Questo testo è apparso sul quotidiano "Avvenire" il 6 giugno 2018.
Tra i pastori sardi
si è conservata un’antica tradizione. Quando a causa di una calamità naturale,
o per altri motivi, un pastore perde il proprio gregge, ognuno dei suoi amici e
dei suoi vicini gli dona una propria pecora. Un simile regalo naturalmente non
impoverisce nessuno. Ma in questo modo lo sventurato pastore può tornare ad
avere un proprio piccolo gregge. E può rialzarsi dopo la disgrazia. Questa
forma di mutualismo si chiama sa paradura,
un’espressione che, più o meno, significa «tornare alla pari». Ed è uno dei
molti esempi cui Suor Alessandra Smerilli ricorre, nel suo libretto Pillole di economia civile e del ben vivere (curato
da Laura Badaracchi, Ecra, pp. 156, euro 15.00), per illustrare la logica di
un’economia ben diversa da quella che ammette solo la logica dell’utilitarismo
individualistico. Il volume nasce infatti dalla trasmissione radiofonica Pensiero del giorno, andata in onda per
diversi anni su Radio 1 Rai, in cui Smerilli – docente di Economia politica
alla Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione «Auxilium» di Roma – puntava
a illustrare, ricorrendo alla forza dell’esempio, un altro modo di guardare
all’economia. La tradizione mutualista dei pastori sardi è d’altronde la
tangibile esperienza di una società tenuta insieme dalla fiducia e dalla
certezza che esiste una comunità pronta a correre in soccorso di chi si trovi
in una condizione di bisogno. Ed è uno dei tanti esempi che mostrano
l’importanza – anche economica – della gratuità, che non coincide ovviamente
con ciò che è «gratis», con ciò che viene regalato ma non è essenziale. Perché
la gratuità non ha a che vedere con le ‘cose’, ma con il modo con cui ci si
relaziona con gli altri e con la natura. In altre parole, la gratuità – che è
una dimensione costitutiva di ogni essere umano – consiste nel vedere le
persone e le cose non come un mezzo, ma come un fine.
Le sessantatré
pillole raccolte nel libro di Smerilli si collocano nel solco dell’«economia
civile» di Antonio Genovesi, che sul finire del Settecento scriveva: «È legge
dell’universo che non si può fare la propria felicità senza far quella degli
altri». Se, secondo Smith, la specificità degli esseri umani stava nella
capacità di scambiare e barattare, per Genovesi la socialità umana si mostrava
invece soprattutto nel «reciproco diritto di essere soccorsi», oltre che nella
«reciproca obbligazione di soccorrerci nei nostri bisogni». Ad accomunarci –
chiosa Smerilli, aggiornando la vecchia lezione di Genovesi – è la fragilità,
la vulnerabilità che fa sì che abbiamo bisogno della cura degli altri. Pensando
a un’«economia civile», Smerilli riprende così la proposta della filosofa
canadese Jennifer Nedelsky, la quale immagina un mondo in cui ognuno non debba lavorare
più di 30 ore alla settimana, ma in cui nessuno dedichi meno di 12 ore alla
cura dei propri familiari e dei propri concittadini. «Pensiamo come
diventerebbe una città se tutti lavorassimo meno e tutti ci prendessimo cura
degli altri…». Certo si tratta quasi di un’utopia. Ma «che l’impossibile
diventi possibile dipende anche da noi, da ciascuno di noi: siamo noi che
decidiamo come allocare il nostro tempo», scrive Smerilli. E quell’utopia – che
forse non è neppure così irrealistica – merita allora di essere presa sul
serio.
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