di
Damiano Palano
Questa recensione al volume di Colin Crouch, Identità perdute (Laterza), è apparsa sul quotidiano "Avvenire".
Poco
più di quindici anni fa, nel 2003, Colin Crouch propose di chiamare
«postdemocrazia» l’assetto verso cui parevano diretti i sistemi politici
occidentali. In sostanza, benché rimanessero in vigore le forme della vita
democratica, si stava a suo avviso delineando una nuova configurazione, che non
era un regime autoritario, ma neppure un’autentica democrazia. La
«postdemocrazia» risultava contrassegnata innanzitutto da una diffusa apatia
politica, dalla crescente sfiducia nei confronti della classe politica, dal
declino delle forme tradizionali di partecipazione dei cittadini. E contemporaneamente,
si andavano stringendo le relazioni tra i vertici dei grandi partiti e i più
potenti gruppi di interesse, l’area decisionale si spostava al di fuori delle
istituzioni, la cittadinanza veniva ‘commercializzata’ a seguito dell’esternalizzazione
dei servizi pubblici. Crouch non era il primo a utilizzare la formula
«postdemocrazia». Ma la sagoma di un regime democratico ‘disseccato’ dalla
disaffezione e dalla logica della comunicazione ebbe successo. Tanto che la
formula «postdemocrazia» è entrata da allora nel lessico delle scienze sociali
(pur senza essere accolta in modo unanime).
Nel
corso del tempo le cose sono cambiate. I livelli di fiducia verso i partiti non
sono certo risaliti sensibilmente. Ma l’apatia si è trasformata in un
risentimento aggressivo, in una protesta elettorale che ha premiato sfidanti
dai toni radicali (e spesso tutt’altro che urbani). A differenza di quanto
probabilmente auspicava Crouch, non sono stati né i sindacati né le forze di
sinistra a farsi interpreti di quel disagio, bensì quei leader e quei partiti
che spesso chiamiamo «populisti» e «sovranisti». Il nuovo libro di Crouch, Identità perdute. Globalizzazione e
nazionalismo (Laterza, pp. 130, euro 15.00) cerca proprio di capire quali
siano le radici della nostalgia per la Heimat,
per la nazione e per la sovranità che sembra investire il mondo occidentale.
Nella sua argomentazione, in realtà Crouch contesta soprattutto le tesi dei
‘sovranisti’, ossia di coloro che auspicano un rafforzamento del potere degli
Stati, con l’obiettivo di tornare a governare i flussi di merci, di capitali,
di persone. Senza la globalizzazione, ricorda il sociologo, la maggior parte
del mondo sarebbe più povera, nonostante le diseguaglianze siano spesso aumentate.
Ma in ogni caso, sottolinea, le misure invocate dai nuovi ‘nazionalisti’ sarebbero
inefficaci, perché renderebbero il mondo più povero e innescherebbero conflitti
all’interno dei singoli paesi. Inoltre, il ritorno a una piena sovranità
nazionale a suo avviso non renderebbe più stringente il controllo esercitato
sui flussi globali. L’unica soluzione sarebbe invece il rafforzamento dell’Ue
in una chiave democratica, mentre i cittadini dovrebbero imparare a sentirsi a
loro agio con identità multiple. In un’Europa segnata dalla strutturale debolezza
delle grandi famiglie partitiche, la strada indicata da Crouch non appare però certo
agevole. E il ‘contraccolpo della globalizzazione’ potrebbe così continuare a rafforzare
il richiamo delle sirene nazionaliste.
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