Questa recensione al volume di Giovanni Orsina, La democrazia del narcisismo. Breve storia
dell’antipolitica (Marsilio, pp. 183, euro 17.00), è apparsa su "Avvenire"il 30 giugno 2018.
Più
o meno quarant’anni fa, alla fine degli anni Settanta, Christopher Lasch intravide
l’emergere nella società statunitense di una nuova «cultura del narcisismo».
Dopo le grandi mobilitazioni degli anni Sessanta, gli americani avevano
spostato i loro interessi su questioni personali. Smarrite le speranze riposte
nelle palingenesi politiche, gli individui si erano convinti che ciò che
veramente contava fosse una buona condizione psichica. E che perciò fosse
cruciale nutrirsi con cibo genuino, prendere lezioni di ballo o fare jogging.
Non si trattava però solo di quel ritorno al privato in cui Tom Wolfe aveva già
riconosciuto i contorni nel Decennio
dell’io. E neppure solo della decadenza dell’«uomo pubblico» che aveva
messo in luce Richard Sennett. Per Lasch l’individualismo degli anni Settanta annunciava
la nascita di un nuovo «uomo psicologico». Come per gli studiosi della Scuola
di Francoforte, anche secondo Lasch la struttura sociale influiva infatti sulla
personalità. Ma il pericolo non era più quello della «personalità autoritaria»,
prodotta da una struttura familiare patriarcale. Il rischio giungeva semmai da
un individualismo esasperato e da una ricerca della felicità condotta fino al
limite estremo di una preoccupazione narcisistica per il sé.
Anche
Giovanni Orsina evoca la figura del narcisista per spiegare le trasformazioni
che stanno investendo i sistemi politici occidentali. Nel suo La democrazia del narcisismo. Breve storia
dell’antipolitica (Marsilio, pp. 183, euro 17.00) procede però molto più a
ritroso di Lasch. Ritiene infatti che l’odierna ascesa dei populismi affondi le
radici nelle stesse promesse della democrazia. Il senso di ‘tradimento’ che
alimenta oggi la fortuna dell’antipolitica per lo storico è cioè innescato dal progetto
democratico, che non è solo un insieme di istituzioni, ma anche un modello di
società, che prospetta a ognuno la possibilità di raggiungere la felicità e di
conquistare un pieno controllo sulla propria esistenza. È una simile promessa-pretesa di
autodeterminazione soggettiva che produce il narcisista. Come aveva sostenuto Tocqueville,
l’egualitarismo non consente davvero il raggiungimento della felicità, ma rende
gli individui costantemente insoddisfatti e irrequieti. Se negli Stati Uniti
questa tendenza era però tenuta a freno da altri contrappesi, dopo la Prima
guerra mondiale nel Vecchio continente la spinta egualitaria non ebbe più
argini. E l’homo democraticus assunse
allora i tratti dell’«uomo massa» descritto da José Ortega y Gasset e da Johan
Huizinga. Orsina colloca inoltre un vero momento di svolta in corrispondenza
del Sessantotto. Seguendo la vecchia lettura di Augusto Del Noce, il «suicidio
della rivoluzione» è infatti interpretato come il preludio al «culto dell’io» e
al trionfo del narcisista. Un trionfo che coincide con l’esasperazione
dell’individualismo e che conduce anche al deperimento della politica, perché delegittima
il potere, schiaccia ogni prospettiva sul presente, interpreta la realtà sulla
base di considerazioni soggettive, favorisce la chiusura in comunità
autoreferenziali.
L’interpretazione
di Orsina ha sicuramente il merito di sottolineare l’importanza della dimensione
antropologica nella trasformazione politica contemporanea. Non c’è dubbio
infatti che la «crisi» che stiamo vivendo sia anche la conseguenza della
‘secolarizzazione politica’ e dell’insofferenza nutrita dal «cittadino critico»
verso tutti i grandi progetti otto e novecenteschi. La «tarda democrazia»
sperimenta cioè il paradosso evidenziato da Ernst-Wolfgang Böckenförde, secondo
cui lo Stato liberale secolarizzato «vive di presupposti che non è in grado di
garantire». Probabilmente, a innescare una simile tendenza, più che la
«democrazia» in sé, come progetto di vita, è però quella specifica
configurazione che le istituzioni democratiche hanno assunto nelle società
occidentali negli ultimi settant’anni. Non c’è dubbio infatti che il modello
liberaldemocratico occidentale abbia vinto la battaglia (anche ideologica)
contro i suoi rivali, e una conferma è data dal fatto che oggi non concepiamo
neppure la possibilità che esista una democrazia che non sia la democrazia
liberale. Ma le fortune della liberaldemocrazia sono intrecciate alla crescita
economica dell’Occidente, alla vittoria dei principi dell’economia di mercato, all’espansione
di modelli di consumo e alla promozione di stili di vita individualisti. E
proprio tali trasformazioni, altrettanto o persino più delle stesse promesse
democratiche, hanno contribuito in misura notevole a dare linfa al nuovo
narcisismo di massa.
Anche
per questo meriterebbero forse di essere riprese le vecchie intuizioni di Lasch
sulla «cultura del narcisismo». È infatti davvero possibile che il narcisismo
di massa sia il tentativo di rispondere all’insicurezza generata dall’apparente
libertà garantita da una società in cui la famiglia viene privata delle
funzioni produttive (e talvolta riproduttive), in cui ogni competenza viene
trasferita all’azienda e alla burocrazia, e in cui dunque l’individuo si trova
in una condizione di completa dipendenza dallo Stato e dalle altre grandi
organizzazioni. Il narcisista non può vivere allora senza un pubblico di
ammiratori perché, perché, per tenere sotto controllo l’ansia dell’insicurezza,
è alla costante ricerca di conferme alla propria autostima. Anche se, proprio
come per Narciso, il mondo diventa solo lo specchio che riflette il suo «io
grandioso».
Nessun commento:
Posta un commento