domenica 20 gennaio 2019

Rivolta della “gente” o ribellione delle “élite”? Un articolo di Marco Almagisti e Paolo Graziano



di Marco Almagisti e Paolo Graziano

L’intervento di Alessandro Baricco sulla Repubblica dell’undici gennaio si propone di sintetizzare l’insieme dei mutamenti che stanno caratterizzando le democrazie occidentali negli ultimi anni, mostrando come sia “andato in pezzi un certo patto tra le élites e la gente”.
Secondo Baricco è la “gente” che ha infranto questo patto. Per quale motivo? “Una prima risposta è facile: la crisi economica. Intanto le élites non l’avevano prevista. Poi hanno tardato ad ammetterla. Infine, quando tutto ha iniziato a franare, hanno messo al sicuro se stesse e hanno rimbalzato i sacrifici sulla gente”. Oltre agli effetti della crisi economica, Baricco individua una seconda ragione, che sta alla radice del suo ultimo libro, The Game (Einaudi): si tratta dell’impatto delle nuove tecnologie della comunicazione, che consentono a tutti l’accesso ad attività precedentemente riservate solo a pochi privilegiati. Attingere a qualsiasi informazione, comunicare con tutti, esprimere le proprie opinioni di fronte a platee immense, trasmettere le proprie concezioni della bellezza. Secondo Baricco queste due cause della “rivolta della gente” sono fortemente intrecciate: mentre le tecnologie (The Game) redistribuiscono il potere, non concorrono in alcun modo a redistribuire ricchezza. Malgrado avvisaglie distintamente avvertibili anche prima, è dalla crisi economica del 2008 che tale miscela diviene esplosiva, generando, secondo Baricco “una sequenza implacabile di impuntature, di apparenti deviazioni dal buon senso, se non dalla razionalità”, forme eterogenee di protesta, tutte accomunabili dall’essere generate dalla “gente” contro le scelte delle élite. Scelte, sottolinea con vigore Baricco, spesso miopi, dimentiche delle difficoltà e dei drammi vissuti da milioni di persone escluse dai privilegi diffusi nella “bolla” elitaria.
Sempre su Repubblica, il 14 gennaio Marianna Mazzuccato ha precisato che “la democrazia ha creato società meno inique quando gli “esclusi” hanno saputo rappresentarsi e strappare alle élite concessioni che hanno reso meno penosa e più piena la vita di tutti (spesso anche delle élite stesse)”. Il focus dell’intervento di Mazzuccato è posto sul conflitto, sul fatto che molti diritti di cittadinanza che ancora oggi caratterizzano l’esistenza di molte persone, almeno nei paesi occidentali, sono stati ottenuti attraverso il conflitto (“conflitto di cittadinanza” lo definisce Giovanni Moro) e “non sono stati graziosamente concessi dalle élite”. La precisazione di Mazzuccato è molto opportuna. Infatti, consente di porre l’attenzione sulla lotta all’esclusione quale molla per l’estensione dei diritti di cittadinanza e consente di recuperare la fertilità dell’idea del conflitto che, nel lungo intervento di Baricco, rimaneva sullo sfondo. Sullo sfondo del ragionamento di Baricco rimane non soltanto il conflitto relativo all’inclusione, bensì anche quello interno alle élite, che dovrebbe caratterizzare la democrazia contemporanea (che è liberale e pluralista o non è). 
Come viene descritta l’élite da Baricco? “Riassumendo: una minoranza ricca e molto potente […] Possono essere di sinistra come di destra. Una sorprendente cecità morale – mi sento di aggiungere – impedisce loro di vedere le ingiustizie e la violenza che tengono in piedi il sistema in cui credono”. Forse, una prima radice della crisi delle élite sta proprio qui, la ravvisa Baricco stesso: possono essere di sinistra come di destra, sono comunque dei “privilegiati”. Proviamo a pensare all’impatto di una concezione cosiffatta in ambito politico (il primo ad essere investito dalla protesta): ossia nei comportamenti e atteggiamenti di quella sezione della élite rappresentata dalla classe politica. Il tratto distintivo delle sue componenti non è più tanto nelle visioni del mondo o nelle proposte concrete che dovrebbero contrapporre una parte della classe politica alle altre, quanto nel privilegio che le differenzia dal resto della società. Ora, anche le teorie più realistiche della democrazia (si pensi a Schumpeter) hanno fondato la legittimità del sistema democratico sull’esistenza di una lotta fra élite in competizione reciproca. Per decenni, la competizione fra le élite ha riguardato differenti valori e interessi, ossia differenti progetti per la società. Dopo la seconda guerra mondiale, il patto fra élite e cittadini si è retto a lungo sul confronto fra progetti sociali alternativi, che davano nerbo e senso alla convivenza democratica e consentivano opportuni compromessi, non solo fra le differenti élite, bensì anche fra le differenti porzioni di società che nelle proposte delle élite si riconoscevano. Le conquiste del Welfare, richiamate da Mazzuccato, sono sorte e si sono consolidate anche in questo modo: il conflitto fra progetti alternativi ha prodotto un compromesso che si è retto sulla redistribuzione di parte dei benefici della crescita. Ma quali progetti alternativi possono mai dispiegarsi e confrontarsi se i governi debbono solo attivare il “pilota automatico”? La contrapposizione fra “élite” e “gente” (quanto nel linguaggio della scienza politica viene identificato nella linea di frattura fra establishment e anti-establishment) assume toni drammatici se resta la sola distinzione possibile. Le élite sono fatalmente destinate ad essere considerate “casta” se non competono fra loro in virtù di proposte alternative per il governo della società. Se, sulla base di queste proposte alternative e sulla credibilità con cui si cerca di promuoverle, non viene assicurata una “circolazione delle élite”.
Possiamo chiederci, allora, se davvero sia stata “la gente” a rompere il patto, oppure se non avesse qualche buona ragione, già a metà degli anni Novanta, Cristopher Lasch a discorrere di “ribellione delle élite” (cfr. “La ribellione delle élite. Il tradimento della democrazia”, Feltrinelli, 1996), identificando con questa espressione la volontà degli strati privilegiati della società di sottrarsi ad ogni legame comunitario e di assolutizzare il proprio stile di vita, misurando ogni differenza rispetto al proprio stile quale forma di manchevolezza. Quante volte a proposito dei processi che nutrono la bolla in cui vivono le élite (globalizzazione, mercato) abbiamo sentito ripetere lo slogan della signora Thatcher che molto opportunamente Baricco ha inserito in esergo: “There is No Alternative”? Il riferimento alla Thatcher potrebbe aiutarci a riflettere su quale patto fra élite e “gente” è andato in frantumi a causa della crisi esplosa nel 2008. Probabilmente stiamo vivendo oggi la crisi di un lungo ciclo politico avviato dalla vittoria elettorale di Margareth Thatcher nel 1979, ma preconizzato con chiarezza nel 1975 allorché la New York University Press dava alle stampe un testo elaborato da tre rilevanti scienziati sociali, quali Michel Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki, “La crisi della democrazia. Rapporto sulla governabilità delle democrazie alla Commissione Trilaterale”, in cui si raccomandava di risolvere le crisi di sovraccarico delle democrazie consolidate, riducendo gli spazi di partecipazione dei cittadini e rafforzando il ruolo dell’autorità e dei mercati. Per inciso, questa proposta ha rappresentato una cesura profonda rispetto agli orientamenti contenuti nelle Costituzioni della c.d. “seconda ondata di democratizzazione”. Tali Costituzioni erano state redatte dopo le catastrofi del fascismo e del nazismo e, pertanto, riflettevano l’intenzione delle classi dirigenti di ricostruire la democrazia su solide basi sociali (si pensi all’articolo 3 della Costituzione della Repubblica italiana, in cui le principali culture politiche del tempo evidenziarono il nesso fra democrazia, uguaglianza e partecipazione dei cittadini). 
Non può stupire che l’Europa sia entrata nel mirino della contestazione anti-establishment. Eppure, come anche Baricco sottolinea, questo non significa necessariamente rifiuto dell’idea di un’Europa unita. Ad essere criticata è la gestione elitaria dell’Europa e, soprattutto, una serie di decisioni prese dalle élite. Ed anche questo non può meravigliare, nei giorni in cui le politiche di austerità suggeriscono parole di autocritica persino all’attuale Presidente del Collegio dei Commissari europei, Juncker. Anche l’austerità ha rappresentato uno “strappo” delle élite, un ampliamento della distanza che separa le élite dalla “gente”.
Contrariamente a quanto sosteneva nel 1975 il Rapporto alla Commissione Trilaterale che abbiamo citato prima, secondo il quale la crescita della partecipazione avrebbe condotto ad una crisi della democrazia, il “malessere democratico” è scaturito in questi anni proprio dallo scollamento fra cittadini ed élite. Abituate a rimuovere il conflitto, a considerare secondario il consenso popolare riguardo alle decisioni politiche, le élite hanno a lungo etichettato i cittadini delusi in modo sprezzante: emotivi (come se le emozioni non avessero sempre un peso determinante nelle relazioni politiche e sociali), incompetenti, vittime di fake news. È una strada che impedisce un’adeguata comprensione dei cambiamenti che attraversano le nostre società e non consente di ricostruire legami di fiducia, come hanno sperimentato molti membri delle élite partitiche tradizionali che hanno provato a percorrerla. Sono possibili altre strade? Negli ultimi anni, alcuni partiti definiti “neopopulisti” hanno trovato nuovi canali di collegamento con la “gente” e lo hanno fatto seguendo strade a volte differenti: alcune formazioni “esclusive” hanno tematizzato la risposta nazionalista alla globalizzazione; altre, “inclusive”, hanno tematizzato soprattutto la critica alla disuguaglianza che caratterizza le nostre società per responsabilità delle scelte prese dalle élite (che non sono solo la classe politica, ovviamente, bensì anche le élite economiche e intellettuali, spesso abili a scaricare sulla classe politica ogni responsabilità). Sono attori nuovi (o rinnovati) che, in modi diversi, cercano di dare forma ai conflitti che emergono nella contemporaneità.
Baricco invita a diffidare della riduzione della complessità che spesso accompagna la critica alle élite. Ha ragione: la complessità è ineludibile. Mazzuccato, nella sua chiusura, ha rivolto l’attenzione verso quella complessità che esiste nella società e che spesso resta attutita nelle rappresentazioni prevalenti. Si tratta dei movimenti, dei cittadini attivi impegnati per la salvaguardia e il buon funzionamento delle istituzioni collettive, per un utilizzo virtuoso dei dati: “bisogna guardare queste nuove forme di relazione, capirle e moltiplicarle”. Ne conveniamo. E pensiamo che questa sia una grande sfida per il futuro: servono attori che siano in grado di comprendere e gestire la complessità, recuperando un rapporto profondo con le cittadine e i cittadini, con le loro necessità e i loro desideri.
Marco Almagisti e Paolo Graziano

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