Di
Damiano Palano
Questa recensione al volume di Federico
Finchelstein, Dai fascismi ai populismi.
Storia, politica e demagogia nel mondo attuale (Donzelli, pp. 278, euro
28.00), è apparsa sul quotidiano "Avvenire".
«Dove
i concetti mancano, ecco che al punto giusto compare una parola», diceva
Mefistofele nel Faust. E qualcosa del
genere è accaduto probabilmente per la parola «populismo»: un vocabolo nato sul
finire dell’Ottocento negli Stati Uniti, ma a lungo rimasto circoscritto a un
ambito piuttosto limitato, prima di conoscere una straordinaria fortuna
nell’ultimo quarto di secolo. A dispetto di un utilizzo quantomeno
inflazionato, al termine non è però legato un concetto chiaramente definito. E
anche per questo il dibattito condotto dagli studiosi su cosa sia davvero il
«populismo» - se si tratti cioè di un’ideologia, di una mentalità, di uno stile
retorico, di una modalità organizzativa, o altro – è ben lontano dall’aver
raggiunto una conclusione. E ovviamente la discussione è diventata ancora più
accesa dopo la conquista della Casa Bianca da parte di Donald Trump, da molti
considerato il portabandiera del nuovo «populismo globale». Il libro di Federico
Finchelstein, Dai fascismi ai populismi.
Storia, politica e demagogia nel mondo attuale (Donzelli, pp. 278, euro
28.00), si inserisce proprio in questo dibattito. In particolare, il lavoro
dello storico argentino – da quasi un ventennio trasferitosi negli Stati Uniti
– nasce dall’insoddisfazione nei confronti della gran parte della riflessone
recente, accusata di due limiti: per un verso dalla convinzione che il
populismo sia un fenomeno nuovo, innescato soprattutto dalla vittoria di Trump;
per l’altro, dall’assenza di riferimenti ai precedenti storici del populismo, e
in particolare al regime di Juan Domingo Perón in Argentina. Al contrario, sostiene
Finchelstein, è indispensabile riconoscere gli elementi comuni tra le
esperienze populiste del passato e quelle più recenti. E soprattutto è
necessario comprendere il fenomeno con la prospettiva di una «storia globale». A
dispetto di queste premesse, senz’altro condivisibili, il quadro che lo
studioso dipinge finisce però col ricorrere a categorie interpretative piuttosto
evanescenti.
La tesi di fondo è che esista una stretta
parentela tra fascismo e populismo: quest’ultimo sarebbe in sostanza una
«democrazia autoritaria», oltre che un movimento – né di destra né di sinistra
- «portatore di una concezione intollerante della democrazia, in cui il
dissenso è ammesso ma viene dipinto come privo di qualsiasi legittimazione».
Dopo il 1945, il populismo avrebbe riformulato gli obiettivi del fascismo
adattandoli a un contesto democratico, senza però perdere il carattere
autoritario. Pur riconoscendo la variabilità delle forme in cui il fenomeno si
è presentato, Finchelstein propone un’articolata griglia definitoria, che
considera il populismo, fra l’altro, come «una democrazia autoritaria», «una
forma estrema di religione politica», «una visione apocalittica della
politica», «una teologia politica fondata da un leader del popolo che ha tratti
messianici e carismatici», «una concezione omogenea del popolo». Ma già da
questa definizione emerge il limite di un notevole lassismo concettuale.
Desta senz’altro qualche perplessità il
fatto che Finchelstein definisca l’ideologia fascista come «parte di una più
vasta reazione intellettuale all’Illuminismo» e come una «reazione alle
rivoluzioni progressiste del lungo XIX secolo». In questo modo si fornisce una
visione monolitica del fascismo, trascurandone l’infatuazione per il progresso,
le ambizioni di radicale modernizzazione della società, gli elementi di affinità
con il socialismo. Qualche ulteriore perplessità è sollevata dalla stessa
categoria di «fascismo globale», che riconduce a un’unica matrice ideologica
regimi e movimenti in realtà piuttosto eterogenei. Ma problemi ancora più
evidenti emergono quando lo storico passa a considerare il populismo.
Contestando i tentativi di ridurre i fenomeni a ideal-tipi costruiti
astrattamente, Finchelstein ritiene si debba cominciare dalla storia, e cioè dai
caratteri delle esperienze populiste, a partire dal primo caso di regime
populista, individuato nel peronismo argentino. In altre parole, a suo avviso
non si deve tentare di definire teoricamente il concetto di populismo. Si
devono invece registrare gli elementi principali dei regimi e dei movimenti
populisti emersi nella storia. E proprio dall’osservazione di tali casi risulterebbe
una straordinaria affinità – che non è però un’identità – tra populismo e
fascismo. Ma, se il peronismo rappresentò davvero una riformulazione di alcune
componenti del fascismo, simili legami risultano quantomeno più deboli per
molti di quei leader che Finchelstein annovera nella famiglia populista, come –
per fare solo alcuni nomi – Carlos Menem, Alberto Fujimori e Silvio Berlusconi.
Le difficoltà non sono comunque solo queste. Il populismo viene dipinto infatti
in modo impressionistico, al tempo stesso, come un’ideologia, un tipo di regime
politico, uno stile, una visione del mondo e molto altro. I confini del
populismo diventano così davvero molto evanescenti. Fra l’altro, Finchelstein
sembra inconsapevole del fatto che il peronismo venne definito «populismo» solo
a posteriori, che quella categoria è il risultato di una rielaborazione compiuta
dalle scienze sociali, e che, più in generale, non esistono testi fondativi della
visione del mondo populista: e proprio queste circostanze rendono quantomeno problematico
definire il populismo come un’ideologia, al pari di quella fascista e
socialista. Ma altrettanto critica è la definizione del populismo come
«democrazia autoritaria», soprattutto perché non viene chiarito quali sarebbero
gli elementi ‘empiricamente osservabili’ tali da rendere «autoritaria» una
democrazia (senza al tempo stesso trasformarla in un regime non competitivo e
dunque non democratico). Il rompicapo diventa così davvero insolubile. E la parola
«populismo» rischia di diventare una sorta di passe-partout che promette di spalancare tutte le porte, ma che non
ne apre davvero nessuna.
Damiano Palano
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