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giovedì 17 gennaio 2019

I pastori sardi e l’utopia dell’«economia civile» . Le "pillole" di Alessandra Smerilli



di Damiano Palano

Questo testo è apparso sul quotidiano "Avvenire" il 6 giugno 2018.

Tra i pastori sardi si è conservata un’antica tradizione. Quando a causa di una calamità naturale, o per altri motivi, un pastore perde il proprio gregge, ognuno dei suoi amici e dei suoi vicini gli dona una propria pecora. Un simile regalo naturalmente non impoverisce nessuno. Ma in questo modo lo sventurato pastore può tornare ad avere un proprio piccolo gregge. E può rialzarsi dopo la disgrazia. Questa forma di mutualismo si chiama sa paradura, un’espressione che, più o meno, significa «tornare alla pari». Ed è uno dei molti esempi cui Suor Alessandra Smerilli ricorre, nel suo libretto Pillole di economia civile e del ben vivere (curato da Laura Badaracchi, Ecra, pp. 156, euro 15.00), per illustrare la logica di un’economia ben diversa da quella che ammette solo la logica dell’utilitarismo individualistico. Il volume nasce infatti dalla trasmissione radiofonica Pensiero del giorno, andata in onda per diversi anni su Radio 1 Rai, in cui Smerilli – docente di Economia politica alla Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione «Auxilium» di Roma – puntava a illustrare, ricorrendo alla forza dell’esempio, un altro modo di guardare all’economia. La tradizione mutualista dei pastori sardi è d’altronde la tangibile esperienza di una società tenuta insieme dalla fiducia e dalla certezza che esiste una comunità pronta a correre in soccorso di chi si trovi in una condizione di bisogno. Ed è uno dei tanti esempi che mostrano l’importanza – anche economica – della gratuità, che non coincide ovviamente con ciò che è «gratis», con ciò che viene regalato ma non è essenziale. Perché la gratuità non ha a che vedere con le ‘cose’, ma con il modo con cui ci si relaziona con gli altri e con la natura. In altre parole, la gratuità – che è una dimensione costitutiva di ogni essere umano – consiste nel vedere le persone e le cose non come un mezzo, ma come un fine.

Le sessantatré pillole raccolte nel libro di Smerilli si collocano nel solco dell’«economia civile» di Antonio Genovesi, che sul finire del Settecento scriveva: «È legge dell’universo che non si può fare la propria felicità senza far quella degli altri». Se, secondo Smith, la specificità degli esseri umani stava nella capacità di scambiare e barattare, per Genovesi la socialità umana si mostrava invece soprattutto nel «reciproco diritto di essere soccorsi», oltre che nella «reciproca obbligazione di soccorrerci nei nostri bisogni». Ad accomunarci – chiosa Smerilli, aggiornando la vecchia lezione di Genovesi – è la fragilità, la vulnerabilità che fa sì che abbiamo bisogno della cura degli altri. Pensando a un’«economia civile», Smerilli riprende così la proposta della filosofa canadese Jennifer Nedelsky, la quale immagina un mondo in cui ognuno non debba lavorare più di 30 ore alla settimana, ma in cui nessuno dedichi meno di 12 ore alla cura dei propri familiari e dei propri concittadini. «Pensiamo come diventerebbe una città se tutti lavorassimo meno e tutti ci prendessimo cura degli altri…». Certo si tratta quasi di un’utopia. Ma «che l’impossibile diventi possibile dipende anche da noi, da ciascuno di noi: siamo noi che decidiamo come allocare il nostro tempo», scrive Smerilli. E quell’utopia – che forse non è neppure così irrealistica – merita allora di essere presa sul serio.


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