di Damiano Palano
A cinque anni dalla morte di Ernesto Laclau, scomparso prematuramente il 13 aprile 2014 a Siviglia, Maelstrom ne ripropone questo ricordo, che allora venne pubblicato sul sito dell'Istituto di Politica.
L’improvvisa scomparsa di Ernesto Laclau, avvenuta il 13 aprile scorso a causa di un attacco cardiaco, priva la teoria politica contemporanea di uno dei suoi più originali protagonisti. Anche se in Italia la riflessione di Laclau ha iniziato solo da pochi anni a essere conosciuta e discussa, le sollecitazioni che lo studioso argentino ha sottoposto alla discussione teorica hanno avuto un ruolo fondamentale nel riportare al centro il nodo del ‘politico’ e della sua autonomia. E anche se la proposta delineata da Laclau ha incontrato nel corso del tempo critiche spesso molto dure, la sua operazione di ‘decostruzione’ della categorie teoriche del marxismo rimane senza dubbio un punto essenziale per la riflessione contemporanea, così come la teoria del populismo, precisata nei suoi contorni nell’ultimo decennio, ma elaborata nel corso di un’intera carriera di studio.
La carriera accademica di Laclau si svolse quasi esclusivamente all’interno del mondo universitario britannico (e in special modo all’Università di Essex, dove insegnò Teoria politica dal 1973 e dove diresse il Center for Theoretical Studies in Humanities and Social Sciences dal 1990 al 1997), ma lo studioso argentino conservò sempre un legame molto stretto con il paese d’origine. La sua riflessione teorica può infatti essere considerata come un tentativo di comprendere un fenomeno – indecifrabile con le categorie politiche del Vecchio continente – come il «peronismo». Tanto che, per molti versi, tutta la sua ricerca intellettuale può essere considerata come un tentativo di rispondere a quei problemi – teorici e politici – in cui Laclau si era imbattuto negli anni della sua militanza giovanile nel movimento socialista argentino.
Nato nel 1935, Laclau aderì infatti già nel 1958 al Partido Socialista Argentino (Psa), assumendo anche un ruolo di leadership all’interno della componente di sinistra del movimento studentesco dell’Università di Buenos Aires. Nel 1963 entrò nel Partito Socialista de la Izquierda Nacional (Psin), un partito di orientamento trotzkista guidato da Jorge Abelardo Ramos, e proprio all’interno di questo gruppo Laclau assunse un ruolo politico di primo piano, anche perché gli venne affidata la direzione del settimanale «Lucha Obrera», oltre che della rivista teorica, «Izquierda Nacional». Nella complessa geometria del sistema politico argentino dell’epoca, il Psin tentava di adattare la concezione trotzkista della «rivoluzione permanente» al contesto del paese latino-americano, ma in realtà l’elemento qualificante di quella proposta consisteva in una valutazione positiva del «peronismo» (inteso più come movimento politico che come esperienza di governo). Ed è d’altronde proprio in quella esperienza che possono essere ritrovate le matrici originarie dell’interesse di Laclau per il populismo, inteso come un movimento capace di aggregare forze eterogenee nel nome di un «significante vuoto», riempito ogni volta di nuovi significati (inevitabilmente sempre provvisori). Nel 1946, l’elezione a Presidente di Perón era stata sostenuta infatti da una coalizione molto eterogenea, che si estendeva dall’estrema sinistra fino all’estrema destra, ma anche il fronte avversario non era più omogeneo, dal momento che di fatto comprendeva tanto esponenti comunisti quanto notabili dei vecchi partiti conservatori. Quella linea di divisione trasversale non venne meno con la caduta di Perón, ma si cristallizzò, tanto che la frattura fra nazionalisti (peronisti e anti-imperialisti) e internazionalisti (liberali e comunisti stalinisti) continuò a strutturare stabilmente lo spazio del conflitto politico, col risultato di dividere anche il campo di sinistra in due tendenze nettamente contrapposte: la prima puntava nell’approfondimento delle riforme di Perón e dunque verso una sorta di «rivoluzione permanente» (in senso trotzkista), mentre la seconda (esemplificata dalla posizione del Partito Comunista) rifiutava nettamente l’opzione ‘nazionalista’ e ‘terzomondista’, soprattutto perché considerava il regime di Perón come un regime fascista da contrastare grazie alla costruzione di un ampio «fronte popolare» e all’alleanza con l’oligarchia liberale. Naturalmente, nella fase della militanza socialista la lettura che Laclau forniva delle vicende argentine era stabilmente orientata dalla sua formazione teorica marxista, ma già allora si andavano definendo alcune idee destinate a ritornare più avanti nella sua teoria del populismo. Allievo di Gino Germani all’Università di Buenos Aires, Laclau era infatti insoddisfatto della sua spiegazione del populismo, un fenomeno che il sociologo intendeva come riflesso della modernizzazione economica e come una soluzione al problema dell’integrazione delle masse nel sistema politico. La visione di Germani pareva a Laclau fondata su una concezione deterministica della transizione dalla società tradizionale alla società industriale, mentre già allora Laclau era piuttosto interessato alla dimensione ‘costitutiva’ dell’egemonia e al significato ‘fluttuante’ di simboli capaci di costruire alleanze politiche. Più che alla realtà delle riforme di Perón, Laclau guardava così al ruolo che aveva assunto il ‘simbolo’ di Perón nel corso degli anni Sessanta: un simbolo che di fatto aveva consentito a una serie di domande sociali frammentarie di aggregarsi in un ben precisa identità politica, che ovviamente non poggiava su alcuna base economica ‘oggettiva’.
Dopo il suo trasferimento nel Regno Unito, nel 1969, Laclau abbandonò di fatto la militanza politica, e da quel momento si dedicò quasi esclusivamente alla ricerca teorica. I problemi con cui si era imbattuto nel corso della sua attività di dirigente del Psin continuarono però a indirizzare la sua riflessione. Come James Joyce non cessò mai di tornare alla sua infanzia dublinese, così – come ebbe a dire in un’intervista della fine degli anni Ottanta – anche Laclau sarebbe tornato ogni volta agli anni della lotta politica in Argentina, costanti «punti di riferimento e di comparazione» della sua riflessione teorica. Nel suo primo libro, Politics and Ideology in Marxist Theory (Nlb, London, 1977), i riflessi di questi interessi erano d’altronde evidenti, non solo perché Laclau – che era approdato inizialmente al St. Antony College di Oxford per approfondire i propri studi economici – criticava la teoria della dipendenza formulata da Andre Gunder Frank, ma anche perché iniziava a formulare gli elementi cardinali di quella «teoria del populismo» cui avrebbe continuato a lavorare per trent’anni. In quel volume, appariva inoltre anche un saggio in cui Laclau si confrontava con il dibattito sull’autonomia ‘relativa’ dello Stato che aveva coinvolto, alcuni anni prima, due studiosi di orientamento marxista (ma tra loro molto lontani) come Ralph Miliband e Nicos Poulantzas. Nonostante la sua riflessione su questo punto si limitasse in quel caso solo a una lettura critica di alcuni limiti del marxismo althusseriano, era probabilmente in quel saggio che Laclau si confrontava per la prima volta in termini espliciti sulla «specificità del Politico», un nodo che anche in questo caso sarebbe diventato nel tempo sempre più importante. In quel contributo, l’espressione «Politico» era utilizzata con un significato diverso da quello in cui era stata usata Carl Schmitt nel suo celebre Begriff des Politischen, o anche da quello con cui in Italia più o meno nello stesso periodo ci si riferiva evocando l’«autonomia del politico». Laclau rifletteva infatti sulla specificità del «Politico» adottando lo schema dello strutturalismo althusseriano, di cui però venivano messi in luce alcuni limiti costitutivi, perché in effetti il teorico argentino iniziava già allora a interrogarsi sulla funzione di ‘sintesi’ e di costruzione di una ‘totalità’ che il «Politico» poteva svolgere.
Il punto di snodo principale nella riflessione di Laclau coincise però soprattutto con Hegemony and Socialist Strategy (Verso, London, 1985), frutto dell’incontro non solo intellettuale con Chantal Mouffe. In quel libro, Laclau e Mouffe si accomiatavano in modo pressoché definitivo dalla tradizione marxista, di cui criticavano soprattutto le pretese di ‘scientificità’. Il distacco dal marxismo compiuto da Laclau e Mouffe seguiva però una logica differente da quella che indirizzava in quel periodo il percorso di molti intellettuali di sinistra, e proprio per questo in Hegemony and Socialist Strategy i due studiosi definivano la loro prospettiva come «post-marxista». In questo modo, intendevano sottolineare come la loro posizione conservasse una continuità ‘politica’ con la tradizione marxista, ma anche come, al tempo stesso, essi rinunciassero a due pilastri fondamentali del marxismo: in primo luogo, la convinzione che il conflitto di classe fosse il perno attorno al quale far ruotare ogni progetto di emancipazione politica; in secondo luogo, l’idea che il marxismo fosse una ‘scienza’ e non una ideologia. L’operazione di Laclau e Mouffe anche per questo non consisteva in un vero e proprio rifiuto del marxismo. Piuttosto, secondo Laclau era stato il marxismo ad andare in pezzi in pezzi, mentre, da parte sua, si era solo limitato ad aggrapparsi «ai suoi frammenti migliori». Questi frammenti erano soprattutto costituiti da Antonio Gramsci e dalla nozione di «egemonia», oltre che in una certa misura da George Sorel e da una specifica lettura di Althusser . Ma questi materiali venivano utilizzati da Laclau e Mouffe per elevare una costruzione originale, che – del tutto consapevolmente – appariva ben poco interessata a una ricostruzione filologica dei concetti utilizzati dai singoli autori, perché l’obiettivo era piuttosto elaborare una teoria delle identità politiche che rinunciasse a qualsiasi fondazione ‘essenzialista’, e cioè alla convinzione che le identità collettive fossero un riflesso della struttura ‘oggettiva’ della società e dei rapporti di produzione. Già questa operazione, che conduceva ben oltre Gramsci, consentiva di cogliere come fosse proprio il livello politico a dare una forma alla società e ai conflitti, attraverso pratiche articolatorie ed egemoniche. E non è affatto casuale che tutta l’intera riflessione di Laclau e Mouffe – seguendo due binari paralleli – si sia indirizzata nel corso dei successivi trent’anni proprio verso l’esplorazione del ‘politico’.
Nel corso degli anni Novanta, Mouffe iniziò un duraturo confronto con la concezione del ‘politico’ di Carl Schmitt, tentando anche di elaborare una teoria dell’agonismo democratico non priva di elementi interesse (per un esame, rinvio a La democrazia e il ‘politico’. I limiti dell’«agonismo democratico», in «Rivista di Politica», n. 2, pp. 87-113). Laclau, utilizzando alcune categorie mutuate dalla Jacques Lacan, iniziò invece a concentrarsi sulla struttura delle identità politiche. I saggi raccolti in New Reflections on the Revolution of Our Time (Verso, London, 1990), in Emancipation(s) (Verso, London, 1996) e in Contingency, Hegemony, Universality (Verso, London, 2000, scritto insieme a Judith Butler e Slavoj Žižek), possono essere considerati da questo punto di vista come uno sviluppo delle tesi già enunciate in Hegemony and Socialist Strategy, ma anche come un’anticipazione di quella che rimane forse l’operazione più ambiziosa di Laclau, On Populist Reason (Verso, London, 2005). In quel libro tornavano infatti ad annodarsi tutti i fili della riflessione del teorico argentino, dalle prime domande sul ruolo del peronismo come simbolo capace di aggregare istanze sociali eterogenee al tentativo di elaborare una teoria del populismo, dall’indagine sul ruolo delle pratiche articolatorie alla funzione sintetica del ‘politico’. E, per effetto di questa operazione, Laclau giungeva a proporre un’immagine del populismo del tutto originale. Un’immagine molto lontana da quella adottata di solito dal dibattito politologico europeo, che però non si limitava a fornire una legittimazione ideologica del populismo e dunque a giocare il ruolo di sostengo teorico del ‘kirchnerismo’ (un ruolo che, peraltro, Laclau non ha mai respinto). In effetti, Laclau ritrovava nello schema teorico del populismo proprio la specificità del ‘politico’: dal momento che la dimensione specifica del ‘politico’ consisteva nella costruzione di identità collettive prive di fondamenta nella struttura ‘oggettiva’ della società ma basate solo sulle rappresentazioni e sull’immaginario, allora il ‘populismo’ – come movimento capace di costruire un «popolo» - poteva diventare per Laclau il paradigma della dinamica di costruzione delle identità politiche.
Naturalmente la proposta di Laclau non mancò di sollevare più di qualche obiezione, e d’altronde il dibattito innescato da On Populist Reason è ben lontano dall’essersi esaurito (un’ottima testimonianza di come le tesi dello studioso argentino siano state rapidamente recepite e discusse anche in Italia è confermato dal ricco volume curato da Marco Baldassari e Diego Melegari, Populismo e democrazia radicale. In dialogo con Ernesto Laclau, Ombre corte, Verona, 2012). Ad alcune di queste critiche, probabilmente risponderà The Rhetorical Foundations of Society, un libro che Laclau aveva già licenziato e che apparirà nel mese di maggio (sempre dall’editore Verso). Più che una rottura concettuale, è molto probabile che i lettori troveranno in questo nuovo libro solo un ulteriore affinamento della teoria già sviluppata nei suoi scritti precedenti. E, anche per questo, all’ultimo capitolo della sua riflessione continueranno a essere indirizzate le medesime critiche di cui furono oggetto Hegemony and Socialist Strategy e On Populist Reason. Ma questo è forse il destino che tocca a ogni riflessione che sappia toccare un nervo scoperto, come effettivamente fecero Laclau e Mouffe negli anni Ottanta. Quando affermavano che la società non esiste in quanto struttura oggettiva, determinata dall’assetto delle relazioni sociali capitalistiche, Laclau e Mouffe non si limitavano infatti a riprendere e riutilizzare ‘da sinistra’ la provocazione thatcheriana secondo cui «non esiste una cosa chiamata ‘società’», ma operavano – per quella che era stata la tradizione del marxismo novecentesco – una sorta di autentica ‘rivoluzione copernicana’, perché di fatto rovesciavano la relazione tra economia e politica, riconoscendo una priorità logica al ‘politico’. «Il nostro approccio», scrivevano Laclau e Mouffe nel 2001, nella nuova introduzione a Hegemony and Socialist Strategy, «si basa sul privilegio del momento dell’articolazione politica, e la categoria centrale dell’analisi politica è, a nostro avviso, quella di egemonia». E ciò significava innanzitutto riconoscere che la società come ‘totalità’ esiste solo in quanto prodotto politico, solo in quanto riflesso di una relazione egemonica, perché la condizione di un’egemonia è che «una forza sociale particolare assuma la rappresentazione di una totalità che le è radicalmente incommensurabile».
Con la loro ‘rivoluzione copernicana’, Laclau e Mouffe risolvevano una serie di ambiguità e contraddizioni che avevano lacerato l’intera vicenda del marxismo novecentesco. Ma, dirigendosi verso il continente del ‘politico’, dovevano ovviamente imbattersi anche in una serie altrettanto affollata di nuovi problemi. Nel corso della sua riflessione successiva, Laclau ha tentato non solo di affrontare questi nuovi interrogativi, ma anche di fornire una soluzione. Una soluzione forse non priva di qualche punto critico, ma certo estremamente ambiziosa nei suoi obiettivi, e per questo tanto affascinante. Ed è d’altronde proprio per l’ambizione di costruire una teoria generale della genesi e della struttura delle identità politiche che il contributo di Laclau continuerà probabilmente a essere letto e a fornire nuove sollecitazioni a quanti si volgeranno in futuro all’esplorazione dei misteri del ‘politico’.
Damiano Palano