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lunedì 28 gennaio 2019

Democrazia, se il voto conta davvero. Un libro di Adam Przeworski




di Damiano Palano



Questa recensione al libro di Adam Przeworski, Perché disturbarsi a votare? (Università Bocconi Editore, pp. 189, euro 16.00), è apparsa su "Avvenire" il 27 gennaio 2019.

Fino a trent’anni fa i politologi non avevano grandi difficoltà a stabilire dove passasse il confine tra regimi democratici e non democratici. Da una parte stavano le democrazie liberali, con una pluralità di partiti, elezioni competitive, garanzie di libertà civili e diritti politici. Dall’altra, dittature militari o regimi in cui il potere era detenuto da un singolo partito, in cui gli oppositori erano sottoposti a misure detentive o messi sotto stretta sorveglianza. Dopo il 1989 le cose sono cambiate. Il numero delle democrazie è sensibilmente cresciuto. Ma il confine tra democrazia e non-democrazia si è fatto meno nitido, perché molti regimi autoritari hanno iniziato a fare ricorso alle elezioni per darsi una legittimità nel nuovo scenario internazionale.

Che le elezioni non siano di per sé una garanzia né di democraticità né di pluralismo emerge però in modo piuttosto nitido dal libro di Adam Przeworski, Perché disturbarsi a votare? (Università Bocconi Editore, pp. 189, euro 16.00). Sulla scorta di un’intera carriera di studi, il politologo statunitense di origine polacca mostra infatti che, nella storia degli ultimi due secoli e mezzo, le elezioni non sono state affatto sempre competitive. Certo la diffusione dello strumento elettorale si rivelò estremamente rapida, dopo il 1788, quando fu adottato per designare i membri del primo Congresso degli Stati Uniti. Ma nelle tremila elezioni che si sono svolte dal 1788 a oggi, la sconfitta di chi era al potere è stato un evento piuttosto raro. E ciò naturalmente non è avvenuto soltanto per merito dei governi in carica, ma anche per effetto di qualche tipo di manipolazione (non necessariamente illegale) del voto. Per una lunga fase storica, una limitazione evidente riguardava la concessione dei diritti politici, ma anche in seguito non sono mancati altri tipi di manipolazione. Coloro che occupano una carica politica, a differenza dei loro sfidanti, possono infatti modificare le regole a loro vantaggio, strumentalizzare l’apparato statale, sfruttare le opportunità finanziarie o persino ‘aggiustare’ i risultati. Tanto che i gli esiti delle elezioni presidenziali celebrate nel mondo tra il 1975 e il 2000, secondo Przeworski, sono stati ‘viziati’ in un numero significativo di casi (tra il 19 e il 36 per cento). In altre parole, ciò significa che di rado le elezioni sono davvero ‘eque’, e cioè che gli sfidanti hanno effettivamente le stesse identiche opportunità dei candidati in carica.

Per quanto le condizioni di una piena competitività siano così difficili da raggiungere, Przeworski continua a sostenere una visione ‘minimalista’ e schumpeteriana, in cui la democrazia coincide con elezioni (almeno parzialmente) competitive. Certo, osserva il politologo, le elezioni non possono ridurre la diseguaglianza e creano costantemente insoddisfazione. E inoltre dobbiamo ‘realisticamente’ escludere che ci sia davvero, in tutte le occasioni, una piena eguaglianza di opportunità per tutte le forze politiche. Ciò nondimeno, solo le elezioni (anche solo in parte) competitive consentono di procedere in una relativa libertà e in una condizione di pace civile. Evitando soprattutto che i conflitti si trasformino in violenza.




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