di
Damiano Palano
Questo testo è apparso su VP Plus il 18 maggio 2019, in vista delle elezioni europee del 26 maggio.
Ogni
contesa elettorale – diceva Elias Canetti – simula sempre una battaglia. Come
se fossero eserciti contrapposti, le forze in campo non esitano a minacciarsi e
a oltraggiarsi in un crescendo di tensione e di eccitazione, anche se rimuovono
dal loro orizzonte il ricorso alla violenza. Per questo è quasi scontato che tutti
gli appuntamenti elettorali tendano a essere rappresentati come decisivi, come
scontri cruciali, persino senza precedenti. E non è dunque sorprendente che anche
quest’anno le elezioni per il Parlamento europeo siano presentate come un momento
epocale, come una contesa da cui dipendono le sorti del Vecchio continente,
come un bivio in cui i cittadini dell’Ue saranno chiamati ad esprimersi sulla
stessa prosecuzione del percorso di integrazione. Certo le consultazioni di
fine maggio sono importanti. Ma probabilmente non sanciranno davvero una
svolta, in un senso o nell’altro, nella vita dell’Unione.
La divisione tra “europeisti” e
“sovranisti” fornisce sicuramente una chiave di lettura semplice, efficace da
spendere nei dibattiti elettorali, soprattutto perché risulta facilmente
comprensibile anche da chi – come purtroppo la gran parte dei cittadini dell’Ue
– conosce poco i meccanismi istituzionali della politica europea. Ma si tratta
di una divisione quantomeno semplicistica, per molti motivi. Innanzitutto,
perché il sistema politico dell’Unione europea non funziona secondo la logica
classica dei sistemi parlamentari, secondo cui governa il partito o la
coalizione che vince le elezioni, o che è in grado di esprimere una maggioranza:
e anche se il Parlamento ha oggi più poteri che in passato, il suo ruolo si
affianca a quello della Commissione e del Consiglio, in cui in particolare
emergono gli orientamenti (e gli interessi divergenti) dei singoli Stati
membri. In questo quadro, le “svolte” sono molto difficili per motivi
strettamente istituzionali. Attendersi che le prossime elezioni possano
modificare sostanzialmente la direzione di marcia dell’Unione è dunque piuttosto
semplicistico: una eventuale ‘sconfitta’ delle forze “europeiste” (se così
vogliamo chiamarle) potrebbe certo complicare la gestione del Parlamento,
incidere sulla stessa elezione del Presidente della Commissione e avere
conseguenze sull’attività dell’emiciclo. Ma, proprio perché non siamo in un
sistema parlamentare, l’ipotetica formazione di una maggioranza realmente
“alternativa” a quella attuale – ipotesi peraltro piuttosto improbabile – non
si rifletterebbe in modo automatico nel cambiamento della linea politica.
Probabilmente, un maggiore frazionamento delle forze presenti a Bruxelles
comporterebbe invece un indebolimento del peso politico del Parlamento rispetto
agli altri organi dell’Ue, e dunque un rafforzamento dell’iniziativa degli
Stati (come d’altronde è già avvenuto negli anni più duri della crisi economica).
Interpretare il confronto in atto come uno
scontro tra “europeisti” e “sovranisti” è improprio anche per molti altri
motivi, che hanno a che vedere con le istanze delle forze in campo. Con il
termine “sovranismo” si ricomprendono spesso tutte quelle forze che un tempo si
chiamavano “euroscettiche”, e che, in linea generale, sono critiche nei
confronti della cessione di quote di sovranità al livello di governo europeo.
Ma in realtà i “sovranisti” sono attualmente divisi in gruppi parlamentari tra
loro ben distinti, che aggregano forze politiche molto eterogenee e che non è
neppure detto si ripropongano negli stessi termini anche nel futuro Parlamento.
Complessivamente, i diversi gruppi “euroscettici” potrebbero rinfoltire in modo
consistente le loro pattuglie, anche perché i sondaggi nelle scorse settimane
prevedevano un ridimensionamento sia per il Partito popolare europeo (Ppe), sia
per l’Alleanza progressista di Socialisti e Democratici (S&D), ossia per i
due gruppi parlamentari che detengono oggi la maggioranza a Bruxelles. Ma le
anime dell’euroscetticismo (e dell’antieuropeismo) – riconducibili
principalmente a Europa delle Nazioni e delle Libertà (Enf), a Europa della
Libertà e della Democrazia Diretta (Efdd), ai Conservatori e Riformisti europei
(Ecr), oltre che alla Sinistra unitaria europea (Gue/Ngl) – sono tra loro tutt’altro
che omogenee. Gli stessi “sovranisti” hanno peraltro prospettive diverse su
questioni sostanziali, come la gestione della moneta unica e dei flussi
migratori, oltre che sul modo di intendere la sovranità e il ruolo dello Stato.
E anche se ci sarà quasi certamente un rimescolamento delle carte (legato anche
alle complesse regole di formazione dei gruppi parlamentari), rimane dunque davvero
difficile immaginare un’alleanza strutturata tra tutte le forze “eurocritiche”.
Ma anche la famiglia degli “europeisti”, a
ben guardare, è tutt’altro che omogenea al proprio interno. E ciò che forse più
colpisce in questa campagna elettorale è proprio la sostanziale assenza di
proposte forti e condivise da parte del fronte “pro-Europa”, che – invece di
indicare una strategia comune per il rafforzamento dell’Ue e per uscire dallo
stallo degli ultimi anni – ha in larga parte preferito insistere sulla retorica
del pericolo “populista”, rappresentandosi come il baluardo contro la
“barbarie” dei nazionalismi.
A dispetto della retorica della contesa
elettorale, non si può d’altronde dimenticare che l’Europa non è attraversata
da una sola linea di divisione, che contrappone “europeisti” e “sovranisti”.
Piuttosto, questa divisione si intreccia con una molteplicità di linee di
frattura, alcune delle quali molto più profonde, come per esempio quella che
divide i paesi del Sud e del Nord, o quella che separa Est e Ovest. Proprio
queste fratture – spesso deposito della storia ‘lunga’ del Vecchia continente,
dei differenti percorsi di statalizzazione, della collocazione geopolitica – attraversano
le stesse forze europeiste e sovraniste. E sono destinate a incidere probabilmente
di più sul complicato intreccio della politica europea.
Più che essere vittima del ritorno del
nazionalismo, o della seduzione del “sovranismo”, l’Ue si trova d’altronde alle
prese con quegli stessi mutamenti che hanno investito i sistemi democratici
negli ultimi dieci anni, e che sono riconducibili all’aumento della sfiducia
nei confronti delle istituzioni e della classe politica, alla frammentazione
partitica e alla crescente spinta alla polarizzazione. Queste tendenze non sono
‘causate’ dall’Ue, perché sono connesse a mutamenti culturali, tecnologici e
comunicativi di più ampia portata. Negli ultimi dieci anni si sono però combinate
con le conseguenze della crisi economica e, più in generale, con un contesto
internazionale sostanzialmente diverso rispetto al passato, che ha ridimensionato
la posizione nel contesto globale di molto paesi europei e che ha messo in luce
gli aspetti più critici della moneta unica. Proprio la combinazione di tutti
questi fattori ha spalancato una nuova finestra di opportunità a quegli
outsider che – in mancanza di parole più appropriate – abbiamo definito “populisti”,
e che sono stati in grado di trasformare in capitale politico una miscela
eterogenea di disaffezione, risentimento e disillusione. Il motivo per cui le
elezioni di maggio sono importanti – anche se non sanciranno davvero una ‘svolta’,
in un senso o nell’altro – non è perciò legato tanto alla sfida “sovranista” in
sé, quanto alle conseguenze che la frammentazione e la polarizzazione potrebbero
comportare per il fragile sistema partitico europeo. Il risultato delle urne potrebbe
infatti andare a colpire, oltre che la forza numerica, la coesione delle proprie
due forze che si sono avvicinate di più a dar forma a partiti realmente continentali
(e cioè i popolari e i socialdemocratici). E in un quadro in cui l’identità
politica europea rimane per lo più una formula retorica, la miscela di
disaffezione, risentimento e disillusione potrebbe certo rivelarsi esplosiva.
Ma nel complicato intreccio della politica europea – che spesso appare al
comune cittadino come un enigmatico labirinto – ciò che dovremmo temere, più
che una svolta clamorosa, è semplicemente la paralisi.
Damiano Palano