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lunedì 28 gennaio 2019

Democrazia, se il voto conta davvero. Un libro di Adam Przeworski




di Damiano Palano



Questa recensione al libro di Adam Przeworski, Perché disturbarsi a votare? (Università Bocconi Editore, pp. 189, euro 16.00), è apparsa su "Avvenire" il 27 gennaio 2019.

Fino a trent’anni fa i politologi non avevano grandi difficoltà a stabilire dove passasse il confine tra regimi democratici e non democratici. Da una parte stavano le democrazie liberali, con una pluralità di partiti, elezioni competitive, garanzie di libertà civili e diritti politici. Dall’altra, dittature militari o regimi in cui il potere era detenuto da un singolo partito, in cui gli oppositori erano sottoposti a misure detentive o messi sotto stretta sorveglianza. Dopo il 1989 le cose sono cambiate. Il numero delle democrazie è sensibilmente cresciuto. Ma il confine tra democrazia e non-democrazia si è fatto meno nitido, perché molti regimi autoritari hanno iniziato a fare ricorso alle elezioni per darsi una legittimità nel nuovo scenario internazionale.

Che le elezioni non siano di per sé una garanzia né di democraticità né di pluralismo emerge però in modo piuttosto nitido dal libro di Adam Przeworski, Perché disturbarsi a votare? (Università Bocconi Editore, pp. 189, euro 16.00). Sulla scorta di un’intera carriera di studi, il politologo statunitense di origine polacca mostra infatti che, nella storia degli ultimi due secoli e mezzo, le elezioni non sono state affatto sempre competitive. Certo la diffusione dello strumento elettorale si rivelò estremamente rapida, dopo il 1788, quando fu adottato per designare i membri del primo Congresso degli Stati Uniti. Ma nelle tremila elezioni che si sono svolte dal 1788 a oggi, la sconfitta di chi era al potere è stato un evento piuttosto raro. E ciò naturalmente non è avvenuto soltanto per merito dei governi in carica, ma anche per effetto di qualche tipo di manipolazione (non necessariamente illegale) del voto. Per una lunga fase storica, una limitazione evidente riguardava la concessione dei diritti politici, ma anche in seguito non sono mancati altri tipi di manipolazione. Coloro che occupano una carica politica, a differenza dei loro sfidanti, possono infatti modificare le regole a loro vantaggio, strumentalizzare l’apparato statale, sfruttare le opportunità finanziarie o persino ‘aggiustare’ i risultati. Tanto che i gli esiti delle elezioni presidenziali celebrate nel mondo tra il 1975 e il 2000, secondo Przeworski, sono stati ‘viziati’ in un numero significativo di casi (tra il 19 e il 36 per cento). In altre parole, ciò significa che di rado le elezioni sono davvero ‘eque’, e cioè che gli sfidanti hanno effettivamente le stesse identiche opportunità dei candidati in carica.

Per quanto le condizioni di una piena competitività siano così difficili da raggiungere, Przeworski continua a sostenere una visione ‘minimalista’ e schumpeteriana, in cui la democrazia coincide con elezioni (almeno parzialmente) competitive. Certo, osserva il politologo, le elezioni non possono ridurre la diseguaglianza e creano costantemente insoddisfazione. E inoltre dobbiamo ‘realisticamente’ escludere che ci sia davvero, in tutte le occasioni, una piena eguaglianza di opportunità per tutte le forze politiche. Ciò nondimeno, solo le elezioni (anche solo in parte) competitive consentono di procedere in una relativa libertà e in una condizione di pace civile. Evitando soprattutto che i conflitti si trasformino in violenza.




domenica 20 gennaio 2019

Rivolta della “gente” o ribellione delle “élite”? Un articolo di Marco Almagisti e Paolo Graziano



di Marco Almagisti e Paolo Graziano

L’intervento di Alessandro Baricco sulla Repubblica dell’undici gennaio si propone di sintetizzare l’insieme dei mutamenti che stanno caratterizzando le democrazie occidentali negli ultimi anni, mostrando come sia “andato in pezzi un certo patto tra le élites e la gente”.
Secondo Baricco è la “gente” che ha infranto questo patto. Per quale motivo? “Una prima risposta è facile: la crisi economica. Intanto le élites non l’avevano prevista. Poi hanno tardato ad ammetterla. Infine, quando tutto ha iniziato a franare, hanno messo al sicuro se stesse e hanno rimbalzato i sacrifici sulla gente”. Oltre agli effetti della crisi economica, Baricco individua una seconda ragione, che sta alla radice del suo ultimo libro, The Game (Einaudi): si tratta dell’impatto delle nuove tecnologie della comunicazione, che consentono a tutti l’accesso ad attività precedentemente riservate solo a pochi privilegiati. Attingere a qualsiasi informazione, comunicare con tutti, esprimere le proprie opinioni di fronte a platee immense, trasmettere le proprie concezioni della bellezza. Secondo Baricco queste due cause della “rivolta della gente” sono fortemente intrecciate: mentre le tecnologie (The Game) redistribuiscono il potere, non concorrono in alcun modo a redistribuire ricchezza. Malgrado avvisaglie distintamente avvertibili anche prima, è dalla crisi economica del 2008 che tale miscela diviene esplosiva, generando, secondo Baricco “una sequenza implacabile di impuntature, di apparenti deviazioni dal buon senso, se non dalla razionalità”, forme eterogenee di protesta, tutte accomunabili dall’essere generate dalla “gente” contro le scelte delle élite. Scelte, sottolinea con vigore Baricco, spesso miopi, dimentiche delle difficoltà e dei drammi vissuti da milioni di persone escluse dai privilegi diffusi nella “bolla” elitaria.
Sempre su Repubblica, il 14 gennaio Marianna Mazzuccato ha precisato che “la democrazia ha creato società meno inique quando gli “esclusi” hanno saputo rappresentarsi e strappare alle élite concessioni che hanno reso meno penosa e più piena la vita di tutti (spesso anche delle élite stesse)”. Il focus dell’intervento di Mazzuccato è posto sul conflitto, sul fatto che molti diritti di cittadinanza che ancora oggi caratterizzano l’esistenza di molte persone, almeno nei paesi occidentali, sono stati ottenuti attraverso il conflitto (“conflitto di cittadinanza” lo definisce Giovanni Moro) e “non sono stati graziosamente concessi dalle élite”. La precisazione di Mazzuccato è molto opportuna. Infatti, consente di porre l’attenzione sulla lotta all’esclusione quale molla per l’estensione dei diritti di cittadinanza e consente di recuperare la fertilità dell’idea del conflitto che, nel lungo intervento di Baricco, rimaneva sullo sfondo. Sullo sfondo del ragionamento di Baricco rimane non soltanto il conflitto relativo all’inclusione, bensì anche quello interno alle élite, che dovrebbe caratterizzare la democrazia contemporanea (che è liberale e pluralista o non è). 
Come viene descritta l’élite da Baricco? “Riassumendo: una minoranza ricca e molto potente […] Possono essere di sinistra come di destra. Una sorprendente cecità morale – mi sento di aggiungere – impedisce loro di vedere le ingiustizie e la violenza che tengono in piedi il sistema in cui credono”. Forse, una prima radice della crisi delle élite sta proprio qui, la ravvisa Baricco stesso: possono essere di sinistra come di destra, sono comunque dei “privilegiati”. Proviamo a pensare all’impatto di una concezione cosiffatta in ambito politico (il primo ad essere investito dalla protesta): ossia nei comportamenti e atteggiamenti di quella sezione della élite rappresentata dalla classe politica. Il tratto distintivo delle sue componenti non è più tanto nelle visioni del mondo o nelle proposte concrete che dovrebbero contrapporre una parte della classe politica alle altre, quanto nel privilegio che le differenzia dal resto della società. Ora, anche le teorie più realistiche della democrazia (si pensi a Schumpeter) hanno fondato la legittimità del sistema democratico sull’esistenza di una lotta fra élite in competizione reciproca. Per decenni, la competizione fra le élite ha riguardato differenti valori e interessi, ossia differenti progetti per la società. Dopo la seconda guerra mondiale, il patto fra élite e cittadini si è retto a lungo sul confronto fra progetti sociali alternativi, che davano nerbo e senso alla convivenza democratica e consentivano opportuni compromessi, non solo fra le differenti élite, bensì anche fra le differenti porzioni di società che nelle proposte delle élite si riconoscevano. Le conquiste del Welfare, richiamate da Mazzuccato, sono sorte e si sono consolidate anche in questo modo: il conflitto fra progetti alternativi ha prodotto un compromesso che si è retto sulla redistribuzione di parte dei benefici della crescita. Ma quali progetti alternativi possono mai dispiegarsi e confrontarsi se i governi debbono solo attivare il “pilota automatico”? La contrapposizione fra “élite” e “gente” (quanto nel linguaggio della scienza politica viene identificato nella linea di frattura fra establishment e anti-establishment) assume toni drammatici se resta la sola distinzione possibile. Le élite sono fatalmente destinate ad essere considerate “casta” se non competono fra loro in virtù di proposte alternative per il governo della società. Se, sulla base di queste proposte alternative e sulla credibilità con cui si cerca di promuoverle, non viene assicurata una “circolazione delle élite”.
Possiamo chiederci, allora, se davvero sia stata “la gente” a rompere il patto, oppure se non avesse qualche buona ragione, già a metà degli anni Novanta, Cristopher Lasch a discorrere di “ribellione delle élite” (cfr. “La ribellione delle élite. Il tradimento della democrazia”, Feltrinelli, 1996), identificando con questa espressione la volontà degli strati privilegiati della società di sottrarsi ad ogni legame comunitario e di assolutizzare il proprio stile di vita, misurando ogni differenza rispetto al proprio stile quale forma di manchevolezza. Quante volte a proposito dei processi che nutrono la bolla in cui vivono le élite (globalizzazione, mercato) abbiamo sentito ripetere lo slogan della signora Thatcher che molto opportunamente Baricco ha inserito in esergo: “There is No Alternative”? Il riferimento alla Thatcher potrebbe aiutarci a riflettere su quale patto fra élite e “gente” è andato in frantumi a causa della crisi esplosa nel 2008. Probabilmente stiamo vivendo oggi la crisi di un lungo ciclo politico avviato dalla vittoria elettorale di Margareth Thatcher nel 1979, ma preconizzato con chiarezza nel 1975 allorché la New York University Press dava alle stampe un testo elaborato da tre rilevanti scienziati sociali, quali Michel Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki, “La crisi della democrazia. Rapporto sulla governabilità delle democrazie alla Commissione Trilaterale”, in cui si raccomandava di risolvere le crisi di sovraccarico delle democrazie consolidate, riducendo gli spazi di partecipazione dei cittadini e rafforzando il ruolo dell’autorità e dei mercati. Per inciso, questa proposta ha rappresentato una cesura profonda rispetto agli orientamenti contenuti nelle Costituzioni della c.d. “seconda ondata di democratizzazione”. Tali Costituzioni erano state redatte dopo le catastrofi del fascismo e del nazismo e, pertanto, riflettevano l’intenzione delle classi dirigenti di ricostruire la democrazia su solide basi sociali (si pensi all’articolo 3 della Costituzione della Repubblica italiana, in cui le principali culture politiche del tempo evidenziarono il nesso fra democrazia, uguaglianza e partecipazione dei cittadini). 
Non può stupire che l’Europa sia entrata nel mirino della contestazione anti-establishment. Eppure, come anche Baricco sottolinea, questo non significa necessariamente rifiuto dell’idea di un’Europa unita. Ad essere criticata è la gestione elitaria dell’Europa e, soprattutto, una serie di decisioni prese dalle élite. Ed anche questo non può meravigliare, nei giorni in cui le politiche di austerità suggeriscono parole di autocritica persino all’attuale Presidente del Collegio dei Commissari europei, Juncker. Anche l’austerità ha rappresentato uno “strappo” delle élite, un ampliamento della distanza che separa le élite dalla “gente”.
Contrariamente a quanto sosteneva nel 1975 il Rapporto alla Commissione Trilaterale che abbiamo citato prima, secondo il quale la crescita della partecipazione avrebbe condotto ad una crisi della democrazia, il “malessere democratico” è scaturito in questi anni proprio dallo scollamento fra cittadini ed élite. Abituate a rimuovere il conflitto, a considerare secondario il consenso popolare riguardo alle decisioni politiche, le élite hanno a lungo etichettato i cittadini delusi in modo sprezzante: emotivi (come se le emozioni non avessero sempre un peso determinante nelle relazioni politiche e sociali), incompetenti, vittime di fake news. È una strada che impedisce un’adeguata comprensione dei cambiamenti che attraversano le nostre società e non consente di ricostruire legami di fiducia, come hanno sperimentato molti membri delle élite partitiche tradizionali che hanno provato a percorrerla. Sono possibili altre strade? Negli ultimi anni, alcuni partiti definiti “neopopulisti” hanno trovato nuovi canali di collegamento con la “gente” e lo hanno fatto seguendo strade a volte differenti: alcune formazioni “esclusive” hanno tematizzato la risposta nazionalista alla globalizzazione; altre, “inclusive”, hanno tematizzato soprattutto la critica alla disuguaglianza che caratterizza le nostre società per responsabilità delle scelte prese dalle élite (che non sono solo la classe politica, ovviamente, bensì anche le élite economiche e intellettuali, spesso abili a scaricare sulla classe politica ogni responsabilità). Sono attori nuovi (o rinnovati) che, in modi diversi, cercano di dare forma ai conflitti che emergono nella contemporaneità.
Baricco invita a diffidare della riduzione della complessità che spesso accompagna la critica alle élite. Ha ragione: la complessità è ineludibile. Mazzuccato, nella sua chiusura, ha rivolto l’attenzione verso quella complessità che esiste nella società e che spesso resta attutita nelle rappresentazioni prevalenti. Si tratta dei movimenti, dei cittadini attivi impegnati per la salvaguardia e il buon funzionamento delle istituzioni collettive, per un utilizzo virtuoso dei dati: “bisogna guardare queste nuove forme di relazione, capirle e moltiplicarle”. Ne conveniamo. E pensiamo che questa sia una grande sfida per il futuro: servono attori che siano in grado di comprendere e gestire la complessità, recuperando un rapporto profondo con le cittadine e i cittadini, con le loro necessità e i loro desideri.
Marco Almagisti e Paolo Graziano

giovedì 17 gennaio 2019

I pastori sardi e l’utopia dell’«economia civile» . Le "pillole" di Alessandra Smerilli



di Damiano Palano

Questo testo è apparso sul quotidiano "Avvenire" il 6 giugno 2018.

Tra i pastori sardi si è conservata un’antica tradizione. Quando a causa di una calamità naturale, o per altri motivi, un pastore perde il proprio gregge, ognuno dei suoi amici e dei suoi vicini gli dona una propria pecora. Un simile regalo naturalmente non impoverisce nessuno. Ma in questo modo lo sventurato pastore può tornare ad avere un proprio piccolo gregge. E può rialzarsi dopo la disgrazia. Questa forma di mutualismo si chiama sa paradura, un’espressione che, più o meno, significa «tornare alla pari». Ed è uno dei molti esempi cui Suor Alessandra Smerilli ricorre, nel suo libretto Pillole di economia civile e del ben vivere (curato da Laura Badaracchi, Ecra, pp. 156, euro 15.00), per illustrare la logica di un’economia ben diversa da quella che ammette solo la logica dell’utilitarismo individualistico. Il volume nasce infatti dalla trasmissione radiofonica Pensiero del giorno, andata in onda per diversi anni su Radio 1 Rai, in cui Smerilli – docente di Economia politica alla Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione «Auxilium» di Roma – puntava a illustrare, ricorrendo alla forza dell’esempio, un altro modo di guardare all’economia. La tradizione mutualista dei pastori sardi è d’altronde la tangibile esperienza di una società tenuta insieme dalla fiducia e dalla certezza che esiste una comunità pronta a correre in soccorso di chi si trovi in una condizione di bisogno. Ed è uno dei tanti esempi che mostrano l’importanza – anche economica – della gratuità, che non coincide ovviamente con ciò che è «gratis», con ciò che viene regalato ma non è essenziale. Perché la gratuità non ha a che vedere con le ‘cose’, ma con il modo con cui ci si relaziona con gli altri e con la natura. In altre parole, la gratuità – che è una dimensione costitutiva di ogni essere umano – consiste nel vedere le persone e le cose non come un mezzo, ma come un fine.

Le sessantatré pillole raccolte nel libro di Smerilli si collocano nel solco dell’«economia civile» di Antonio Genovesi, che sul finire del Settecento scriveva: «È legge dell’universo che non si può fare la propria felicità senza far quella degli altri». Se, secondo Smith, la specificità degli esseri umani stava nella capacità di scambiare e barattare, per Genovesi la socialità umana si mostrava invece soprattutto nel «reciproco diritto di essere soccorsi», oltre che nella «reciproca obbligazione di soccorrerci nei nostri bisogni». Ad accomunarci – chiosa Smerilli, aggiornando la vecchia lezione di Genovesi – è la fragilità, la vulnerabilità che fa sì che abbiamo bisogno della cura degli altri. Pensando a un’«economia civile», Smerilli riprende così la proposta della filosofa canadese Jennifer Nedelsky, la quale immagina un mondo in cui ognuno non debba lavorare più di 30 ore alla settimana, ma in cui nessuno dedichi meno di 12 ore alla cura dei propri familiari e dei propri concittadini. «Pensiamo come diventerebbe una città se tutti lavorassimo meno e tutti ci prendessimo cura degli altri…». Certo si tratta quasi di un’utopia. Ma «che l’impossibile diventi possibile dipende anche da noi, da ciascuno di noi: siamo noi che decidiamo come allocare il nostro tempo», scrive Smerilli. E quell’utopia – che forse non è neppure così irrealistica – merita allora di essere presa sul serio.


martedì 15 gennaio 2019

Dall'ontologia del "politico" alla teologia politica. Una riflessione di Epimeteo a partire da "Il Segreto del potere" di Damiano Palano


di Epimeteo*

Questi "appunti di lettura" dedicati al volume di Damiano Palano, Il segreto del politico. Alla ricerca dell'ontologia del "politico" (Rubbettino), sono apparsi sul sito Epimeteo. Materiali di teologia politica dell'Europa e contributi al realismo politico nel novembre 2018.

La prima impressione che si prova durante la lettura di questo testo del docente di Filosofia politica della Cattolica di Milano è il piacere di reimmergersi in una corrente calda, conosciuta e antica, quella del realismo politico dei Tucidide e Machiavelli, Hobbes, Weber e Schmitt, una corrente che Palano affronta con evidente  compartecipazione, ma nello stesso tempo senza alcun timore reverenziale, men che meno nei confronti di quello che è stato, dagli anni ’50 agli anni ’90,  il più importante rappresentante della “scienza politica” nell’università in cui Palano insegna, ossia Gianfranco Miglio, a cui viene dedicata un’analisi approfondita nel quarto capitolo,  significativamente titolato Arcana imperii, in cui il pensiero di Miglio viene esaminato nei suoi punti di forza, ma anche nelle sue profonde antinomie.

In generale, la lettura di Palano risulta particolarmente efficace nel mettere in rilievo la contraddizione che percorre l’intero arco teorico del realismo politico, ossia il conflitto tra “natura e “cultura”, tra antropologia e storia. In effetti, il realismo politico, in quanto mira alla “verità effettuale” della cosa (Machiavelli), ossia alla realtà del politico così come si dà effettivamente, tematizza come oggetto specifico l’”essere” del politico, al di là del dover essere della morale, dei “quadri valoriali”, delle ideologie e delle utopie: ecco dunque la radice di una “ontologia” del politico, che si rivela essenzialmente come relazione di “dominio dell’uomo sull’uomo”, che si dà come un portato inevitabile della “natura” dell’essere umano nella sua dimensione di continuità evolutiva con l’animale, nella sua aggressività che infine mette capo alla metafora dell’homo homini lupus.
Di conseguenza la relazione politica si configura schmittianamente in base al “criterio del politico”, ossia alla diade amico/nemico, in cui tuttavia si dà una predominanza del secondo dei due termini, dato che la relazione di amicizia politica, ossia l’unità politica, si costituisce solo a partire dalla presenza, o anche solo dalla possibilità della presenza del nemico, si dà cioè fondamentalmente come risposta.
Tutto ciò definisce il profilo di un’antropologia politica, con evidenti caratteri pessimistici, che presume di aver individuato sul piano teoretico le costanti meta-temporali del comportamento umano e quindi le “regolarità della politica”, un’espressione questa tipicamente migliana, un’antropologia che agisce come critica di tutte le ideologie che si illudono di poter “cambiare il mondo” e innanzitutto l’uomo, che ritengono di poter istituire, attraverso il progresso della civilizzazione, relazioni politiche che sappiano superare la dimensione intrinsecamente bellicosa delle relazioni umane e dunque, infine, di poter superare il criterio stesso del politico, ossia la relazione di inimicizia.
In quanto si autoconcepisce come “scienza”, cioè come un sapere dell’essere effettuale del politico, dell’ontologia del politico così come effettivamente risulta ad una osservazione “scientifica” dell’”animale uomo”, il realismo politico ha potuto quindi stabilire connessioni con altre scienze naturali per le quali la dimensione della “corporeità” del vivente è centrale: il riferimento evidente è all’etologia e alla biologia, nella sua declinazione in termini di sociobiologia. Lo sviluppo dell’intreccio tra il realismo politico come scienza e le scienze naturali ha condotto però ad uno smarrimento della specificità della dimensione umana del politico, tale per cui nella metafora dell’homo homini lupus la dimensione dell’animalità, del lupus, ha finito per configurare l’essenza stessa dell’umano, per cui la formula stessa si è risolta in una tautologia, perdendo così la sua significatività di traslato metaforico.
A questo punto risulta particolarmente efficace il complesso argomentativo attraverso il quale Palano mette in evidenza come questo schiacciamento dell’umanità sull’animalità non sia tanto riprovevole sul piano morale, quanto piuttosto finisca per obliare un carattere imprescindibile dell’uomo, ossia il suo essere un “animale simbolico”, e di conseguenza “anche il realismo si trova costretto a riconoscere che nella ‘natura’ dell’essere umano – nella sua specifica ‘natura’ di animale simbolico – si trova una dimensione che non è riducibile alla sua richiesta di sicurezza o ai suoi appetiti.” (p. 78). Perciò, l’appiattimento del realismo politico per esempio sull’etologia finisce per smarrire un fattore imprescindibile dell’agire politico dell’uomo e determina una sorta di amputazione ontologica dell’immagine antropologica.
Particolarmente preziosa è l’osservazione di Palano seconda la quale questa dimensione simbolica della relazione dell’uomo con il reale emerge nel cuore stesso del criterio del politico, ossia nel fatto che l’aggressività umana si configura con una radicale differenza rispetto a quella animale, dal momento che fin dall’epoca più arcaica nel contesto della massima intensità dell’inimicizia, cioè nella guerra, gli umani operano uno sdoppiamento della figura del nemico: “(…) nelle società umane il conflitto appare contrassegnato da quel paradosso per cui il nemico è allo stesso tempo riconosciuto come ‘uguale’ (e cioè come appartenente alla medesima specie) eppure rappresentato come ‘diverso’, come ‘animale’, come ‘sotto-umano’, o come espressione di potenze malefiche.” (p. 283) In questo doppio volto del nemico, da un lato come homo homini homo e dall’altro come homo homini lupus, si dà la specificità umana della massima intensità dell’aggressività in quanto volontà di uccidere e a partire da questa duplicità si sviluppano le elaborazioni simboliche del conflitto estremo.
Da ciò deriva però, sullo stesso piano ontologico dell’essere dell’umano, che quel “dominio dell’uomo sull’uomo” che appariva come una costante antropologica finisce per determinarsi come imprescindibilmente condizionato dal punto di vista storico e culturale e di conseguenza, e questa è la conclusione finale della ricostruzione di Palano del dispositivo teorico del realismo politico, espressa nelle ultime righe del libro: “(…) la ricerca sul dominio dell’uomo sull’uomo non può che poggiarsi sulla magmatica superficie di relazioni di potere inevitabilmente mutevoli. Senza poter mai conseguire una conoscenza della ‘natura umana’ non geneticamente plasmata dai calcoli del potere, e senza poter mai davvero conquistare il ‘punto archimedico’ da cui decifrare gli enigmi dell’’animale uomo’.” (p. 291)


Un altro aspetto del lavoro di Palano sul quale val la pena di soffermarsi è la critica così efficacemente sviluppata del percorso teorico di Miglio, che, partendo dalla sottolineatura della specificità dell’”obbligazione politica”, ha finito per smarrire nei suoi esiti conclusivi la differenza ontologica del politico e per consegnarsi ad una concezione più amministrativa e tecnocratica che politica. Infatti, nella sua ricostruzione dell’itinerario del magister comasco, Palano mette in evidenza come quell’interprete della politica come scienza abbia preso le mosse negli anni ’50 da una nozione dell’obbligazione politica che si atteneva al realismo del “domino dell’uomo sull’uomo” e quindi articolava il suo discorso nei termini dell’autonomia della politica dal diritto (vedi p. 175) e sviluppava un concetto di “vincolo politico” ispirato fondamentalmente all’ideal-tipo weberiano del potere carismatico basato sulla relazione tra il capo e il suo seguito (che nel contesto storico in cui ha operato Miglio poteva benissimo presentarsi nella figura del rapporto tra il capo-corrente di un partito di massa, eventualmente democristiano, e le sue clientele). Su questa base, Miglio poteva operare una netta distinzione tra “vincolo politico” e “vincolo contrattuale (non politico)” (p. 176), una distinzione che tuttavia andava progressivamente appannandosi, dal momento in cui Miglio si è aperto al confronto con l’etologia e ha elaborato, a partire dagli anni ’70, una concezione della genesi dell’obbligazione politica molto diversa da quella di Carl Schmitt. Mentre questi poneva a fondamento della nascita dell’unità politica una Landnahme, un’appropriazione della terra cui seguiva il Teilen, cioè la suddivisione della proprietà tra i contraenti dell’obbligazione politica, per Miglio, che in ciò seguiva le suggestioni della paleoantropologia e dell’etologia, la genesi dell’unità politica si dava nell’attività paleolitica della caccia e nella costituzione in tale attività del rapporto tra capo e seguito. In quella attività di caccia (che, lo si deve osservare, è manifestamente un’attività economica finché non compare un altro gruppo umano col quale si apre il conflitto sul … territorio di caccia, cioè su una Landnahme), il rapporto tra capo e seguito finiva per riconfigurarsi come un rapporto economico inerente la spartizione del bottino, una suddivisione che Miglio contrassegnava con l’espressione di “rendita politica” (su tutto ciò si veda l’ottima ricostruzione di Palano nei paragrafo 4 e 5, La spartizione originaria e Il sacrificio e la rendita, del capitolo del libro interamente dedicato a Miglio, il già ricordato Arcana imperii, pp. 191 – 235).
Secondo Palano (e non si può che concordare con lui), questa nozione di “rendita politica”, apre nel sistema migliano di vincolo politico “un’aporia dirompente” (p. 236), una contraddizione tra “politica forte” e “politica minima”, che in ultima analisi non è che amministrazione: infatti, “quando riflette sul <cristallo> dell’obbligazione politica, e quando ne ricostruisce gli elementi strutturali, Miglio sembra riferirsi ad una concezione ‘forte’ della politica” (ibidem); all’opposto, però, “mentre scorge nel nomos la spartizione originaria del capo-caccia, e mentre espone la teoria della rendita politica, tende a pensare a una politica ‘minima’, ossia a una politica che si riassume nell’amministrazione (più o meno ‘ordinaria’) delle rendite di posizione, nella contrattazione e nello scambio fra ‘gruppi corporati’, nella distribuzione di redditi ‘garantiti’ ai clienti che offrono appoggio al patrono.” (p. 237) E per fortuna a Miglio è stato risparmiato di dover assistere alla trasfigurazione della sua “rendita politica” in “reddito di cittadinanza” …
In ogni caso, ciò che più rileva osservare è la parabola teorica di uno scienziato del realismo politico che, prendendo avvio da una concezione forte della politica e da una netta distinzione tra “vincolo politico” e “vincolo contrattuale”, è approdata infine al riconoscimento del carattere transeunte del politico e del suo esaurimento in modalità funzionalistiche ed economicistiche: “Negli anni Novanta, Miglio finisce con l’approdare all’idea secondo cui l’obbligazione politica è destinata a essere interamente ‘assorbita’ dal contratto, e cioè a un’idea per cui sembra addirittura che – insieme allo Stato – sia destinato ormai a venir meno anche lo stesso ‘patto politico’.” (pp. 234 – 235) Tuttavia, di fronte a questo esito impolitico del suo realismo politico, bisogna almeno riconoscere a Miglio di esser stato profetico: non viviamo forse tutti noi in un paese in cui un cosiddetto “governo” si costituisce sulla base di un cosiddetto “contratto”? Ma la stessa Unione Europea è forse qualcosa di più di un “vincolo contrattuale”? E non sta in ciò la radice più profonda della sua crisi?

Giungendo ora alle conclusioni di questi brevi appunti sulla ricerca di Palano sul “segreto del potere”, che qui è stata sintetizzata in modo molto sommario, preme mettere in evidenza soprattutto il tema particolarmente stimolante, cui si è già accennato in precedenza, della duplicità della relazione col nemico, quell’homo homini homo che tuttavia nello stesso tempo è un homo homini lupus. A questo riguardo si rivelano di incomparabile profondità le osservazioni sviluppate da Carl Schmitt in alcuni passi del suo Glossario, quel diario teoretico che il giurista tedesco ha tenuto tra gli anni 1947 e 1951, il periodo più drammatico della sua esistenza, dopo il processo di Norimberga e la sua condanna all’esclusione dall’insegnamento. Nella pagina del 15 gennaio 1948, si può leggere:
“Il piccolo uomo, il parvus homo, diventa ancor più piccolo, un homunculus, mentre il grande uomo, il magnus homo, diventa ancora più grande, un Deus. Homo homini homo, ecco il punto zero dell’indifferenza pura. Qui la relazione non può conservarsi in pratica nemmeno per un istante. Per guadagnare tensione essa si scinde immediatamente in opposti poli, in elettroni carichi di energia positiva e negativa. L’uno sale, l’altro scende. Il magnus homo, ‘raggiunge la divinità’, diviene un fabbricante; il parvus homo diventa ‘più animalesco di un animale’, diviene un fabbricato. Quella di lupus è davvero una categoria ancora molto umana; il lupus è pur sempre una creatura in confronto ai fabbricanti del brave new world! Perfino il lupo mannaro.” (Glossario, Giuffrè Editore, Milano, 2001, p. 116)
Questo brano, in cui la polarizzazione tra “fabbricante” e “fabbricato” allude alla de-umanizzazione specifica dell’”età della tecnica” e alla trasformazione della relazione politica nella tecnicità dell’amministrazione, trova il suo seguito naturale nella annotazione del 15 maggio:
Homo homini homo, ciò non significa nient’altro che: segnare il passo, proprio nel punto zero del concetto, che immediatamente si scinde a destra e a sinistra, in alto e in basso; homo homini lupus o deus. La tipica neutralizzazione nel punto morto consiste nel sopportare la divisione, ma non volervi partecipare attivamente; meglio segnare il passo, stare in bilico, sul filo del rasoio, attenendosi al trascendentale kantiano, fra trascendente ed empirico, rimanendo, svincolati e liberi in ogni direzione, nella limpida purezza del concetto, nella purezza intatta, cioè irrealizzata, dell’idealismo tedesco; dalla ragione pura alla pura irragionevolezza.” (ivi, p. 208)
Come è evidente, questi passi di Schmitt si collocano nella medesima cornice problematica del “paradosso del politico” segnalato da Palano, dello sdoppiamento della figura del nemico in uomo e animale. Ed è chiaro anche quale sia l’obiettivo polemico di Schmitt, ossia quell’umanitarismo illuminista e idealista che presume di poter neutralizzare l’estrema problematicità della relazione infra-umana individuando il “punto zero” dell’identità egalitaria dell’homo homini homo, giuridicamente formalizzata nella figura del “cittadino” e tecnicizzata nella relazione apparentemente impolitica dell’amministrazione del Welfare. Tale neutralizzazione non può che fallire di fronte alla tensione implicita nell’amico/nemico e nella conseguente scissione estremizzante tra de-umanizzazione e divinizzazione.
Di fronte a questa costellazione di problemi, che non possono essere certo approfonditi in questi brevi appunti, il gruppo Epimeteo si muove da alcuni anni lungo la linea di ricerca di un “personalismo politico” che potrebbe essere riassunto nella formula homo homini persona, dove la relazione infraumana non si risolve nella indifferenziata identità dell’homo homini homo, ma mantiene la tensione e la differenza tra la naturalità immanente dell’homo e l’apertura alla trascendenza della persona, seguendo in un certo senso una sollecitazione contenuta in un altro passo del Glossario, quello del 18 agosto 1948:
L’homme passe infinement l’homme. Applica questa frase all’assurdo homo homini homo e mettine alla prova tutta l’evasività.” (p. 268)
Tuttavia, è necessario precisare qui che il termine persona non è certo assunto nella genericità a cui è stato ridotto nel linguaggio comune, per esempio nell’espressione riguardante il “rispetto della dignità della persona”. Epimeteo assume il termine persona innanzitutto in contrapposizione a quella nozione di “individuo” che sta a fondamento della tradizione liberale; ma soprattutto va messa in evidenza tutta la specificità e la pregnanza di significato che la parola persona  ha acquisito a partire dal dibattito teologico sulle relazioni tra le tre persone di cui è costituito, per i cristiani, l’unico dio, in quel concilio di Nicea che ha segnato una svolta decisiva nel superamento di una concezione di dio come unità e identità indifferenziata e nell’affermazione della natura trinitaria del dio cristiano e delle sue “relazioni sostanziali”. Sul piano antropologico allora, persona finisce per significare “immagine di dio”, ma di un dio la cui identità è relazione interpersonale. Perciò la naturalità dell’uomo viene superata in questa apertura alla trascendenza che si dà nella nozione di “immagine di dio” concepita alla luce di quella metafisica della analogia entis, che meriterebbe una approfondita rivisitazione.
Dunque, la formula homo homini persona può essere così riformulata: homo homini imago dei, la quale agisce come barriera contro ogni de-umanizzazione, ma anche contro ogni divinizzazione dell’homo homini deus, che sta alla base del rapporto carismatico tra il capo e il seguito. Ciò implica, inoltre, che il nemico mi rimanda comunque una imago dei anche nel momento della massima intensità della dissociazione e della contrapposizione, anche nell’atto estremo dell’uccidere. Allora il realismo, che riconosce la necessità, in determinati contesti, di questa intensità estrema, saprà anche riconoscere sempre nel nemico che ha di fronte l’immagine di dio, per quanto deturpata essa possa essere. Solo su questa base si può sperare di istituire un limite alla violenza estrema, un confine al suo travalicare nel sadismo puro, o nella criminalizzazione e/o patologizzazione del nemico, solo su questa base il nemico può configurarsi come “fratello”, secondo l’enigmatica sentenza di Ex captivitate salus: “Chi posso in generale riconoscere come mio nemico? Evidentemente soltanto colui che mi può mettere in questione. Riconoscendolo come nemico, riconosco ch’egli mi può mettere in questione. E chi mi può mettermi realmente in questione? Solo io stesso. O mio fratello. Ecco. L’Altro è mio fratello. L’Altro si rivela fratello mio, e il fratello mio nemico”. (pp. 91 – 92, Adelphi, Milano 1987).
Tutto ciò però, evidentemente, implica un salto da una antropologia che, pur tenendo in sé la dimensione del simbolico e persino del “sacro”, rimane comunque chiusa in un orizzonte di immanenza, ad una antropologia teologico-politica e dunque un salto da una “ontologia del politico” ad una “teologia politica”.           
Del resto, una delle più efficaci rappresentazioni del realismo politico, in cui in uno schema di poche righe si mettono in connessione parole chiave come veritas, auctoritas, potestas, securitas, cioè lo schmittiano “cristallo di Hobbes”, viene definito dal suo autore “aperto alla trascendenza”.

* Epimeteo è il nome di un gruppo di ricercatori impegnato in' unattività che ha per oggetto l’individuazione di percorsi teorici utili a comprendere l’epoca attuale e ad individuare le sue possibili evoluzioni. Epimeteo ritiene che il presente sia caratterizzato dalla fine dell’ Europa intesa come spazio politico istituzionale costituitosi all’interno di uno spazio ideale dominato dalla religione cristiana. L’esaurirsi di tale spazio viene indagato cogliendone la genesi nel emergere della modernità e delle specifiche forme che essa intrattiene la religione e la teologia. Questi temi hanno avuto una un primo sono stati oggetto di un saggio “Finis Europae” scritto da Epimeteo nel 2006 che rappresenta il momento sintetico di partenza delle indagini condotte dal gruppo di lavoro. La ricerca di Epimeteo intende fornire strumenti che possano contribuire ad un rilancio dell’ Europa nella considerazione che ciò può avvenire attraverso una ritrovata dimensione ideale. Si tratta di un percorso che si sostanzia nel fornire un punto vista di Epimeteo sulle risposte che alcune figure chiave del pensiero occidentale hanno fornito. Questo spazio intende anche accogliere i momenti di sintesi che la ricerca realizza nel suo tragitto. Lo spirito aperto con cui Epimeteo interpreta la propria missione teorica comporta che in questa sede sia anche previsto un’area dedicata a contributi esterni reperibili nella rete. La scelta del ricorso al nome Epimeteo per indicare il gruppo di ricercatori obbedisce alla volontà di enfatizzare la dimensione collettiva e non accademica con cui il lavoro viene condotto ma vuole soprattutto rivelare una affinità ideale con un personaggio della mitologia classica. Epimeteo si contrappone al più popolare fratello Prometeo. L’imprudente Epimeteo si accorge in ritardo di essere stato ingannato dalla moglie Pandora che aprendo il vaso in cui erano contenuti i mali del mondo determina la loro diffusione tra gli uomini lasciando a questi ultimi solo la speranza (questo testo è tratto dal sito www.epimeteo.org).


domenica 13 gennaio 2019

La gabbia del «presentismo». Un libro di Giuseppe De Rita e Antonio Galdo sulla "trappola della modernità"




di Damiano Palano

Questa recensione a Prigionieri del presente. Come uscire dalla trappola della modernità (Einaudi, pp. 98, euro 14.50), un libro di Giuseppe De Rita e Antonio Galdo, è apparso su "Avvenire" del 12 giugno 2018. 


Una ricerca condotta alcuni anni fa da un gruppo di studiosi di Berkeley stimò che l’umanità avesse prodotto nella sua storia all’incirca 12 esabyte di dati (pari a un milione di terabyte). Una quantità senz’altro consistente, se si pensa che il materiale conservato presso la Biblioteca del Congresso di Washington – che contiene più di 19 milioni di libri e milioni di manoscritti – equivale a circa 10 terabyte. Dal momento in cui sono comparsi i computer, la situazione ha però iniziato a cambiare vertiginosamente. Già nel 2006 si sarebbero infatti raggiunti i 180 esabyte, e nel 2011 sarebbe stata oltrepassata la soglia dello zettabyte (1000 esabyte). Secondo un’altra stima, i dati prodotti ogni giorno nel mondo sarebbero sufficienti per riempire otto volte tutte le biblioteche americane. E tra questi dati sono compresi probabilmente anche i circa 200 milioni di fotografie postati quotidianamente su Facebook, gli 80 milioni condivisi su Instagram e i 250 milioni trasmessi via WhatsApp.

Tutti questi numeri forniscono solo una rappresentazione impressionistica della rivoluzione che ha investito la nostra quotidianità. Ma ci dicono sicuramente che nessuna società del passato ha mai avuto la capacità di conservare una memoria così dettagliata e sistematica di tutto ciò che accade in ogni istante quasi in ogni luogo del pianeta. Anche se forse, come in nessun’altra epoca del passato, abbiamo spesso la sensazione che nulla di tutto ciò che conserviamo nella memoria fisica dei nostri smartphone e dei nostri pc meriti davvero di essere ricordato.

Nel loro ultimo libro, Prigionieri del presente. Come uscire dalla trappola della modernità (Einaudi, pp. 98, euro 14.50), Giuseppe De Rita e Antonio Galdo – dopo aver indagato le trasformazioni della società italiana e l’«eclissi della borghesia» - affrontano la «crisi antropologica» del nostro tempo. Una crisi che deriva innanzitutto, a loro avviso, dall’incapacità di governare il rapporto con il tempo lineare. In altre parole, siamo travolti da un tempo che assume una dimensione circolare, perché il suo flusso si ripete incessantemente, senza un ‘prima’ e un ‘dopo’. Il presentismo costringe le persone nel loro «io», dissolvendo ogni possibile «noi». Ma produce conseguenze anche nella società, nel mondo del lavoro, nella politica. «Una società presentista» scrivono infatti i due autori, «come le singole persone che la compongono, si rattrappisce senza tensione, senza slanci, incupita dal rancore delle sue frustrazioni, individuali e collettive». I sentimenti che il presentismo alimenta sono allora la rabbia, il languore nostalgico, l’invidia sociale. La lingua si degrada, si semplifica, si riduce all’uso brutale di un vocabolario essiccato dalla fretta. Gli smartphone che accompagnano ogni attimo della nostra giornata diventano gli amplificatori di un narcisismo compulsivo. E ovviamente il presentismo domina anche l’economia finanziaria, dal momento che riduce ogni prospettiva temporale a quello dell’interesse di breve periodo degli azionisti. Ma trionfa soprattutto nella «democrazia immediata», nell’ipersemplificazione dei demagoghi, nelle fake news dei nuovi leader.

«L’appiattimento sul presente non proviene da una diabolica maledizione del soggettivismo oggi di moda», osservano De Rita e Galdo, «ma è un fenomeno più profondo, che discende dal tipo di evoluzione sociale in corso». Ed è proprio per questo che sarebbe sbagliato considerare il loro libro come una geremiade contro i «tempi nuovi». La contrazione individualistica e presentista che sta investendo le nostre società non dipende infatti solo dall’ingenuità con cui usiamo i nuovi mezzi di comunicazione, o dall’entusiasmo con cui accogliamo ogni nuova innovazione tecnologica. È qualcosa di più radicale, di cui dovremmo davvero prendere atto. Qualcosa che rende probabilmente inutile tornare al vecchio motto festina lente, con cui l’imperatore Augusto invitava ad affrettarsi lentamente. E che finisce col consumare le nostre vite in un eterno presente, costringendoci all’inseguimento di istanti che non possono mai diventare storia, esperienza, memoria. 

Damiano Palano

mercoledì 9 gennaio 2019

La politica di Narciso. "La democrazia del narcisismo" di Giovanni Orsina



di Damiano Palano


Questa recensione al volume di Giovanni Orsina, La democrazia del narcisismo. Breve storia dell’antipolitica (Marsilio, pp. 183, euro 17.00), è apparsa su "Avvenire"il 30 giugno 2018.


Più o meno quarant’anni fa, alla fine degli anni Settanta, Christopher Lasch intravide l’emergere nella società statunitense di una nuova «cultura del narcisismo». Dopo le grandi mobilitazioni degli anni Sessanta, gli americani avevano spostato i loro interessi su questioni personali. Smarrite le speranze riposte nelle palingenesi politiche, gli individui si erano convinti che ciò che veramente contava fosse una buona condizione psichica. E che perciò fosse cruciale nutrirsi con cibo genuino, prendere lezioni di ballo o fare jogging. Non si trattava però solo di quel ritorno al privato in cui Tom Wolfe aveva già riconosciuto i contorni nel Decennio dell’io. E neppure solo della decadenza dell’«uomo pubblico» che aveva messo in luce Richard Sennett. Per Lasch l’individualismo degli anni Settanta annunciava la nascita di un nuovo «uomo psicologico». Come per gli studiosi della Scuola di Francoforte, anche secondo Lasch la struttura sociale influiva infatti sulla personalità. Ma il pericolo non era più quello della «personalità autoritaria», prodotta da una struttura familiare patriarcale. Il rischio giungeva semmai da un individualismo esasperato e da una ricerca della felicità condotta fino al limite estremo di una preoccupazione narcisistica per il sé.

Anche Giovanni Orsina evoca la figura del narcisista per spiegare le trasformazioni che stanno investendo i sistemi politici occidentali. Nel suo La democrazia del narcisismo. Breve storia dell’antipolitica (Marsilio, pp. 183, euro 17.00) procede però molto più a ritroso di Lasch. Ritiene infatti che l’odierna ascesa dei populismi affondi le radici nelle stesse promesse della democrazia. Il senso di ‘tradimento’ che alimenta oggi la fortuna dell’antipolitica per lo storico è cioè innescato dal progetto democratico, che non è solo un insieme di istituzioni, ma anche un modello di società, che prospetta a ognuno la possibilità di raggiungere la felicità e di conquistare un pieno controllo sulla propria esistenza.  È una simile promessa-pretesa di autodeterminazione soggettiva che produce il narcisista. Come aveva sostenuto Tocqueville, l’egualitarismo non consente davvero il raggiungimento della felicità, ma rende gli individui costantemente insoddisfatti e irrequieti. Se negli Stati Uniti questa tendenza era però tenuta a freno da altri contrappesi, dopo la Prima guerra mondiale nel Vecchio continente la spinta egualitaria non ebbe più argini. E l’homo democraticus assunse allora i tratti dell’«uomo massa» descritto da José Ortega y Gasset e da Johan Huizinga. Orsina colloca inoltre un vero momento di svolta in corrispondenza del Sessantotto. Seguendo la vecchia lettura di Augusto Del Noce, il «suicidio della rivoluzione» è infatti interpretato come il preludio al «culto dell’io» e al trionfo del narcisista. Un trionfo che coincide con l’esasperazione dell’individualismo e che conduce anche al deperimento della politica, perché delegittima il potere, schiaccia ogni prospettiva sul presente, interpreta la realtà sulla base di considerazioni soggettive, favorisce la chiusura in comunità autoreferenziali.

L’interpretazione di Orsina ha sicuramente il merito di sottolineare l’importanza della dimensione antropologica nella trasformazione politica contemporanea. Non c’è dubbio infatti che la «crisi» che stiamo vivendo sia anche la conseguenza della ‘secolarizzazione politica’ e dell’insofferenza nutrita dal «cittadino critico» verso tutti i grandi progetti otto e novecenteschi. La «tarda democrazia» sperimenta cioè il paradosso evidenziato da Ernst-Wolfgang Böckenförde, secondo cui lo Stato liberale secolarizzato «vive di presupposti che non è in grado di garantire». Probabilmente, a innescare una simile tendenza, più che la «democrazia» in sé, come progetto di vita, è però quella specifica configurazione che le istituzioni democratiche hanno assunto nelle società occidentali negli ultimi settant’anni. Non c’è dubbio infatti che il modello liberaldemocratico occidentale abbia vinto la battaglia (anche ideologica) contro i suoi rivali, e una conferma è data dal fatto che oggi non concepiamo neppure la possibilità che esista una democrazia che non sia la democrazia liberale. Ma le fortune della liberaldemocrazia sono intrecciate alla crescita economica dell’Occidente, alla vittoria dei principi dell’economia di mercato, all’espansione di modelli di consumo e alla promozione di stili di vita individualisti. E proprio tali trasformazioni, altrettanto o persino più delle stesse promesse democratiche, hanno contribuito in misura notevole a dare linfa al nuovo narcisismo di massa.

Anche per questo meriterebbero forse di essere riprese le vecchie intuizioni di Lasch sulla «cultura del narcisismo». È infatti davvero possibile che il narcisismo di massa sia il tentativo di rispondere all’insicurezza generata dall’apparente libertà garantita da una società in cui la famiglia viene privata delle funzioni produttive (e talvolta riproduttive), in cui ogni competenza viene trasferita all’azienda e alla burocrazia, e in cui dunque l’individuo si trova in una condizione di completa dipendenza dallo Stato e dalle altre grandi organizzazioni. Il narcisista non può vivere allora senza un pubblico di ammiratori perché, perché, per tenere sotto controllo l’ansia dell’insicurezza, è alla costante ricerca di conferme alla propria autostima. Anche se, proprio come per Narciso, il mondo diventa solo lo specchio che riflette il suo «io grandioso».


Damiano Palano

martedì 8 gennaio 2019

I sentieri (divergenti) della «politologia concettuale»: Carl Schmitt nel pensiero di Gianfranco Miglio



di Luca G. Castellin
Questa recensione a Gianfranco Miglio, Carl Schmitt. Saggi, a cura di D. Palano (Scholé), è apparsa sulla Rivista di politica online.
Quando, il 17 aprile 1985, Gianfranco Miglio si trovò a dover commemorare Carl Schmitt, scomparso una decina di giorni prima, quasi all’età di cento anni, dopo una tempestosa e feconda esistenza, l’autore comasco non si sottrasse dal celebrare la figura di colui che già in passato aveva definito «il grande vegliardo della politologia europea». «La grandezza di Schmitt», osservò in quell’occasione, «sta nel fatto che i traguardi scientifici da lui raggiunti, proprio perché corrispondenti a altrettanti alti problemi, costituiscono porte aperte sul futuro della conoscenza scientifica». «Quasi ogni sua teoria», aggiunse infatti, «suggerisce nuove ricerche, nuove ipotesi da verificare, nuove avventure del pensiero».
Pur non avendolo mai conosciuto personalmente, dal momento che il loro rapporto era sorretto da uno sporadico scambio epistolare, la morte del pensatore tedesco privava Miglio di un interlocutore con cui aveva intrattenuto per quasi metà secolo un confronto intellettuale decisivo. Un fondamentale contributo a riscoprire le tappe principali di un tale confronto è oggi offerto da una raccolta di saggi che ripercorre il dialogo a distanza che il politologo comasco aveva intessuto con le ipotesi di Schmitt (G. Miglio, Carl Schmitt. Saggi, a cura di Damiano Palano, Scholé, Brescia 2018). Un volume che, grazie soprattutto alle pagine della densa postfazione del curatore, mette in luce i termini con cui Miglio ‘leggeva’ Schmitt, forzando talvolta alcuni aspetti della sua riflessione, in qualche caso tralasciandone altri, al fine di raccogliere le pietre necessarie alla fondazione di quella «teoria pura» della politica, che rappresentò lo ‘scopo’ dell’avventura intellettuale di colui che per un trentennio, dal 1959 al 1989, fu Preside della Facoltà di Scienze politiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.
A partire dalla celebre Presentazione alle Categorie del ‘politico’ del 1972 fino al necrologio scritto per «Il Sole 24 Ore» nel 1985, i saggi contenuti nella raccolta, da un lato, costituiscono una importante testimonianza della ‘riscoperta’ (o, in un certo senso, della vera e propria ‘scoperta’) del pensiero di Schmitt in Italia, di cui Miglio fu – per molti versi – il primo ‘interprete’, dall’altro, rappresentano invece l’evidente segnale di una divergenza che, nel proprio tentativo di costruire una teoria in grado di spiegare il vincolo alla base di ogni comunità politica, avrebbe spinto lo stesso Miglio a ‘incorporare’ (alcune) ipotesi del giurista di Plettenberg nel tentativo di procedere «oltre Schmitt».
Se, all’inizio degli anni Settanta, la pubblicazione presso Il Mulino di un’antologia di alcuni dei principali scritti schmittiani possiede il pregio di aver riaperto le porte del nostro Paese alle ipotesi dell’autore del Begriff des Politischen, ben presto in grado di attirare l’attenzione di alcuni dei più originali esponenti del marxismo radicale, come Mario Tronti e Massimo Cacciari, l’importanza delle celebri pagine di presentazione al volume è ancora più ampia nell’ambito dell’avventura intellettuale di Miglio. Esse rappresentano infatti una sorta di ‘catalizzatore’ di un processo di revisione concettuale già in atto nella riflessione dello studioso comasco. Vengono così definitivamente ribaltate le ipotesi alla base del «grande progetto» giovanile della Humana Respublica, avviato con la tesi di laurea ed edificato sull’idea che il diritto riuscisse a ‘imbrigliare’ la realtà più cruda della politica, sul quale ormai anche Miglio mostrava ben più che qualche perplessità. Inoltre, adottando quella che definì la «scoperta veramente copernicana delle ‘categorie del politico’», Miglio inizia a modificare in maniera sostanziale la prospettiva analitica, focalizzando la propria attenzione non più sull’esterno, ossia sulle relazioni tra Stati, bensì sull’interno delle sintesi politiche.
Ma, a ben guardare, già nello scritto del 1972, è possibile scorgere – come sottolinea giustamente Palano – una iniziale (seppur non marginale) divergenza tra le ipotesi di Schmitt e quelle di Miglio. Quest’ultimo, infatti, non soltanto sottolinea criticamente la riluttanza del giurista di Plettenberg «a intendere lo ‘Stato moderno’ come una soltanto delle manifestazioni della politicità», ma delinea altresì esplicitamente il progetto di una nuova scienza dei fenomeni politici, in cui la contrapposizione fra amico e nemico – ‘regolarità’ costitutiva della politica – indica soltanto «l’elementare punto di partenza per tutta una serie di ricerche complementari, la rudimentale testa di ponte verso un territorio vastissimo e sconosciuto ancora da esplorare». Una nuova scienza che avrebbe dovuto porre al centro delle proprie analisi due obiettivi specifici: da un lato, quello di individuare la «struttura dell’obbligazione politica e della ‘sintesi’ che pone in essere», dall’altro, quello di ricostruire i «rapporti dinamici fra l’obbligazione politica stessa e l’obbligazione-contratto (giuridica) definitivamente separate».
Che la contrapposizione amico-nemico fosse stata inglobata all’interno di un quadro teorico più articolato, non necessariamente destinato a convergere nella stessa direzione di quello dell’autore tedesco, appare evidente in un intervento tenuto da Miglio a Padova nel 1980, nell’ambito di un convegno patrocinato dall’Istituto Gramsci. Svolgendo le premesse già enunciate nel 1972, nel pagine di Oltre Schmitt, lo studioso comasco tratteggia il disegno complessivo di quella «teoria pura» della politica che ambiva a costruire. Nel constatare la crisi dello Stato moderno, e il suo (più o meno prossimo) superamento, Miglio si propone di condurre la teoria politica «in un territorio a Schmitt sconosciuto», in cui i rapporti politici non avrebbero più dovuto essere ridotti a schemi giuridici. Nel quale, in altri termini, il problema fondamentale sarebbe stato rappresentato dallo studio del rapporto tra due tipi opposti di vincolo sociale, ossia l’«obbligazione politica» e il «contratto-scambio», che costituivano l’architrave della «teoria pura». In Oltre Schmitt, dedica poi una certa attenzione non solo ai produttori di ideologie, a quegli «aiutanti» del potere incaricati di produrre visioni alternative del futuro in grado di incidere sulla dimensione temporale dell’obbligazione politica, ma delinea anche e soprattutto l’ipotesi che a tali équipe del potere spettasse l’elargizione di una «rendita politica».
Ormai convinto della connessione tra l’obbligazione politica e la distribuzione di rendite garantite nel tempo, Miglio considera criticamente la teoria ‘spaziale’ della politica cui Schmitt era giunto all’inizio degli anni Cinquanta con la pubblicazione di Terra e mare e Il nomos della Terra, concludendo un percorso iniziato in realtà a partire dalla metà degli anni Trenta. Nel 1983, attraverso le pagine di Sul concetto di «nomos», lo studioso comasco prende così le distanze dall’ipotesi del giurista tedesco sul legame costitutivo fra terra (appropriazione di un territorio) e politica (costituzione di una comunità politica). Egli, invece, sulla scia dell’«ipotesi del cacciatore» (veicolata attraverso la fascinazione su di lui esercitata dalle ricerche di Konrad Lorenz, Edward O. Wilson, Albert Somit, e Robert Ardrey), individua il momento fondativo della sintesi politica nella divisione del bottino di guerra, ossia nella «distribuzione delle parti dell’animale catturato e ucciso, ad opera del capo caccia», riconducendo al «momento finale e saliente della ‘caccia grossa’», la «forma elementare e più antica di organizzazione ed attività politica».
L’interesse di Miglio per l’etologia e la sociobiologia, oltre che l’interpretazione del concetto di nomos, distanziavano ormai piuttosto nettamente Miglio da Schmitt, fornendo – come sottolinea Palano – «solo l’ennesima dimostrazione di come il politologo italiano avesse ‘incorporato’ la teoria schmittiana all’interno di un quadro teorico originale e ben distinto da quello dell’autore tedesco». «Nel momento in cui Miglio stabiliva un nesso originario tra obbligazione politica e distribuzione di rendite garantite», osserva ancora Palano, «finiva infatti col ricondurre il ‘politico’ non tanto a motivazioni irrazionali, quanto a meccanismi egoistici pienamente razionali e, soprattutto, del tutto interni alla logica di un utilitarismo strumentale e individualista». Cosicché, mostrando un retaggio di schietta matrice liberale, «mentre si allontanava dal giurista di Plettenberg, Miglio si mostrava coerentemente hobbesiano».
Pur se la strada ha condotto gli autori su due percorsi divergenti lungo il sentiero della «politologia concettuale», rendendo palese un dissenso assai evidente, Miglio non fu indotto nella commemorazione del 1985 a ridimensionare la statura intellettuale dell’autore tedesco, né a disconoscerne l’importanza nella propria elaborazione teorica. Nel commiato di Sulla bara di Carl Schmitt, Miglio ne riconosce «la grandezza» nella capacità di mantenere sempre le «porte aperte sul futuro della conoscenza scientifica», così come nel suggerire «nuove ricerche, nuove ipotesi da verificare, nuove avventure del pensiero». E, per molti versi, Miglio fa proprio l’auspicio – cercando di realizzarlo personalmente – secondo cui «il ‘dopo-Schmitt’ promette di essere ancora più vitale, più fecondo, più influente dell’età su cui il grande vegliardo ha dominato».

Luca G. Castellin