di
Damiano Palano
Questa recensione al volume di James C. Scott nel suo libro Le origini della civiltà. Una controstoria (Einaudi), è apparsa su "Avvenire" il 5 febbraio 2019.
Quando
nacque lo Stato? A questa domanda gli studiosi forniscono risposte differenti,
fra loro non necessariamente antitetiche, ma fondate su concezioni ben distinte
di cosa sia uno «Stato». Se per esempio si ritiene che lo «Stato» sia
un’organizzazione centralizzata, dotata di personale burocratico specializzato
e di un esercito regolare, in grado di controllare stabilmente un territorio
delimitato da confini e di concentrare nelle proprie mani la produzione e
l’amministrazione delle norme, le sue origini vanno collocate in Europa, nel
passaggio dal Medioevo alla Modernità. Se invece si adotta una definizione più
blanda, le cose cambiano, perché i primi «proto-Stati» iniziano a comparire quasi
6000 anni fa, nella piana alluvionale meridionale della Mesopotamia. E il primo
Stato sarebbe in particolare quello nato attorno alla città sumera di Uruk, verso
il 3200 a.C. Questi sistemi politici non hanno naturalmente tutte le
caratteristiche attribuite di solito allo Stato moderno, ma risultano comunque
contrassegnati da una burocrazia professionale, da un sistema fiscale, da mura,
da forze armate capaci di controllare il territorio, da una divisione dei
compiti che si traduce anche in marcate distinzioni gerarchiche.
Gli studiosi si sono spesso interrogati sui motivi che
diedero origine ai proto-Stati. In generale, il passaggio a forme di convivenza
più ampie rispetto a quelle dei cacciatori-raccoglitori è stato ricondotto alla
«rivoluzione neolitica» e all’invenzione dell’agricoltura. Un’altra ipotesi
sosteneva inoltre che i proto-Stati, nati solo in specifiche aree geografiche, fossero
gli unici in grado di realizzare quelle grandi opere necessarie a garantire
l’irrigazione. Una versione più elaborata sostiene invece che la spiegazione
vada trovata in una convergenza di fattori, tra cui un marcato incremento
demografico e la presenza di ostacoli fisici alla dispersione della popolazione
nel territorio. Una spiegazione alternativa e senza dubbio affascinante è
invece proposta dall’antropologo James C. Scott nel suo libro Le origini della civiltà. Una controstoria (Einaudi),
il quale contesta – sulla base di scoperte recenti – molti dei presupposti su
cui si fondavano le ipotesi precedenti. Concentrandosi proprio sulla
Mesopotamia, osserva innanzitutto che la formazione dei proto-Stati avvenne circa
quattromila anni dopo la sedentarizzazione dei gruppi umani, la domesticazione
degli animali e l’introduzione dell’agricoltura. Probabilmente, secondo Scott,
la coltivazione della terra fu peraltro a lungo solo un’attività secondaria, accanto
alla caccia e alla raccolta. Anche perché – a differenza di quanto ritenevano
in passato molti studiosi – la Mesopotamia, invece di essere una terra arida
tra due fiumi (come oggi), fu per molto tempo un territorio umido ricco di
fauna e flora. In queste aree, gruppi sedentari poterono così continuare a
dedicarsi alla caccia e alla raccolta, limitandosi a praticare l’agricoltura
sui territori lasciati liberi dalle esondazioni (e dunque tali da non richiedere
onerosi dissodamenti). Ma, in ogni caso, non diedero origine a organizzazioni
proto-statali e continuarono anzi a evitare la piena stanzialità, anche perché
la concentrazione di uomini e animali negli stessi luoghi spesso favoriva la
diffusione di epidemie catastrofiche.
Un cambiamento cruciale, secondo Scott, sarebbe
avvenuto invece tra il 3500 e il 2500 a.C., quando un mutamento climatico
ridusse il livello del mare e la portata dell’Eufrate. In terre divenute più
aride, la popolazione si spostò verso i fiumi e verso i centri urbani. La
caccia e la raccolta divennero più difficoltose, mentre l’agricoltura
incominciò a diventare fondamentale. E proprio questa combinazione di fattori –
una sorta di ‘accumulazione originaria’ di cereali e forza lavoro – innescò la
formazione dello Stato. Ma l’ipotesi chiave del libro di Scott (il cui titolo
originale è d’altronde Against the Grain)
è soprattutto che la nascita dello Stato sia legata a doppio filo con la
coltivazione di cereali, come frumento e orzo (o in alcuni casi miglio). In
sostanza, secondo Scott, attorno al 3500 si sarebbero presentate in Mesopotamia
le condizioni per l’emergere di una sorta di «capitalismo predatorio» basato
sui cereali, il cui protagonista è proprio il nuovo proto-Stato. L’agricoltura
fondata sui cereali – in assenza di alternative significative al sostentamento
– sarebbe cioè l’elemento in grado di spiegare la nascita dello Stato, non solo
in Mesopotamia, ma anche in Egitto, nella valle dell’Indo, sul Fiume Giallo. I
grani dei cereali consentono infatti un’agevole tassazione, perché sono
visibili, divisibili, calcolabili, conservabili e trasportabili, mentre altre
coltivazioni (per esempio i legumi) presentano solo alcune di queste caratteristiche.
Inoltre, i cereali maturano in ben precisi momenti dell’anno, e questo dovette
facilitare il lavoro degli esattori fiscali. L’obiettivo dello Stato diventa
così radunare grandi masse di forza lavoro, insediarle vicino al centro del
potere e far loro produrre un surplus, destinato a essere appropriato dalle
élite dominanti. La stessa invenzione della scrittura è connessa alle esigenze
di esazione fiscale. Le guerre iniziano ad avere come scopo la conquista di popolazione
da costringere al lavoro, mentre uno dei problemi fondamentali è impedire la fuga
dei lavoratori. Tanto che forse le mura di cinta erano uno strumento proprio
per scongiurare questo rischio.
Senz’altro
suggestiva, l’ipotesi di Scott – che si basa in gran parte su elementi solidi –
merita di essere considerata con attenzione. Certo alcuni aspetti rimangono
ancora poco chiari, come, per esempio, il ruolo della schiavitù negli Stati
originari. Ma il libro dell’antropologo statunitense è soprattutto un provocatorio
invito a mettere in discussione molti luoghi comuni sulla connessione tra
stanzialità e «civiltà», o tra «Stato» e «civiltà», e a interrogarsi sulle
radici più remote dei fenomeni di aggregazione politica.
Damiano Palano
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