di Damiano Palano
Questa recensione al libro di Francis Fukuyama, "Identità" (Mondadori), è apparsa il 15 marzo 2019 sul quotidiano "Avvenire".
Il nome di Francis
Fukuyama rimarrà probabilmente sempre associato a uno slogan fortunato. Nel
1989, pochi mesi prima che il blocco sovietico si dissolvesse, l’analista nippo-americano
scrisse infatti sulla rivista «Foreign Affairs» un breve articolo intitolato Siamo forse alla fine della Storia? grazie
al quale avrebbe conquistato una pressoché immediata notorietà. La formula della «fine della Storia»
riusciva infatti a cogliere lo spirito del tempo. E così divenne nel giro di
pochi mesi estremamente popolare, sollevando al tempo stesso severe obiezioni.
Ai numerosi critici di Fukuyama, l’idea che la storia fosse finita sembrò per
lo più solo un’illusione molto ingenua. Ma a questi lettori sfuggivano alcune
sfumature importanti. Quando evocava la fine della Storia – come avrebbe
chiarito nel ben più corposo libro uscito tre anni dopo – Fukuyama riprendeva infatti
quanto Hegel aveva scritto nel 1806 all’indomani della battaglia di Jena, a
proposito degli ideali della Rivoluzione francese. In questa visione, la Storia
era dunque un «processo evolutivo unico e coerente», che, percorrendo
molteplici tappe, si indirizzava verso istituzioni e principi in grado di
risolvere finalmente i problemi dell’umanità. Per Hegel questa condizione
coincideva con lo Stato liberale, che con la vittoria delle truppe francesi a
Jena si era definitivamente affermato. Marx avrebbe poi proiettato la fine
della Storia nel futuro della società comunista. Per Fukuyama la fine della
Storia era invece sancita dalla vittoria della democrazia liberale, che, dopo
il 1989, poteva profilarsi ormai come «il punto di arrivo dell’evoluzione
ideologica dell’umanità» e come «la definitiva forma di governo tra gli
uomini». Ai suoi occhi, quell’assetto aveva peraltro un grande pregio, perché consentiva
a ciascun individuo di soddisfare la sete di riconoscimento nella pacifica
competizione politica e nello scambio economico. Ma nelle pagine finali
Fukuyama si chiedeva se questo genere di sublimazione del thymòs fosse davvero sufficiente.
Trent’anni,
nel suo nuovo libro Identità. La ricerca
della dignità e i nuovi populismi (Utet, pp. 236, euro 19.00), Fukuyama torna
a quella domanda. Ovviamente il contesto politico è oggi molto diverso da
allora. L’ordine internazionale liberale mostra crepe evidenti e nuove
autocrazie si affacciano sulla scena globale. La più clamorosa testimonianza di
questo disagio rimane la vittoria elettorale di Donald Trump. Per ironia della
sorte, Fukuyama, in un passaggio incidentale della Fine della storia, aveva indicato proprio il miliardario newyorkese
come esempio di un individuo eccezionalmente ambizioso che aveva incanalato il proprio
desiderio di riconoscimento in un’attività imprenditoriale di successo. Mentre
oggi – certo non solo perché l’ambizione di Trump lo ha condotto oltre la
soglia della Casa Bianca – sembra che la liberaldemocrazia non sia più
sufficiente a garantire pacificamente il desiderio di riconoscimento degli
individui.
Il libro è infatti un
tentativo di spiegare l’ascesa del «populismo globale» e, più in generale,
l’emergere di una sorta di nuovo ‘tribalismo’ che punta alla difesa (o all’affermazione)
di specifiche identità. Naturalmente il politologo non trascura la rilevanza
dei processi economici, ma ritiene comunque che la dimensione economica non sia
sufficiente a dar conto del divampare, in tutto il globo, del «risentimento».
La chiave deve essere ritrovata invece proprio in una domanda di
riconoscimento, che può presentare aspetti economici, ma che non si limita ad
essi. Per dare un sostegno alle proprie argomentazioni, Fukuyama costruisce una
suggestiva teoria dell’agire umano, che combina Platone, Rousseau ed Hegel. Ma,
al di là del rigore filologico dei suoi riferimenti, l’intento è dimostrare che
la gran parte delle turbolenze che attraversano la politica mondiale – e non
solo quella occidentale – scaturiscono del desiderio di vedere riconosciuta un’identità
individuale o di gruppo. La politica dell’identità praticata nei campus
americani, il suprematismo bianco, il ritorno del vecchio nazionalismo e gli
usi politici dell’Islam sarebbero tutti in sostanza espressione di una domanda
di riconoscimento che secondo Fukuyama – a dispetto di quanto sosteneva
trent’anni fa – non possono trovare soddisfazione solo nella competizione
economica e nella dimensione del mercato. Il risentimento di oggi non si limita
però a portare di nuovo sulla scena il thymós,
ossia quella parte dell’anima che secondo Platone era sede dell’orgoglio. La
richiesta di riconoscimento della propria identità riflette questa componente,
ma con una differenza ulteriore, che emerge solo sul finire del Settecento,
proprio con Rousseau. E cioè la convinzione che ciascuno di noi abbia un io
interiore degno di rispetto, e che la società esterna, se non lo riconosce, sia
in errore.
Benché
la democrazia liberale affermi (almeno teoricamente) la pari dignità di tutti i
cittadini, una serie di trasformazioni – i flussi migratori, i mutamenti
demografici, l’impatto della globalizzazione e ulteriori dinamiche – ha innescato
la richiesta di riconoscimento da parte di gruppi in precedenza ‘invisibili’. E
queste istanze hanno alimentato il risentimento di settori sociali che si sono
sentiti soppiantati. Il risultato è che, da entrambe le parti, ci si è rinchiusi
all’interno di recinti identitari sempre più ristretti e autoreferenziali. Ma
in questo modo si è indebolito il tessuto identitario condiviso. Per
fronteggiare la progressiva ‘tribalizzazione’ della società, non è comunque sufficiente,
secondo Fukuyama, evocare un vago scenario cosmopolitico. È invece necessario ripartire
proprio dalle identità, non per dividere, ma ripensandole e riplasmandole per integrare.
E soprattutto ritiene non si debba mai dimenticare che, senza il sostegno
offerto dalla convinzione di appartenere a una «comunità di destino», nessuna
democrazia può sopravvivere a lungo.
Damiano Palano
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