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domenica 13 gennaio 2019

La gabbia del «presentismo». Un libro di Giuseppe De Rita e Antonio Galdo sulla "trappola della modernità"




di Damiano Palano

Questa recensione a Prigionieri del presente. Come uscire dalla trappola della modernità (Einaudi, pp. 98, euro 14.50), un libro di Giuseppe De Rita e Antonio Galdo, è apparso su "Avvenire" del 12 giugno 2018. 


Una ricerca condotta alcuni anni fa da un gruppo di studiosi di Berkeley stimò che l’umanità avesse prodotto nella sua storia all’incirca 12 esabyte di dati (pari a un milione di terabyte). Una quantità senz’altro consistente, se si pensa che il materiale conservato presso la Biblioteca del Congresso di Washington – che contiene più di 19 milioni di libri e milioni di manoscritti – equivale a circa 10 terabyte. Dal momento in cui sono comparsi i computer, la situazione ha però iniziato a cambiare vertiginosamente. Già nel 2006 si sarebbero infatti raggiunti i 180 esabyte, e nel 2011 sarebbe stata oltrepassata la soglia dello zettabyte (1000 esabyte). Secondo un’altra stima, i dati prodotti ogni giorno nel mondo sarebbero sufficienti per riempire otto volte tutte le biblioteche americane. E tra questi dati sono compresi probabilmente anche i circa 200 milioni di fotografie postati quotidianamente su Facebook, gli 80 milioni condivisi su Instagram e i 250 milioni trasmessi via WhatsApp.

Tutti questi numeri forniscono solo una rappresentazione impressionistica della rivoluzione che ha investito la nostra quotidianità. Ma ci dicono sicuramente che nessuna società del passato ha mai avuto la capacità di conservare una memoria così dettagliata e sistematica di tutto ciò che accade in ogni istante quasi in ogni luogo del pianeta. Anche se forse, come in nessun’altra epoca del passato, abbiamo spesso la sensazione che nulla di tutto ciò che conserviamo nella memoria fisica dei nostri smartphone e dei nostri pc meriti davvero di essere ricordato.

Nel loro ultimo libro, Prigionieri del presente. Come uscire dalla trappola della modernità (Einaudi, pp. 98, euro 14.50), Giuseppe De Rita e Antonio Galdo – dopo aver indagato le trasformazioni della società italiana e l’«eclissi della borghesia» - affrontano la «crisi antropologica» del nostro tempo. Una crisi che deriva innanzitutto, a loro avviso, dall’incapacità di governare il rapporto con il tempo lineare. In altre parole, siamo travolti da un tempo che assume una dimensione circolare, perché il suo flusso si ripete incessantemente, senza un ‘prima’ e un ‘dopo’. Il presentismo costringe le persone nel loro «io», dissolvendo ogni possibile «noi». Ma produce conseguenze anche nella società, nel mondo del lavoro, nella politica. «Una società presentista» scrivono infatti i due autori, «come le singole persone che la compongono, si rattrappisce senza tensione, senza slanci, incupita dal rancore delle sue frustrazioni, individuali e collettive». I sentimenti che il presentismo alimenta sono allora la rabbia, il languore nostalgico, l’invidia sociale. La lingua si degrada, si semplifica, si riduce all’uso brutale di un vocabolario essiccato dalla fretta. Gli smartphone che accompagnano ogni attimo della nostra giornata diventano gli amplificatori di un narcisismo compulsivo. E ovviamente il presentismo domina anche l’economia finanziaria, dal momento che riduce ogni prospettiva temporale a quello dell’interesse di breve periodo degli azionisti. Ma trionfa soprattutto nella «democrazia immediata», nell’ipersemplificazione dei demagoghi, nelle fake news dei nuovi leader.

«L’appiattimento sul presente non proviene da una diabolica maledizione del soggettivismo oggi di moda», osservano De Rita e Galdo, «ma è un fenomeno più profondo, che discende dal tipo di evoluzione sociale in corso». Ed è proprio per questo che sarebbe sbagliato considerare il loro libro come una geremiade contro i «tempi nuovi». La contrazione individualistica e presentista che sta investendo le nostre società non dipende infatti solo dall’ingenuità con cui usiamo i nuovi mezzi di comunicazione, o dall’entusiasmo con cui accogliamo ogni nuova innovazione tecnologica. È qualcosa di più radicale, di cui dovremmo davvero prendere atto. Qualcosa che rende probabilmente inutile tornare al vecchio motto festina lente, con cui l’imperatore Augusto invitava ad affrettarsi lentamente. E che finisce col consumare le nostre vite in un eterno presente, costringendoci all’inseguimento di istanti che non possono mai diventare storia, esperienza, memoria. 

Damiano Palano

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