di Epimeteo*
Questi "appunti di lettura" dedicati al volume di Damiano Palano, Il segreto del politico. Alla ricerca dell'ontologia del "politico" (Rubbettino), sono apparsi sul sito Epimeteo. Materiali di teologia politica dell'Europa e contributi al realismo politico nel novembre 2018.
La prima impressione che si prova durante la lettura di questo testo del docente di Filosofia politica della Cattolica di Milano è il piacere di reimmergersi in una corrente calda, conosciuta e antica, quella del realismo politico dei Tucidide e Machiavelli, Hobbes, Weber e Schmitt, una corrente che Palano affronta con evidente compartecipazione, ma nello stesso tempo senza alcun timore reverenziale, men che meno nei confronti di quello che è stato, dagli anni ’50 agli anni ’90, il più importante rappresentante della “scienza politica” nell’università in cui Palano insegna, ossia Gianfranco Miglio, a cui viene dedicata un’analisi approfondita nel quarto capitolo, significativamente titolato Arcana imperii, in cui il pensiero di Miglio viene esaminato nei suoi punti di forza, ma anche nelle sue profonde antinomie.
In
generale, la lettura di Palano risulta particolarmente efficace nel mettere in
rilievo la contraddizione che percorre l’intero arco teorico del realismo
politico, ossia il conflitto tra “natura e “cultura”, tra antropologia e
storia. In effetti, il realismo politico, in quanto mira alla “verità
effettuale” della cosa (Machiavelli), ossia alla realtà del politico così come
si dà effettivamente, tematizza come oggetto specifico l’”essere” del politico,
al di là del dover essere della morale, dei “quadri valoriali”, delle ideologie
e delle utopie: ecco dunque la radice di una
“ontologia” del politico, che si rivela essenzialmente come relazione di
“dominio dell’uomo sull’uomo”, che si dà come un portato inevitabile della
“natura” dell’essere umano nella sua dimensione di continuità evolutiva con
l’animale, nella sua aggressività che infine mette capo alla metafora dell’homo homini lupus.
Di
conseguenza la relazione politica si configura schmittianamente in base al
“criterio del politico”, ossia alla diade amico/nemico, in cui tuttavia si dà una
predominanza del secondo dei due termini, dato che la relazione di amicizia
politica, ossia l’unità politica, si costituisce solo a
partire dalla presenza, o anche solo dalla possibilità della presenza del
nemico, si dà cioè fondamentalmente come risposta.
Tutto
ciò definisce il profilo di un’antropologia politica, con evidenti caratteri
pessimistici, che presume di aver individuato sul piano teoretico le costanti meta-temporali del comportamento umano e
quindi le “regolarità della politica”, un’espressione questa tipicamente
migliana, un’antropologia che agisce come critica di tutte le ideologie che si
illudono di poter “cambiare il mondo” e innanzitutto l’uomo, che ritengono di
poter istituire, attraverso il progresso della civilizzazione, relazioni politiche
che sappiano superare la dimensione intrinsecamente bellicosa delle relazioni
umane e dunque, infine, di poter superare il criterio stesso del politico,
ossia la relazione di inimicizia.
In
quanto si autoconcepisce come “scienza”, cioè come un sapere dell’essere
effettuale del politico, dell’ontologia del politico così come effettivamente
risulta ad una osservazione “scientifica” dell’”animale uomo”, il realismo
politico ha potuto quindi stabilire connessioni con
altre scienze naturali per le quali la dimensione della “corporeità” del
vivente è centrale: il riferimento evidente è all’etologia e alla biologia, nella
sua declinazione in termini di sociobiologia. Lo sviluppo dell’intreccio
tra il realismo politico come scienza e le scienze naturali ha condotto però ad
uno smarrimento della specificità della dimensione umana del politico, tale per
cui nella metafora dell’homo homini lupus
la dimensione dell’animalità, del lupus,
ha finito per configurare l’essenza stessa dell’umano, per cui la formula
stessa si è risolta in una tautologia, perdendo così la sua significatività di
traslato metaforico.
A
questo punto risulta particolarmente efficace il complesso argomentativo
attraverso il quale Palano mette in evidenza come questo schiacciamento dell’umanità
sull’animalità non sia tanto riprovevole sul piano morale, quanto piuttosto
finisca per obliare un carattere imprescindibile dell’uomo,
ossia il suo essere un “animale simbolico”, e di conseguenza “anche il
realismo si trova
costretto a riconoscere che nella ‘natura’ dell’essere umano – nella sua
specifica ‘natura’ di animale simbolico – si trova una dimensione che non è
riducibile alla sua richiesta di sicurezza o ai suoi appetiti.” (p. 78). Perciò,
l’appiattimento del realismo politico per esempio sull’etologia finisce per
smarrire un fattore imprescindibile dell’agire politico dell’uomo e determina
una sorta di amputazione ontologica dell’immagine antropologica.
Particolarmente
preziosa è l’osservazione di Palano seconda la quale questa dimensione
simbolica della relazione dell’uomo con il reale emerge nel cuore stesso del
criterio del politico, ossia nel fatto che l’aggressività umana si configura
con una radicale differenza rispetto a quella animale, dal momento che fin
dall’epoca più arcaica nel contesto della massima intensità dell’inimicizia,
cioè nella guerra, gli umani operano uno sdoppiamento della
figura del nemico: “(…) nelle società umane il conflitto appare
contrassegnato da quel paradosso per cui il nemico è allo stesso tempo
riconosciuto come ‘uguale’ (e cioè come appartenente alla medesima specie)
eppure rappresentato come ‘diverso’, come ‘animale’, come ‘sotto-umano’, o come
espressione di potenze malefiche.” (p. 283) In questo doppio volto del nemico,
da un lato come homo homini homo e
dall’altro come homo homini lupus, si
dà la specificità umana della massima intensità dell’aggressività in quanto
volontà di uccidere e a partire da questa duplicità si sviluppano le
elaborazioni simboliche del conflitto estremo.
Da
ciò deriva però, sullo stesso piano ontologico dell’essere dell’umano, che quel
“dominio dell’uomo sull’uomo” che appariva come una costante antropologica
finisce per determinarsi come imprescindibilmente condizionato dal punto di
vista storico e culturale e di conseguenza, e questa è la conclusione finale
della ricostruzione di Palano del dispositivo teorico del realismo politico, espressa
nelle ultime righe del libro: “(…) la ricerca sul dominio dell’uomo sull’uomo
non può che poggiarsi sulla magmatica superficie di relazioni di potere
inevitabilmente mutevoli. Senza poter mai conseguire una conoscenza della
‘natura umana’ non geneticamente plasmata dai calcoli del potere, e senza poter
mai davvero conquistare il ‘punto archimedico’ da cui decifrare gli enigmi
dell’’animale uomo’.” (p. 291)
Un
altro aspetto del lavoro di Palano sul quale val la pena di soffermarsi è la
critica così efficacemente sviluppata del percorso teorico di Miglio, che,
partendo dalla sottolineatura della specificità dell’”obbligazione politica”,
ha finito per smarrire nei suoi esiti conclusivi la differenza ontologica del
politico e per consegnarsi ad una concezione più amministrativa e tecnocratica
che politica. Infatti, nella sua ricostruzione dell’itinerario del magister comasco, Palano mette in
evidenza come quell’interprete della politica come scienza abbia preso le mosse
negli anni ’50 da una nozione dell’obbligazione politica che si atteneva al
realismo del “domino dell’uomo sull’uomo” e quindi articolava il suo discorso
nei termini dell’autonomia della politica dal diritto (vedi p. 175) e
sviluppava un concetto di “vincolo politico” ispirato fondamentalmente
all’ideal-tipo weberiano del potere carismatico basato sulla relazione tra il
capo e il suo seguito (che nel contesto storico in cui ha operato Miglio poteva
benissimo presentarsi nella figura del rapporto tra il capo-corrente di un
partito di massa, eventualmente democristiano, e le sue clientele). Su questa
base, Miglio poteva operare una netta distinzione tra “vincolo politico” e
“vincolo contrattuale (non politico)” (p. 176), una distinzione che tuttavia
andava progressivamente appannandosi, dal momento in cui Miglio si è aperto al
confronto con l’etologia e ha elaborato, a partire dagli anni ’70, una
concezione della genesi dell’obbligazione politica molto diversa da quella di
Carl Schmitt. Mentre questi poneva a fondamento della nascita dell’unità
politica una Landnahme,
un’appropriazione della terra cui seguiva il Teilen, cioè la suddivisione della proprietà tra i contraenti
dell’obbligazione politica, per Miglio, che in ciò seguiva le suggestioni della
paleoantropologia e dell’etologia, la genesi dell’unità politica si dava
nell’attività paleolitica della caccia e nella costituzione in tale attività
del rapporto tra capo e seguito. In quella attività di caccia (che, lo si deve
osservare, è manifestamente un’attività economica finché non compare un altro
gruppo umano col quale si apre il conflitto sul … territorio di caccia, cioè su
una Landnahme), il rapporto tra capo
e seguito finiva per riconfigurarsi come un rapporto economico inerente la
spartizione del bottino, una suddivisione che Miglio contrassegnava con
l’espressione di “rendita politica” (su tutto ciò si veda l’ottima
ricostruzione di Palano nei paragrafo 4 e 5, La spartizione originaria e Il
sacrificio e la rendita, del capitolo del libro interamente dedicato a
Miglio, il già ricordato Arcana imperii,
pp. 191 – 235).
Secondo
Palano (e non si può che concordare con lui), questa nozione di “rendita
politica”, apre nel sistema migliano di vincolo politico “un’aporia dirompente”
(p. 236), una contraddizione tra “politica forte” e “politica minima”, che in
ultima analisi non è che amministrazione: infatti, “quando riflette sul
<cristallo> dell’obbligazione politica, e quando ne ricostruisce gli
elementi strutturali, Miglio sembra riferirsi ad una concezione ‘forte’ della
politica” (ibidem); all’opposto, però, “mentre scorge nel nomos la spartizione originaria del capo-caccia, e mentre espone la
teoria della rendita politica, tende a pensare a una politica ‘minima’, ossia a
una politica che si riassume nell’amministrazione (più o meno ‘ordinaria’)
delle rendite di posizione, nella contrattazione e nello scambio fra ‘gruppi
corporati’, nella distribuzione di redditi ‘garantiti’ ai clienti che offrono
appoggio al patrono.” (p. 237) E per fortuna a Miglio è stato risparmiato di
dover assistere alla trasfigurazione della sua “rendita politica” in “reddito di
cittadinanza” …
In
ogni caso, ciò che più rileva osservare è la parabola teorica di uno scienziato
del realismo politico che, prendendo avvio da una concezione forte della
politica e da una netta distinzione tra “vincolo politico” e “vincolo
contrattuale”, è approdata infine al riconoscimento del carattere transeunte
del politico e del suo esaurimento in modalità funzionalistiche ed
economicistiche: “Negli anni Novanta, Miglio finisce con l’approdare all’idea
secondo cui l’obbligazione politica è destinata a essere interamente
‘assorbita’ dal contratto, e cioè a un’idea per cui sembra addirittura che –
insieme allo Stato – sia destinato ormai a venir meno anche lo stesso ‘patto
politico’.” (pp. 234 – 235) Tuttavia, di fronte a questo esito impolitico del suo
realismo politico, bisogna almeno riconoscere a Miglio di esser stato
profetico: non viviamo forse tutti noi in un paese in cui un cosiddetto
“governo” si costituisce sulla base di un cosiddetto “contratto”? Ma la stessa
Unione Europea è forse qualcosa di più di un “vincolo contrattuale”? E non sta
in ciò la radice più profonda della sua crisi?
Giungendo
ora alle conclusioni di questi brevi appunti sulla ricerca di Palano sul “segreto del potere”, che qui è stata
sintetizzata in modo molto sommario, preme mettere in evidenza soprattutto il
tema particolarmente stimolante, cui si è già accennato in precedenza, della duplicità
della relazione col nemico, quell’homo
homini homo che tuttavia nello stesso tempo è un homo homini lupus. A questo riguardo si rivelano di incomparabile
profondità le osservazioni sviluppate da Carl Schmitt in alcuni passi del suo Glossario, quel diario teoretico che il
giurista tedesco ha tenuto tra gli anni 1947 e 1951, il periodo più drammatico
della sua esistenza, dopo il processo di Norimberga e la sua condanna all’esclusione
dall’insegnamento. Nella pagina del 15 gennaio 1948, si può leggere:
“Il
piccolo uomo, il parvus homo, diventa
ancor più piccolo, un homunculus, mentre
il grande uomo, il magnus homo,
diventa ancora più grande, un Deus. Homo homini homo, ecco il punto zero
dell’indifferenza pura. Qui la relazione non può conservarsi in pratica nemmeno
per un istante. Per guadagnare tensione essa si scinde immediatamente in
opposti poli, in elettroni carichi di energia positiva e negativa. L’uno sale,
l’altro scende. Il magnus homo,
‘raggiunge la divinità’, diviene un fabbricante; il parvus homo diventa ‘più animalesco di un animale’, diviene un
fabbricato. Quella di lupus è davvero
una categoria ancora molto umana; il lupus
è pur sempre una creatura in confronto ai fabbricanti del brave new world! Perfino il lupo mannaro.” (Glossario, Giuffrè Editore, Milano, 2001, p. 116)
Questo
brano, in cui la polarizzazione tra “fabbricante” e “fabbricato” allude alla
de-umanizzazione specifica dell’”età della tecnica” e alla trasformazione della
relazione politica nella tecnicità dell’amministrazione, trova il suo seguito
naturale nella annotazione del 15 maggio:
“Homo homini homo, ciò non significa
nient’altro che: segnare il passo, proprio nel punto zero del concetto, che
immediatamente si scinde a destra e a sinistra, in alto e in basso; homo homini lupus o deus. La tipica neutralizzazione nel punto morto consiste nel
sopportare la divisione, ma non volervi partecipare attivamente; meglio segnare
il passo, stare in bilico, sul filo del rasoio, attenendosi al trascendentale
kantiano, fra trascendente ed empirico, rimanendo, svincolati e liberi in ogni
direzione, nella limpida purezza del concetto, nella purezza intatta, cioè
irrealizzata, dell’idealismo tedesco; dalla ragione pura alla pura
irragionevolezza.” (ivi, p. 208)
Come
è evidente, questi passi di Schmitt si collocano nella medesima cornice
problematica del “paradosso del politico” segnalato da Palano, dello
sdoppiamento della figura del nemico in uomo e animale. Ed è chiaro anche quale
sia l’obiettivo polemico di Schmitt, ossia quell’umanitarismo illuminista e
idealista che presume di poter neutralizzare l’estrema problematicità della
relazione infra-umana individuando il “punto zero” dell’identità egalitaria
dell’homo homini homo, giuridicamente
formalizzata nella figura del “cittadino” e tecnicizzata nella relazione
apparentemente impolitica dell’amministrazione del Welfare. Tale neutralizzazione non può che fallire di fronte alla
tensione implicita nell’amico/nemico e nella conseguente scissione
estremizzante tra de-umanizzazione e divinizzazione.
Di
fronte a questa costellazione di problemi, che non possono essere certo
approfonditi in questi brevi appunti, il gruppo Epimeteo si muove da alcuni anni lungo la linea di ricerca di un
“personalismo politico” che potrebbe essere riassunto nella formula homo homini persona, dove la relazione
infraumana non si risolve nella indifferenziata identità dell’homo homini homo, ma mantiene la
tensione e la differenza tra la naturalità immanente dell’homo e l’apertura alla trascendenza della persona, seguendo in un certo senso una sollecitazione contenuta in
un altro passo del Glossario, quello
del 18 agosto 1948:
“L’homme passe infinement l’homme.
Applica questa frase all’assurdo homo
homini homo e mettine alla prova tutta l’evasività.” (p. 268)
Tuttavia,
è necessario precisare qui che il termine persona
non è certo assunto nella genericità a cui è stato ridotto nel linguaggio
comune, per esempio nell’espressione riguardante il “rispetto della dignità
della persona”. Epimeteo assume il
termine persona innanzitutto in
contrapposizione a quella nozione di “individuo” che sta a fondamento della
tradizione liberale; ma soprattutto va messa in evidenza tutta la specificità e
la pregnanza di significato che la parola
persona ha acquisito a partire dal
dibattito teologico sulle relazioni tra le tre persone di cui è costituito, per
i cristiani, l’unico dio, in quel concilio di Nicea che ha segnato una svolta
decisiva nel superamento di una concezione di dio come unità e identità
indifferenziata e nell’affermazione della natura trinitaria del dio cristiano e
delle sue “relazioni sostanziali”. Sul piano antropologico allora, persona finisce per significare
“immagine di dio”, ma di un dio la cui identità è relazione interpersonale. Perciò
la naturalità dell’uomo viene superata in questa apertura alla trascendenza che
si dà nella nozione di “immagine di dio” concepita alla luce di quella
metafisica della analogia entis, che
meriterebbe una approfondita rivisitazione.
Dunque,
la formula homo homini persona può
essere così riformulata: homo homini
imago dei, la quale agisce come barriera contro ogni de-umanizzazione, ma
anche contro ogni divinizzazione dell’homo
homini deus, che sta alla base del rapporto carismatico tra il capo e il
seguito. Ciò implica, inoltre, che il nemico mi rimanda comunque una imago dei anche nel momento della
massima intensità della dissociazione e della contrapposizione, anche nell’atto
estremo dell’uccidere. Allora il realismo, che riconosce la necessità, in
determinati contesti, di questa intensità estrema, saprà anche riconoscere
sempre nel nemico che ha di fronte l’immagine di dio, per quanto deturpata essa
possa essere. Solo su questa base si può sperare di istituire un limite alla
violenza estrema, un confine al suo travalicare nel sadismo puro, o nella
criminalizzazione e/o patologizzazione del nemico, solo su questa base il
nemico può configurarsi come “fratello”, secondo l’enigmatica sentenza
di Ex captivitate salus: “Chi posso
in generale riconoscere come mio nemico? Evidentemente soltanto colui che mi
può mettere in questione. Riconoscendolo come
nemico, riconosco ch’egli mi può mettere in questione. E chi mi può mettermi
realmente in questione? Solo io stesso. O mio fratello. Ecco. L’Altro è mio
fratello. L’Altro si rivela fratello mio, e il fratello mio nemico”. (pp. 91 –
92, Adelphi, Milano 1987).
Tutto
ciò però, evidentemente, implica un salto da una antropologia che, pur tenendo
in sé la dimensione del simbolico e persino del “sacro”, rimane comunque chiusa
in un orizzonte di immanenza, ad una antropologia teologico-politica e dunque
un salto da una “ontologia del politico” ad una “teologia politica”.
Del
resto, una delle più efficaci rappresentazioni del realismo politico, in cui in
uno schema di poche righe si mettono in connessione parole chiave come veritas, auctoritas, potestas, securitas, cioè lo schmittiano
“cristallo di Hobbes”, viene definito dal suo autore “aperto alla
trascendenza”.
* Epimeteo è il nome di un gruppo di ricercatori impegnato in' unattività che ha per oggetto l’individuazione di percorsi teorici utili a comprendere l’epoca attuale e ad individuare le sue possibili evoluzioni. Epimeteo ritiene che il presente sia caratterizzato dalla fine dell’ Europa intesa come spazio politico istituzionale costituitosi all’interno di uno spazio ideale dominato dalla religione cristiana. L’esaurirsi di tale spazio viene indagato cogliendone la genesi nel emergere della modernità e delle specifiche forme che essa intrattiene la religione e la teologia. Questi temi hanno avuto una un primo sono stati oggetto di un saggio “Finis Europae” scritto da Epimeteo nel 2006 che rappresenta il momento sintetico di partenza delle indagini condotte dal gruppo di lavoro. La ricerca di Epimeteo intende fornire strumenti che possano contribuire ad un rilancio dell’ Europa nella considerazione che ciò può avvenire attraverso una ritrovata dimensione ideale. Si tratta di un percorso che si sostanzia nel fornire un punto vista di Epimeteo sulle risposte che alcune figure chiave del pensiero occidentale hanno fornito. Questo spazio intende anche accogliere i momenti di sintesi che la ricerca realizza nel suo tragitto. Lo spirito aperto con cui Epimeteo interpreta la propria missione teorica comporta che in questa sede sia anche previsto un’area dedicata a contributi esterni reperibili nella rete. La scelta del ricorso al nome Epimeteo per indicare il gruppo di ricercatori obbedisce alla volontà di enfatizzare la dimensione collettiva e non accademica con cui il lavoro viene condotto ma vuole soprattutto rivelare una affinità ideale con un personaggio della mitologia classica. Epimeteo si contrappone al più popolare fratello Prometeo. L’imprudente Epimeteo si accorge in ritardo di essere stato ingannato dalla moglie Pandora che aprendo il vaso in cui erano contenuti i mali del mondo determina la loro diffusione tra gli uomini lasciando a questi ultimi solo la speranza (questo testo è tratto dal sito www.epimeteo.org).
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