di Damiano Palano
Questa nota è stata pubblicata sul quotidiano "Avvenire".
Giunto negli Stati Uniti alla metà
degli anni Trenta, Erich Fromm iniziò a riflettere, come gli altri suoi
colleghi dell’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte, sulle cause che
avevano fatto precipitare la Germania nella barbarie del nazionalsocialismo. Il
frutto più significativo di questa riflessione fu senza dubbio Fuga dalla libertà, un libro uscito nel
1941 in cui l’impostazione psicoanalitica veniva integrata con una prospettiva
sociologica (e alcune influenze marxiste). La tesi del libro era che l’attrazione
per il totalitarismo non potesse essere spiegata solo con un riferimento alle
dinamiche economiche, e che le radici fossero principalmente psicologiche. Il
carattere psicologico per Fromm era però un riflesso anche della struttura
sociale, e tendeva perciò a modificarsi nel tempo. La «fuga dalla libertà»
scaturiva in sostanza dalla dinamica della modernizzazione, che aveva liberato
l’individuo dai vincoli della società medioevale, rendendolo però isolato,
ansioso, al punto da renderlo disponibile a cedere a nuove forme di
sottomissione. La spiegazione del successo del nazionalsocialismo andava
pertanto rinvenuta nel «carattere sociale» della classe media (e soprattutto dei
suoi strati inferiori).
Naturalmente
è inappropriato paragonare l’odierna situazione delle società occidentali a
quella dell’Europa degli anni Venti. Ma i segnali di turbolenza evidenti in
molti paesi industrializzati – l’ascesa dei populismi, la fortuna del
«nativismo», le tendenze ‘illiberali’ – inducono gli studiosi a chiedersi se le
ombre del passato non stiano tornando. E così anche vecchie spiegazioni vengono
riproposte, seppur in modo più raffinato e aggiornato. Una tesi che presenta
alcune assonanze con la vecchia spiegazione di Fromm (seppur priva dei
riferimenti psicoanalitici) è per esempio la teoria del «cultural backlash»
proposta da Ronald Inglehart e Pippa Norris. All’indomani del referendum sulla
Brexit e della vittoria elettorale di Donald Trump, i due sociologi avanzarono
una spiegazione interessante, in cui la dimensione economica era piuttosto
marginale, mentre la centralità era assegnata agli aspetti ‘culturali’. La
teoria di Inglehart e Norris – ripresa più organicamente e arricchita di dati
empirici nel volume Cultural Backlash,
uscito qualche settimana fa – sostiene in sostanza che il successo del
«populismo autoritario» nasca dalla reazione ‘culturale’ di alcuni strati
sociali all’espansione dei valori del cosmopolitismo libertario. Non si
tratterebbe dunque di una risposta al declino economico, alla crescita delle
diseguaglianze o all’insicurezza economica sperimentata dagli strati inferiori
della classe lavoratrice. Le radici starebbero invece nella reazione culturale
dei ‘tradizionalisti’ all’avanzata (nella società) dei «postmaterialisti». I
livelli di reddito e la collocazione nella struttura occupazionale non
sarebbero cioè determinanti. Mentre più rilevanti sarebbero l’età,
l’educazione, l’urbanizzazione e gli orientamenti valoriali. In altre parole, a
votare per i populisti autoritari sarebbe una popolazione più anziana, meno istruita,
residente in aree rurali e con un orientamento valoriale tradizionalista.
Anche
se la spiegazione avanzata da Inglehart e Norris ha alcuni aspetti convincenti,
è davvero difficile non riconoscere i rischi di un certo determinismo, che
sottovaluta in particolare il ruolo della dimensione politica. Questo limite
era piuttosto evidente nella tesi della «rivoluzione silenziosa» proposta da
Inglehart negli anni Settanta, secondo cui era in atto una transizione dal
«materialismo» delle generazioni nate all’inizio del Novecento e il
«postmaterialismo» dei giovani nati nella società opulenta. Per quanto quella
tesi si reggesse su una serie di solidi elementi, le conseguenze politiche
della «rivoluzione silenziosa» erano tutt’altro che omogenee. Perché, per esempio,
potevano essere considerate espressioni dell’avanzata dei postmaterialisti sia
le mobilitazioni e l’esasperazione ideologica degli anni Settanta sia il
disimpegno e il riflusso del decennio seguente. Per lo stesso motivo è
inevitabile chiedersi se il ‘contraccolpo culturale’ di cui parlano oggi
Inglehart e Norris non finisca col sottovalutare il ruolo che le
organizzazioni, i leader, la propaganda hanno nel costruire le rappresentazioni
del mondo. E dunque se non tenda a sottostimare l’importanza che la politica
continua ad avere nel rendere la «fuga dalla libertà» una tentazione (almeno
per alcuni) irresistibile.
Damiano Palano
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