di Damiano Palano
Questa recensione al libro di Adam Przeworski, Perché disturbarsi a
votare? (Università Bocconi Editore, pp. 189, euro 16.00), è apparsa su "Avvenire" il 27 gennaio 2019.
Fino a trent’anni fa i politologi non avevano grandi
difficoltà a stabilire dove passasse il confine tra regimi democratici e non
democratici. Da una parte stavano le democrazie liberali, con una pluralità di
partiti, elezioni competitive, garanzie di libertà civili e diritti politici.
Dall’altra, dittature militari o regimi in cui il potere era detenuto da un
singolo partito, in cui gli oppositori erano sottoposti a misure detentive o messi
sotto stretta sorveglianza. Dopo il 1989 le cose sono cambiate. Il numero delle
democrazie è sensibilmente cresciuto. Ma il confine tra democrazia e
non-democrazia si è fatto meno nitido, perché molti regimi autoritari hanno
iniziato a fare ricorso alle elezioni per darsi una legittimità nel nuovo
scenario internazionale.
Che le elezioni non siano di per sé una garanzia né di
democraticità né di pluralismo emerge però in modo piuttosto nitido dal libro
di Adam Przeworski, Perché disturbarsi a
votare? (Università Bocconi Editore, pp. 189, euro 16.00). Sulla scorta di
un’intera carriera di studi, il politologo statunitense di origine polacca mostra
infatti che, nella storia degli ultimi due secoli e mezzo, le elezioni non sono
state affatto sempre competitive. Certo la diffusione dello strumento
elettorale si rivelò estremamente rapida, dopo il 1788, quando fu adottato per
designare i membri del primo Congresso degli Stati Uniti. Ma nelle tremila
elezioni che si sono svolte dal 1788 a oggi, la sconfitta di chi era al potere
è stato un evento piuttosto raro. E ciò naturalmente non è avvenuto soltanto per
merito dei governi in carica, ma anche per effetto di qualche tipo di
manipolazione (non necessariamente illegale) del voto. Per una lunga fase
storica, una limitazione evidente riguardava la concessione dei diritti
politici, ma anche in seguito non sono mancati altri tipi di manipolazione. Coloro
che occupano una carica politica, a differenza dei loro sfidanti, possono
infatti modificare le regole a loro vantaggio, strumentalizzare l’apparato
statale, sfruttare le opportunità finanziarie o persino ‘aggiustare’ i
risultati. Tanto che i gli esiti delle elezioni presidenziali celebrate nel
mondo tra il 1975 e il 2000, secondo Przeworski, sono stati ‘viziati’ in un numero
significativo di casi (tra il 19 e il 36 per cento). In altre parole, ciò
significa che di rado le elezioni sono davvero ‘eque’, e cioè che gli sfidanti
hanno effettivamente le stesse identiche opportunità dei candidati in carica.
Per quanto le condizioni di una piena competitività
siano così difficili da raggiungere, Przeworski continua a sostenere una
visione ‘minimalista’ e schumpeteriana, in cui la democrazia coincide con
elezioni (almeno parzialmente) competitive. Certo, osserva il politologo, le elezioni
non possono ridurre la diseguaglianza e creano costantemente insoddisfazione. E
inoltre dobbiamo ‘realisticamente’ escludere che ci sia davvero, in tutte le
occasioni, una piena eguaglianza di opportunità per tutte le forze politiche.
Ciò nondimeno, solo le elezioni (anche solo in parte) competitive consentono di
procedere in una relativa libertà e in una condizione di pace civile. Evitando soprattutto
che i conflitti si trasformino in violenza.
Nessun commento:
Posta un commento