di Damiano Palano
Questa recensione a Prigionieri del presente. Come uscire dalla trappola della modernità (Einaudi, pp. 98, euro 14.50), un libro di Giuseppe De Rita e Antonio Galdo, è apparso su "Avvenire" del 12 giugno 2018.
Una ricerca condotta
alcuni anni fa da un gruppo di studiosi di Berkeley stimò che l’umanità avesse
prodotto nella sua storia all’incirca 12 esabyte di dati (pari a un milione di
terabyte). Una quantità senz’altro consistente, se si pensa che il materiale
conservato presso la Biblioteca del Congresso di Washington – che contiene più
di 19 milioni di libri e milioni di manoscritti – equivale a circa 10 terabyte.
Dal momento in cui sono comparsi i computer, la situazione ha però iniziato a
cambiare vertiginosamente. Già nel 2006 si sarebbero infatti raggiunti i 180
esabyte, e nel 2011 sarebbe stata oltrepassata la soglia dello zettabyte (1000
esabyte). Secondo un’altra stima, i dati prodotti ogni giorno nel mondo sarebbero
sufficienti per riempire otto volte tutte le biblioteche americane. E tra
questi dati sono compresi probabilmente anche i circa 200 milioni di fotografie
postati quotidianamente su Facebook, gli 80 milioni condivisi su Instagram e i
250 milioni trasmessi via WhatsApp.
Tutti
questi numeri forniscono solo una rappresentazione impressionistica della
rivoluzione che ha investito la nostra quotidianità. Ma ci dicono sicuramente
che nessuna società del passato ha mai avuto la capacità di conservare una
memoria così dettagliata e sistematica di tutto ciò che accade in ogni istante quasi
in ogni luogo del pianeta. Anche se forse, come in nessun’altra epoca del
passato, abbiamo spesso la sensazione che nulla di tutto ciò che conserviamo nella
memoria fisica dei nostri smartphone e dei nostri pc meriti davvero di essere
ricordato.
Nel
loro ultimo libro, Prigionieri del
presente. Come uscire dalla trappola della modernità (Einaudi, pp. 98, euro
14.50), Giuseppe De Rita e Antonio Galdo – dopo aver indagato le trasformazioni
della società italiana e l’«eclissi della borghesia» - affrontano la «crisi
antropologica» del nostro tempo. Una crisi che deriva innanzitutto, a loro
avviso, dall’incapacità di governare il rapporto con il tempo lineare. In altre
parole, siamo travolti da un tempo che assume una dimensione circolare, perché il
suo flusso si ripete incessantemente, senza un ‘prima’ e un ‘dopo’. Il presentismo costringe le persone nel
loro «io», dissolvendo ogni possibile «noi». Ma produce conseguenze anche nella
società, nel mondo del lavoro, nella politica. «Una società presentista» scrivono infatti i due
autori, «come le singole persone che la compongono, si rattrappisce senza
tensione, senza slanci, incupita dal rancore delle sue frustrazioni,
individuali e collettive». I sentimenti che il presentismo alimenta sono allora la rabbia, il languore nostalgico,
l’invidia sociale. La lingua si degrada, si semplifica, si riduce all’uso
brutale di un vocabolario essiccato dalla fretta. Gli smartphone che
accompagnano ogni attimo della nostra giornata diventano gli amplificatori di
un narcisismo compulsivo. E ovviamente il presentismo
domina anche l’economia finanziaria, dal momento che riduce ogni prospettiva
temporale a quello dell’interesse di breve periodo degli azionisti. Ma trionfa soprattutto
nella «democrazia immediata», nell’ipersemplificazione dei demagoghi, nelle fake news dei nuovi leader.
«L’appiattimento
sul presente non proviene da una diabolica maledizione del soggettivismo oggi
di moda», osservano De Rita e Galdo, «ma è un fenomeno più profondo, che
discende dal tipo di evoluzione sociale in corso». Ed è proprio per questo che
sarebbe sbagliato considerare il loro libro come una geremiade contro i «tempi
nuovi». La contrazione individualistica e presentista che sta investendo le
nostre società non dipende infatti solo dall’ingenuità con cui usiamo i nuovi
mezzi di comunicazione, o dall’entusiasmo con cui accogliamo ogni nuova
innovazione tecnologica. È qualcosa di più radicale, di cui dovremmo davvero
prendere atto. Qualcosa che rende probabilmente inutile tornare al vecchio
motto festina lente, con cui
l’imperatore Augusto invitava ad affrettarsi lentamente. E che finisce col
consumare le nostre vite in un eterno presente, costringendoci all’inseguimento
di istanti che non possono mai diventare storia, esperienza, memoria.
Damiano Palano
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