunciabile, sarebbe infatti ingenuo confidare che il passato possa
consegnarci gli strumenti per risolvere i problemi del presente. In un tempo in
cui l’appello al popolo diventa l’immancabile strumento retorico di ogni leader
politico, ma in cui paradossalmente il popolo sembra dissolversi una vischiosa
somma di risentimenti individuali, la più preziosa eredità intellettuale di
quell’esperienza va probabilmente ricercata altrove. E cioè in quella specifica
visione della democrazia, della società e dei suoi conflitti che indusse a
battezzare come «popolare» il nuovo partito. Perché forse il vecchio appello ai
«liberi e forti», riletto con gli occhi del 2019, invita soprattutto a
chiedersi ‘chi’ sia oggi il «popolo» e come esso sia trasformato rispetto non
solo a quello di cento anni fa, ma anche a quello che nel corso del «secolo
breve» occupò il centro della scena politica. E porsi una simile domanda significa
anche interrogarsi sui modi in cui il «popolo» può continuare a essere ancora
oggi il fondamento di una solida democrazia pluralistica, capace di sottrarsi
tanto alle tentazioni plebiscitarie quanto alla presa della spirale
tecnocratica
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