lunedì 30 dicembre 2019

Stati emotivi, ordine fragile. Un'indagine di William Davies sul potere delle emozioni nella politica contemporanea



di Damiano Palano


Questa recensione al volume di William Davies, Stati nervosi. Come l’emotività ha conquistato il mondo (Einaudi, pp. 363, euro 18.50), è apparsa su quotidiano "Avvenire" il 25 settembre 2019 con il titolo Chi specula la nostra fragilità emotiva? 


L’invasione marziana simulata da Orson Welles è rimasta famosa. La domenica sera del 30 ottobre 1938 un’emittente americana mandò in onda un adattamento radiofonico della Guerra dei mondi di H.G. Wells. La programmazione musicale venne interrotta da alcuni comunicati straordinari, in cui si dava notizia dell’atterraggio di un disco volante vicino a New York e dell’inizio del conflitto con gli alieni, secondo le sequenze del romanzo. Alcuni giornali nei giorni seguenti scrissero che la trasmissione aveva innescato una travolgente ondata di panico e di isteria collettiva, perché molti ascoltatori – che non avevano sentito l’annuncio iniziale del programma – erano stati tratti in inganno dalla verosimiglianza dei comunicati. Il fenomeno fu anche studiato dall’Istituto Gallup e da alcuni ricercatori di Princeton. E in qualche modo la vicenda divenne il simbolo della capacità dei media di manipolare le emozioni del pubblico, o di creare delle fake news di grande impatto. Probabilmente, però, anche la storia dell’ondata di panico fu in larga parte una «bufala». Secondo alcune ricostruzioni recenti, il programma di Welles ebbe in realtà un pubblico piuttosto limitato, le persone tratte in inganno furono davvero poche e gli episodi di isteria collettiva vennero quantomeno ingigantiti dalla stampa. D’altronde, in un contesto comunicativo in cui le fonti erano giornali e radio, e in cui i collegamenti telefonici erano ancora scarsamente diffusi, la velocità di trasmissione delle notizie – di quelle vere, ma anche di quelle false – non doveva essere particolarmente rapida. E probabilmente è invece proprio nella velocità degli scambi, oltre che nella pluralità dei canali informativi, la grande differenza tra le fake news di oggi e quelle di ieri.

Parte riconoscendo proprio questo dato William Davies nel suo libro Stati nervosi. Come l’emotività ha conquistato il mondo (Einaudi, pp. 363, euro 18.50). Secondo il sociologo britannico, nell’era digitale il vuoto di informazioni attendibili «viene colmato da voci, fantasie e congetture, alcune delle quali immediatamente distorte ed esagerate per adattarle al discorso che si vuole veicolare». E questo fa sì che – come le vecchie folle di Gustave Le Bon – anche noi rinunciamo sempre più spesso alle nostre facoltà razionali, per affidarci alle emozioni. Una conferma di questa lettura è offerta dal seguito che ottengono gli appelli carichi di emotività dei leader populisti, o anche dal discredito di cui sono oggetti gli «esperti». Ma Davies cerca risposte più profonde, che lo conducono all’alba dell’età moderna. Nel corso del Seicento, le scienze europee fissano infatti due cruciali linee di confine: in primo luogo, grazie a Hobbes, separano guerra e pace; in secondo luogo, con Cartesio, distinguono nettamente tra mente e corpo. L’ordine politico della modernità nasce proprio dalla costruzione del Leviatano hobbesiano, mentre l’idea moderna di una scienza ‘oggettiva’ si intreccia con la visione cartesiana. Secondo Davies questi confini sarebbero invece oggi sempre più incerti, e da questo discenderebbe l’importanza delle componenti emotive. Per un verso, la distinzione tra guerra e pace (insieme a quella tra interno ed esterno) è sempre meno netta. Per l’altro, le nuove conoscenze mettono in discussione la sagoma cartesiana, proponendo un’immagine dell’essere umano come posseduto da istinti ed emozioni. Dunque, l’hobbesiano «stato di natura» torna a essere realistico. La richiesta di sicurezza diventa sempre più importante, mentre la fiducia in istituzioni ‘neutrali’ e super partes si indebolisce. L’esperienza del deterioramento fisico sperimentata da una parte della popolazione occidentale (e testimoniata per esempio dalla riduzione dell’aspettativa di vita nel Regno Unito) riporta inoltre sulla scena richieste relative alla sicurezza corporea. Ma contribuisce anche ad accrescere la dose di emotività delle rivendicazioni contro gli «esperti». Così chi soffre, e ha bisogno di empatia, può trovare nel «nazionalismo» un rimedio, se non una cura. E, in un circolo vizioso, tutto ciò contribuisce ad alimentare un clima di guerra, nel quale le emozioni e l’entusiasmo si rivelano risorse strategiche.

Al termine di un lungo percorso attraverso la modernità, Davies sostiene che è un errore pretendere che i «fatti» si difendano da soli. In altre parole, nel nuovo contesto comunicativo, dovremmo prendere atto che l’ideale di scientificità costruito dalla modernità non funziona più. E benché si possa parteggiare per gli scienziati, è anche indispensabile dare ascolto e capire «la paura, il dolore e il risentimento». Ma l’invito che il sociologo rivolge ai politici – che dovrebbero «riscoprire la capacità di fare promesse semplici, realistiche e in grado di cambiare la vita delle persone» - non è molto più di un topolino partorito da un’enorme montagna teorica. A ben guardare, d’altronde, anche nell’ambizioso affresco storico-dottrinario dipinto da Davies qualcosa non torna. A proposito dell’odierna confusione tra guerra e pace, coglie per esempio una tendenza reale. Ma, quando sostiene che ciò comporta il ritorno della «guerra di tutti contro tutti», sembra dimenticare il Novecento, e cioè le passioni del «secolo breve», la violenza politica, gli scontri ideologici, la «guerra civile mondiale», che certo non furono un frutto dei social media. Per quanto si possano considerare con preoccupazione i segnali di deterioramento del dibattito pubblico e la crescente polarizzazione politica, si dovrebbe d’altronde evitare di cedere a troppo facili paragoni storici. Come ci insegna la leggenda della «beffa» di Orson Welles, oltre a diffidare delle «bufale», dovremmo sempre considerare con cautela anche le spiegazioni deterministiche, che talvolta ingigantiscono il ruolo effettivamente giocato dalle delle fake news. E che rischiano di non cogliere la specificità delle trasformazioni contemporanee.


Damiano Palano

lunedì 16 dicembre 2019

Le ferite aperte della Spagna «vuota». Un libro di Sergio del Molina




di Damiano Palano


Questa recensione al volume di Sergio del Molina, La Spagna vuota (Sellerio, pp. 395, euro 16.00), è apparsa su "Avvenire" del 29 ottobre 2019.


Quasi tutte le lingue europee, per indicare la forchetta, hanno termini imparentati con la parola latina furca: fork in inglese, forchette in francese, forquillia in catalano, forquilha in portoghese. La lingua tedesca non dispone di una parola di origine latina, ma – proprio come le altre lingue – per identificare la posata adopera il medesimo termine (Gabel) con cui si indica il forcone, ossia quella specie di tridente con cui i contadini sollevano il fieno o smuovono le messi distese sull’aia. Solo il castigliano si differenzia da questo implicito accostamento tra la forchetta e il forcone. La posata viene indicata infatti con la parola tenedor, con cui in origine si indicava una persona, il possidente. Probabilmente, questa scelta linguistica – almeno secondo la breve storia che racconta Sergio del Molino nel suo volume La Spagna vuota (Sellerio, pp. 395, euro 16.00) – tradisce il disprezzo che le classi agiate spagnole nutrivano per coloro che si limitavano ad affondare il cucchiaio nella zuppa e che non erano in grado di maneggiare la forchetta. L’etimologia di tenedor è comunque solo la tappa di avvio di un lungo viaggio dentro la «Spagna vuota». E cioè in quelle zone rurali lontane dalla costa che, dopo la grande urbanizzazione degli anni Sessanta e Settanta, si sono sempre più spopolate, specie se considerate in relazione a città in costante espansione. 
Oggi infatti gli spagnoli che abitano nei centri urbani sono circa l’80% della popolazione, mentre più della metà del territorio è rimasto rurale. Ovviamente non si tratta solo di una tendenza spagnola. Ma, secondo del Molino, questo processo è avvenuto troppo rapidamente. Il «Grande Trauma» ha così originato una sorta di odio nei confronti delle campagne: un «auto-odio», un sentimento indirizzato contro le proprie stesse origini. Così, gli abitanti di questa «Spagna vuota» «si sentono abbandonati», «sono risentiti», «si inventano un passato pieno di vita, di bambini e di gente». Ma questo passato in realtà non è mai esistito, perché queste zone sono sempre state poco popolate. Ed è piuttosto il contrasto con le metropoli e la loro vita pulsante a rafforzare la sensazione di svuotamento, di desolazione, di abbandono.

La pubblicazione del libro di del Molino ha aperto in Spagna una grande discussione, che ha coinvolto anche i leader politici. Ma evidentemente non si tratta di un reportage o di un’inchiesta volta a sensibilizzare l’opinione pubblica o la classe politica. Il viaggio compiuto da del Molino è infatti soprattutto un viaggio dentro la cultura spagnola. Anche per questo non tutti i riferimenti risultano chiari al lettore italiano. Ma si tratta comunque di una lettura davvero ricchissima, capace di spaziare dai grandi luoghi letterari alla quotidianità e di portare in superficie tensioni profonde. E benché la nostra Penisola sia certo assai più popolata della fascia centrale della Spagna percorsa da del Molino, è quasi inevitabile chiedersi se ci sia anche un’«Italia vuota», di cui (quasi) nessuno parla e di cui ci siamo persino dimenticati. 

Damiano Palano

giovedì 12 dicembre 2019

La città e la paura degli uomini. "Anatomia di un assedio", un viaggio di Marco Filoni nelle nostre inquietudini



di Damiano Palano

Questa recensione al libro di Marco Filoni in Anatomia di un assedio. La paura nella città (Skira, pp. 101, euro 18.00), è apparsa su "Avvenire" il 27 ottobre 2019

Nel latino arcaico il nemico era indicato con il termine perduellis, mentre l’hostis era ancora solo lo straniero, o meglio l’ospite con cui si intrattengono relazioni di reciprocità. In seguito la parola hostis andò invece a identificare non solo lo straniero, ma soprattutto quell’estraneo con il quale si ha un rapporto (almeno potenzialmente) conflittuale: il «nemico pubblico» contro cui si può entrare in guerra, e che per questo rimane ben distinto dall’inimicus, il nemico ‘privato’ che ci si può contrapporre per rivalità economiche o questioni passionali. L’ambivalenza con cui in origine veniva concepito l’hostis si perse così abbastanza rapidamente. L’idea di un rapporto pacifico, che prevede un obbligo di reciprocità, passò invece in eredità al termine hospes, all’interno del quale rimase sempre il duplice valore di ‘ospitante’ e di ‘ospitato’, che d’altronde si riconosce anche nella lingua italiana. Sebbene sia scomparsa precocemente dal lessico dell’inimicizia, la duplicità propria della figura dello straniero – per cui lo straniero è ospite e potenzialmente suo nemico – si può individuare, in filigrana, nella stessa struttura della convivenza umana. 
Nel denso viaggio dentro l’immaginario occidentale compiuto da Marco Filoni in Anatomia di un assedio. La paura nella città (Skira, pp. 101, euro 18.00), la dimensione urbana emerge infatti come costitutivamente lacerata da una presenza minacciosa. Irriducibile alle fortificazioni che ne delimitano i confini, o alle architetture che ne ospitano gli abitanti, coincide infatti fin dalle origini, almeno per la cultura occidentale, con gli esseri umani che la costituiscono. Come diceva il Nicia di Tucidide: «Uomini costituiscono la città, non mura o navi vuote di uomini». Ed è per questo che l’indagine di Filoni sulla città è una ricerca sulla paura degli uomini. E non tanto sulle paure che di volta in volta si fissano su oggetti diversi, o che auspicano il controllo, l’espulsione o l’eliminazione di qualche specifica minaccia, quanto sulla paura esistenziale che alligna costantemente – come il perturbante freudiano – nella topografia degli antichi villaggi e delle metropoli più avanzate. Non è d’altronde certo casuale che nella Genesi il compito di fondare Enoc, la prima città, spetti proprio a Caino, che rifiuta di riconvertirsi alla vita nomade. La città di Caino è così una sfida al cielo. Da quel momento, come scrive Filoni, «la città è diventata una matassa indistinta e confusa di paure», un «fantasma che insegue l’uomo nella sua tana», e che lo assedia dentro e fuori. Dopo aver attraversato tutta la nostra storia, e nonostante viviamo oggi nell’epoca forse più sicura, la paura dell’altro, della malattia, della carestia continua a colonizzare le nostre vite. Ma – avverte Filoni – non dovremmo vergognarci della nostra paura. Dovremmo anzi riconoscerne la dimensione strettamente ‘politica’. Solo «conoscendo ciò che ci incute timore possiamo comprendere le nostre inquietudini». E solo in questo modo possiamo evitare il rischio di delegare ad altri, insieme alla nostra paura, anche la nostra libertà.



 Damiano Palano

lunedì 9 dicembre 2019

Le bugie che legano. Un libro di Kwane Anthony Appiah



di Damiano Palano 

Questa recensione al libro di Kwane Anthony Appiah, La menzogna dell’identità. Come riconoscere le false identità che ci dividono in tribù (Feltrinelli, pp. 282, euro 19.00), è apparso su "Avvenire" il 23 ottobre 2019. 

Trent’anni dopo aver annunciato la «fine della Storia», Francis Fukuyama ha recentemente riconosciuto che la sua tesi più famosa non è in grado di spiegare le tensioni che oggi percorrono il mondo. Il modello liberaldemocratico ha trovato nuovi critici e nuovi sfidanti. Ma il punto importante è che, a suo avviso, il mercato non si è rivelato uno strumento sufficiente per soddisfare il bisogno di riconoscimento dei cittadini occidentali. E il risorgere dei conflitti sull’«identità» - che assumono anche il volto del nazionalismo, del sovranismo e del populismo – testimonierebbe proprio che la «Storia» non è finita. Al di là della specifica posizione dello studioso nippo-americano, non c’è dubbio che da qualche tempo l’«identità» sia tornata al centro della discussione teorica e politica. Anche se non è sempre chiaro cosa sia davvero l’«identità» e se, soprattutto, non c’è affatto un’unanimità di vedute sul ruolo che essa svolge. Se alcuni ritengono infatti che l’insistenza sull’identità sia una conseguenza della legittima aspirazione a essere riconosciuti, altri si soffermano sull’inevitabile chiusura verso gli ‘altri’ che la rivendicazione di un’identità comporta. E l’aggettivo «identitario» ha così assunto un’accezione negativa, che di volta in volta evoca gli aspetti più deleteri della rigidità ideologica e dell’ostilità verso gli esterni.
Per muoversi tra le varie interpretazioni fornite dalle scienze sociali è utile il volume del filosofo Kwane Anthony Appiah, La menzogna dell’identità. Come riconoscere le false identità che ci dividono in tribù (Feltrinelli, pp. 282, euro 19.00). Per la verità il titolo italiano tradisce quello originale, che suona più o meno «Le bugie che legano». E probabilmente distorce un po’ anche l’intento dell’autore. Appiah, che insegna Filosofia alla New York University, punta infatti a sottolineare come le identità non abbiano nulla di ‘naturale’ e siano costrutti culturali ‘inventati’ o rielaborati. Ciò nondimeno, avverte, queste «menzogne» hanno un posto chiave nella nostra vita, e per molti versi non possiamo farne a meno. Lo studioso sottolinea come la costruzione dell’identità possa trarre alimento da varie fonti. Ma fornisce anche una chiave interpretativa generale, che aiuta a chiarire cosa dobbiamo intendere per «identità». Innanzitutto, osserva, ogni identità si presenta come una sorta di «etichetta», che più o meno consapevolmente siamo in grado di applicare in presenza di determinate caratteristiche. In secondo luogo, le identità «contano per le persone», perché attribuiscono loro un senso di appartenenza condiviso a livello sociale. E, infine, modellano tanto i nostri atteggiamenti quanto i comportamenti che gli altri tengono nei nostri confronti. Ovviamente è scontato che ogni identità possa trasformarsi in un fattore di isolamento, in un muro che cerca di chiudere all’esterno tutto quanto è diverso. Ma secondo Appiah è ingenuo pensare di liberarcene. E, piuttosto, non dovremmo dimenticare che proprio le identità possono fornire «una cornice ricca di senso alla nostra libertà».

Damiano Palano


mercoledì 4 dicembre 2019

Ombre cinesi, meritocrazia e democrazia. "Il modello Cina" di Daniel A. Bell






di Damiano Palano


Questa recensione al volume di Daniel A. Bell, Il modello Cina. Meritocrazia politica e limiti della democrazia (Luiss University Press, pp. 350, euro 25.00), è apparsa sul quotidiano "Avvenire" il 3 dicembre 2019.


La parola «meritocrazia» ha poco più di sessant’anni. Probabilmente a inventarla fu infatti l’intellettuale britannico Micheal Young, che nel 1958 pubblicò un romanzo fantascientifico, dal chiaro intento satirico, intitolato L’avvento della meritocrazia. Ma il fascino che esercita la promessa meritocratica non è d’altronde nuovo, perché il ‘governo dei migliori’ – almeno fino alla soglia della modernità – è stato a lungo un ideale coltivato dalla filosofia politica occidentale. Un rilancio di questa proposta giunge ora dal libro di Daniel A. Bell, Il modello Cina. Meritocrazia politica e limiti della democrazia (Luiss, pp. 350, euro 25.00), che rappresenta un nuovo capitolo della critica «epistocratica» alla democrazia. Il sociologo canadese – che è quasi omonimo dello studioso che sessant’anni fa profetizzò la «fine delle ideologie», e che dirige la School of Political Science and Public Administration della Shandong University – non si limita infatti a enumerare una serie di obiezioni all’efficienza della democrazia. Ma individua un’alternativa valida nella meritocrazia politica che è alla base del sistema politico della Repubblica Popolare Cinese.

L’operazione di Bell prende avvio da un esame dei difetti principali che gravano sulle democrazie occidentali: la «tirannide della maggioranza», la «tirannide della minoranza» (e cioè dei gruppi economici), la «tirannide della comunità degli elettori» (ossia di coloro che votano, a scapito di coloro che non lo fanno o non lo possono fare), la «tirannide di individui competitivi», che – più che alleviare – finisce con l’esacerbare le tensioni e i conflitti. Ben più originale, è però la difesa del modello meritocratico cinese. Secondo Bell, per una comunità politica è infatti un bene essere governati da leader di grande qualità, e il sistema cinese consentirebbe di selezionare leader competenti, responsabili, dotati di ampie abilità sociali. Nonostante l’apprezzamento verso il sistema cinese, Bell non nasconde l’esistenza di problemi significativi connessi agli stessi principi costitutivi di un assetto meritocratico. Innanzitutto, governanti scelti per le loro capacità quasi certamente possono essere tentati di abusare del loro ruolo. Inoltre, la meritocrazia politica tende a dare origine a gerarchie cristallizzate che impediscono la mobilità sociale. Infine – e non si tratta certo di un punto di scarsa importanza – è molto difficile legittimare un simile sistema presso coloro che sono esclusi dalla struttura del potere. Alle prime due difficoltà, sottolinea Bell, si potrebbe porre rimedio con strumenti istituzionali: per esempio con strutture di sorveglianza indipendenti, salari più alti, una migliore formazione morale e l’apertura del partito ai gruppi sociali. Probabilmente, simili soluzioni non potrebbero davvero ridimensionare la presenza della corruzione o la tendenza a selezionare i nuovi leader con criteri di nepotismo o per la loro fedeltà ai capi. Ma difficoltà ben più rilevanti ci sono per la legittimazione, che potrebbe essere garantita solo con l’aumento della partecipazione popolare, nella direzione dunque di una convergenza tra i principi della meritocrazia politica e alcuni strumenti della democrazia. E la proposta di Bell – che individua in questa strada la possibilità per riformare il sistema monopartitico cinese – consiste in sostanza nel combinare la meritocrazia politica al livello del governo centrale con la democrazia a livello locale. Un assetto che in qualche modo verrebbe già prefigurato dalle elezioni di villaggio, ma che dovrebbe essere rafforzato. Secondo il sociologo, infatti, il «modello Cina» dal punto di vista politico non è affatto un regime autoritario e oppressivo. Si tratterebbe piuttosto di un assetto capace di combinare una democrazia a livello locale, la sperimentazione tra il livello locale e quello centrale (con riforme che vengono valutate in singole regioni prima di essere diffuse al resto del paese), la meritocrazia ai vertici.

Il libro di Bell ha sollevato negli Stati Uniti un fuoco di fila di critiche, che hanno messo in luce lacune e semplificazioni. L’importanza assegnata all’efficienza delle leadership, come sottolinea opportunamente Sebastiano Maffettone nell’introduzione italiana, sembra d’altronde presupporre che in politica l’efficienza non sia diversa da quella che si può misurare in altri campi e soprattutto in economia, e che dunque si tratti solo di individuare i mezzi migliori per raggiungere fini condivisi (relativi per Bell solo al benessere economico). Ma le scelte politiche coinvolgono anche i fini che una società punta a perseguire. E il confronto tra visioni differenti di quali siano gli obiettivi prioritari da raggiungere – l’uguaglianza, la libertà, l’autonomia della persona – non può essere certo ricondotto a un problema di efficienza della leadership.  Alle molte obiezioni che gli sono state mosse, Bell ha replicato che la meritocrazia politica non è un modello adeguato all’Occidente, mentre è del tutto appropriato per le società confuciane, impregnate di una visione che pone al centro l’«armonia» (e che invece esclude il conflitto). A questa argomentazione ‘orientalista’ è però fin troppo facile obiettare che l’immagine di una «società armoniosa» è un tassello importante della legittimazione ideologica costruita negli ultimi trent’anni dal Partito comunista cinese, o che l’eredità del confucianesimo non esclude certo l’emergere di elementi di conflittualità. Ma se per questo l’edificio del Modello Cina rimane teoricamente piuttosto debole, ciò non significa che le argomentazioni di Bell non siano destinate ad attrarre proseliti, anche in Occidente. Perché è molto probabile che nei prossimi anni la «meritocrazia politica» – con tutte le sue ombre – diventerà una carta su cui Pechino punterà per costruire il suo soft power e per indicare una strada alternativa alla liberaldemocrazia occidentale.



 Damiano Palano

lunedì 2 dicembre 2019

Può esistere una democrazia illiberale? Vecchie domande per un mondo nuovo




di Damiano Palano


Questa nota è apparsa sul quotidiano "Avvenire" il 16 novembre 2019.

Può esistere una democrazia senza libertà? Ed è lecito qualificare come «democratico» un regime politico che non rispetta i diritti fondamentali sanciti dalla tradizione liberale? Queste domande non sono certo nuove. Ma negli ultimi anni sono tornate ad affiorare nella discussione politologica, oltre che nella stessa polemica politica. Molti regimi autoritari hanno infatti iniziato a ricorrere a elezioni, nonostante tali consultazioni non siano competitive e benché manchino le garanzie di effettivo pluralismo. Dinanzi a questi regimi «ibridi», che combinano procedure formalmente democratiche con elementi propri dei regimi autoritari, alcuni analisti hanno adottato la formula «democrazia illiberale». Ma si tratta di una categoria problematica, se non altro perché riconosce come democratici regimi che limitano in misura notevole le libertà dei cittadini. È anche per questo che il nuovo numero della rivista «Paradoxa» (3/2019), dedicato a Democrazie Fake, invita a diffidare di tutte le aggettivazioni che ridimensionano la connessione tra democrazia e liberalismo. Gli articoli ospitati nel fascicolo (di Pasquino, Tuccari, Raniolo, Regalia, Viroli, Gherardi, Taffoni, Diodato) fanno innanzitutto il punto sugli stress cui oggi sono sottoposte le democrazie e sul successo delle tendenze illiberali. Ma nel complesso sostengono che il limite discriminante tra democrazia e non democrazia rimane ancora quello fissato nel secolo scorso da studiosi come Joseph Schumpeter, Robert Dahl e Giovanni Sartori. In sostanza – lo ribadisce soprattutto Pasquino – la democrazia esiste solo laddove le cariche politiche sono assegnate (direttamente o indirettamente) mediante elezioni competitive. Ciò comporta che le elezioni debbano essere anche libere e corrette, ossia che non vi devono essere intimidazioni e manipolazioni. E implica che siano garantite le libertà di espressione e di associazione, oltre che la pluralità delle fonti di informazione.
Una simile posizione è teoricamente solidissima e aiuta a fare chiarezza rispetto a concetti maldestri. Non dovremmo però trascurare il fatto che la nostra immagine della democrazia – intesa come democrazia competitiva e liberale – è un’invenzione recente, un prodotto della storia intellettuale del Novecento, dei grandi traumi del «secolo breve», della guerra fredda. Ed è soprattutto il risultato di una ‘reinvenzione’ in virtù della quale molti elementi dalle origini piuttosto disparate sono stati ‘cuciti’ insieme ‘come se’ fossero davvero l’eredità di una storia coerente che dall’Atene di Pericle giunge sino a noi. Osservando il passato, non possiamo per esempio trascurare il fatto che l’aspirazione alla democrazia ha spesso assunto un volto illiberale e talvolta anche ‘totalitario’, o che nella stessa storia delle più antiche democrazie liberali si sono a lungo nascosti elementi patentemente illiberali. Ma non possiamo neppure dimenticare che il catalogo dei diritti liberali si è nel corso degli ultimi due secoli notevolmente modificato e che, soprattutto, è cambiato il profilo di coloro che sono considerati legittimi detentori di quei diritti. Con una prospettiva storica più ampia, dobbiamo dunque considerare un po’ più problematicamente la relazione tra democrazia e liberalismo. E non possiamo neppure escludere che nel «mondo post-americano» (o comunque in un mondo in cui l’Occidente avrà perso la propria centralità) emergeranno differenti concezioni dei diritti e delle libertà «fondamentali». O che regimi democratici – dotati di elezioni competitive, pluralismo politico, diritti di espressione e associazione – potranno contrapporsi tra loro anche per le differenti concezioni dei diritti «liberali». E forse alcune delle tendenze «illiberali» contemporanee potrebbero prefigurare già qualcosa del genere.
Naturalmente tutto ciò non sminuisce l’importanza della democrazia liberale, delle sue procedure, delle sue garanzie. Piuttosto, deve ricordarci che la democrazia liberale è un’invenzione umana, e che proprio per questo rimane un assetto tutt’altro che granitico. In ogni caso, rimarcare i caratteri distintivi della democrazia liberale non può esimerci dalla necessità di comprendere le trasformazioni politiche (del passato ma anche del presente). E non ci esenta dal dovere intellettuale di riconoscere i mutamenti nelle aspettative e nelle aspirazioni che la parola «democrazia», dopo duemilacinquecento anni, continua ad alimentare.

Damiano Palano





venerdì 22 novembre 2019

Il rischio per la democrazia sono gli elettori pigri o i politici inadeguati? Un libro di Fabrizio Tonello




di Damiano Palano

Questa recensione al libro di Fabrizio Tonello, Democrazie a rischio. La produzione sociale dell’ignoranza (Pearson, pp. 146, euro 21.00), è apparsa su quotidiano "Avvenire" il 22 ottobre 2019. 

Trent’anni dopo il fatale 1989 la democrazia sembra aver perso il proprio fascino. L’ondata propulsiva della «terza ondata» di democratizzazione si è esaurita da tempo, mentre i regimi autoritari – tra cui in particolare il gigante cinese – sono tornati a rappresentare modelli alternativi alla democrazia liberale. Ma anche in Occidente la situazione è meno rosea che in passato. Secondo alcuni politologi i cittadini occidentali sarebbero infatti meno attaccati che in passato ai valori democratici e soprattutto le generazioni più giovani risulterebbero maggiormente disponibili ad accogliere opzioni autoritarie. Persino sotto il profilo della discussione intellettuale la democrazia viene inoltre sempre più spesso attaccata, perché negli ultimi anni è affiorata una corposa critica «epistocratica», la quale sottolinea che gli elettori sono quasi sempre ignoranti, disinformati o accecati dalle loro preferenze ideologiche. Nel suo volume Democrazie a rischio. La produzione sociale dell’ignoranza (Pearson, pp. 146, euro 21.00), Fabrizio Tonello prende di petto la questione, per contrastare gli argomenti del fronte «epistocratico». Innanzitutto, avverte che dovremmo dubitare dei sondaggi sulla competenza politica dell’«uomo della strada». Anche per Tonello è comunque innegabile che parte dell’elettorato sia pigro e disinteressato alla dinamica delle istituzioni. A suo a giudizio non dovremmo però dimenticare che questo disinteresse è la conseguenza di una serie di processi maturati gradualmente. Tra questi un ruolo rilevante spetta al mutamento nello scenario comunicativo. Se per decenni lo spettacolo televisivo ha modificato il linguaggio politico, i social media hanno creato un assetto inedito, che ha abbattuto i confini delle situazioni sociali consolidate. Il problema non è dunque riducibile alle fake news, perché, più in generale, i social media «creano per l’utilizzatore una situazione psicologica simile a quella di trovarsi in una folla, dove contemporaneamente si provano sensazioni di incertezza e ansia ma anche di onnipotenza». Al quadro complessivo contribuiscono inoltre l’«infantilizzazione» degli adulti, il decadimento della professione giornalistica, la scomparsa delle agenzie che preservavano le tradizioni di competenza e virtù civica, la trasformazione delle istituzioni educative e lo «svuotamento» delle classi medie. Il pericolo per Tonello non viene dunque dall’ignoranza – vera o presunta – dei cittadini. Semmai nasce da quella dei politici, «visibilmente incapaci di affrontare non solo sfide globali urgenti come quella del riscaldamento globale ma perfino problemi banali di amministrazione quotidiana dei rispettivi paesi». Naturalmente questa ‘assoluzione’ degli elettori dalle colpe che gli sono attribuite dai sostenitori dell’«epistocrazia» ha buoni argomenti. Al di là delle responsabilità, il ritratto che Tonello dipinge del cittadino democratico contemporaneo – infantile, emotivo, persino rabbioso nelle sue reazioni – non rende però l’analisi molto confortante. E suggerisce quantomeno che il lavoro di ricostruzione di un tessuto di civismo sarà molto complesso. 

Damiano Palano

martedì 19 novembre 2019

Quando la democrazia dei partiti cominciò a precipitare. "Governare il vuoto" di Peter Mair



di Damiano Palano


La crisi dei partiti non sembra destinata a invertirsi e pare invece lasciare sempre più spazi vuoti all'avanzata di quello che spesso chiamiamo "populista". Tra i più lucidi studiosi a cogliere questa tendenza era stato il politologo irlandese Peter Meier. Di seguito, viene riproposta una recensione al libro di Meier,
Governare il vuoto. La fine della democrazia dei partiti (Rubbettino, pp. 166, euro 14.00) è apparsa su "Avvenire" il 2 agosto 2016.


Proprio mezzo secolo fa, nel 1966, il politologo tedesco Otto Kirchheimer iniziò a intravedere i primi segnali della trasformazione che stava investendo i partiti di massa. L’avvento della società del benessere, l’attenuazione del conflitto di classe e l’indebolimento delle grandi appartenenze stavano infatti modificando l’ambiente in cui le grandi organizzazioni politiche erano nate alla fine dell’Ottocento. E proprio per rispondere a questi mutamenti, i partiti di massa cominciavano allora a tramutarsi in catch-all-parties, in partiti «pigliatutti», che puntavano cioè a conquistare voti non più soltanto in uno specifico segmento della società, contrassegnato da una forte identificazione ideologica e subculturale, bensì in tutti i settori. In questo modo venivano abbandonati i più ambiziosi ideali di trasformazione sociale, mentre tutte le energie venivano indirizzate verso l’obiettivo della vittoria elettorale e le risorse concentrate nell’attività di comunicazione.



A cinquant’anni di distanza, non è certo difficile riconoscere come le previsioni di Kirchheimer avessero intuito, con indubbia lungimiranza, molte delle trasformazioni successive. E il volume di Peter Mair, Governare il vuoto. La fine della democrazia dei partiti (Rubbettino, pp. 166, euro 14.00), costituisce da questo punto di vista un prezioso aggiornamento di quelle antiche ipotesi. Un aggiornamento che mostra dove abbiano condotto quelle tendenze e, soprattutto, quali rischi esse comportino. Sulla base dell’esperienza maturata in un’intera carriera di studi, il politologo irlandese – scomparso prematuramente nel 2011 – si chiede infatti se, insieme ai partiti di massa (e a ciò che ne rimane), non sia destinata a essere messa in discussione anche la stessa forma democratica dei sistemi politici occidentali. In particolare, secondo Mair, la corrosione delle basi su cui si fondano i contemporanei regimi democratici è imputabile allo svuotamento dello spazio in cui cittadini e rappresentanti politici si trovano a interagire: questo spazio era in passato occupato proprio dai partiti, ma ora rimane sempre più sguarnito. Le cause sono in primo luogo da ricercare nel crescente disimpegno dei cittadini, di cui sono tracce (non sempre però così chiaramente interpretabili) il calo della partecipazione elettorale, l’instabilità del comportamento di voto e l’emorragia di iscritti di cui hanno sofferto pressoché tutti i partiti europei. Accanto a questo primo fattore si accompagna però anche la simmetrica tendenza al disimpegno che coinvolge le élite politiche. In altri termini, i partiti hanno quasi del tutto abdicato alla funzione di rappresentanza delle istanze sociali, assunte invece da altre agenzie. E, al tempo stesso, hanno privilegiato – in termini pressoché esclusivi – la ricerca di ruoli di governo (a livello locale e nazionale). Il ‘corpo’ dei partiti, costituito dalla rete organizzativa diffusa sul territorio, si è così progressivamente atrofizzato fino a diventare esilissimo. Mentre è cresciuta la ‘testa’, stabilmente insediata dentro le istituzioni rappresentative. I grandi partiti assumono così le sembianze di ‘agenzie dello Stato’, specializzate nel compito di reclutare il personale politico, ma del tutto incapaci di stabilire un solido rapporto (fiduciario e identitario) con la società. Per questo, scrive Mair, quella che si profila all’orizzonte «è una nuova forma di democrazia in cui i cittadini rimangono a casa mentre i partiti vanno a governare».
Le previsioni di Mair – che i travagli vissuti dell’Unione europea negli ultimi anni hanno ampiamente confermato – sono in realtà ancora più cupe. Nello spazio ‘svuotato’ dal disimpegno di élite e cittadini, vanno a infatti collocarsi tanto la protesta ‘populista’ contro l’establishment, quanto la tentazione di ‘depoliticizzare’ le democrazie, ossia di trasferire le decisioni più importanti verso arene sottratte agli umori di elettorati sempre più imprevedibili. Simili soluzioni non possono però davvero colmare il fossato aperto dalla scomparsa di quell’appartenenza comune che cittadini e leader politici condividevano grazie ai partiti di massa. Proprio per questo i nostri sistemi rappresentativi rischiano allora di scivolare nella voragine sempre più profonda aperta dalla fine della «democrazia di partiti». E di precipitare nel vuoto della società liquida.

Damiano Palano


domenica 17 novembre 2019

Cosa resta della «meritocrazia»? Note critiche a margine di un vecchio fascicolo di «Paradoxa»



di Damiano Palano

La meritocrazia è tornata in queste settimane al centro delle polemiche e qualcuno ha iniziato a mettere in discussione uno dei miti più resistenti degli ultimi decenni. A questo proposito, viene riproposta una vecchia nota critica, dedicata a un fascicolo monografico di "Paradoxa" proprio sulla meritocrazia e apparsa su "Maelstrom" nel maggio 2011.
 
La storia della parola «meritocrazia» è senz’altro piuttosto singolare. La sua nascita può essere collocata con precisione, perché il termine venne proposto per la prima volta in The Rise of the Meritocracy. 1980-2033. An Essay on Education and Equality, un testo di Micheal Young pubblicato nel 1958 (Thames and Hudson, London) che ebbe anche una traduzione italiana (L’avvento della meritocrazia. 1870-2033, Comunità, Milano, 1962). Benché Young fosse uno scienziato sociale, The Rise of the Meritocracy era una sorta di romanzo fantascientifico che, collocandosi in una tradizione avviata in Inghilterra da autori come H.G. Wells, Aldous Huxley e naturalmente George Orwell, descriveva un’immaginaria società del futuro fondata sul «merito». Come Il mondo nuovo o 1984, anche The Rise of the Meritocracy era una ‘distopia’, perché si basava sulla descrizione non di un regime virtuoso, bensì di un regime totalitario e opprimente. A differenza degli scenari ritratti da Huxley e Orwell, ciò che rendeva terrificante il regime immaginario del futuro non erano né la trasformazione degli esseri umani in passivi consumatori, né la gestione totalitaria del potere da parte di uno Stato capace di sorvegliare i cittadini in tutti i momenti della loro vita. A connotare il dispotismo immaginato da Young era invece la trasformazione del «merito» nella base dell’ordine sociale. The Rise of Meritocracy era infatti una sorta di fittizio saggio storico, in cui l’autore, fermamente convinto della superiorità della società meritocratica, ne ripercorreva le origini e gli sviluppi, a partire dai primi passi, collocati già alla fine dell’Ottocento, fino alla realizzazione, avvenuta più o meno in coincidenza con la Seconda guerra mondiale. In primo luogo, i progressi nella misurazione dell’intelligenza avevano condotto alla progressiva critica dell’egualitarismo, mentre le esigenze della competizione internazionale avevano spinto lentamente verso l’introduzione dei principi meritocratici. In base a tali principi, la popolazione era suddivisa, fin dalla più giovane età, in categorie diverse, secondo il valore del Q.I., e dunque indirizzata verso percorsi educativi e lavorativi differenziati. Col tempo, la meritocrazia aveva comportato l’abolizione della scuola dell’obbligo, ma anche il tramonto del movimento socialista e dei sindacati. Inoltre, con l’affinamento dei metodi di valutazione del «merito», si erano anche evitati i rischi di misurazione disancorati dall’attitudine all’impegno. E, proprio lungo questa via, si era giunti ad affinare il criterio alla base della società meritocratica:

«L’intelligenza combinata con lo sforzo costituiscono il merito (I + S = M). Il genio pigro non è un genio. È proprio qui che i datori di lavoro hanno dato il loro contributo alla causa del progresso. L’“organizzazione scientifica del lavoro”, di cui furono pionieri Taylor, i Galbraith e Bedaux, ha reso possibile la misurazione dello sforzo. L’arte della misurazione del lavoro è diventata una scienza, con la conseguenza che le retribuzioni possono essere valutate e collegate allo sforzo in maniera più precisa» (ibi, p. 103).

Ma la società dominata dal «merito», o meglio dalla «meritocrazia», non era affatto immune dai rischi di crisi. Al contrario, lo storico cui Young faceva descrivere l’avvento del regime meritocratico scriveva mentre, in un immaginario 2034, iniziava a prendere forma un nuovo movimento di protesta, alimentato proprio dalle classi subalterne e spalleggiato da una minoranza dissidente dell’élite dominante. Tanto che, si chiedeva all’inizio del proprio trattato, se «il 2034 ripeterà il 1789 o semplicemente il 1848» (ibi, p. 25). Dopo una lunga disamina, la conclusione cui giungeva lo studioso del 2034 sembrava escludere i rischi di una rivoluzione, o anche l’eventualità di un radicale sommovimento. «Gli ultimi cento anni», affermava il sostenitore della meritocrazia, «hanno assistito ad una vastissima ridistribuzione dell’intelligenza tra le classi della società, con la conseguenza che le classi inferiori non hanno più la forza per portare a fondo la loro rivolta» (ibi, p. 193). A condannare ogni speranza di rivolta era, in fondo, proprio l’inferiorità intellettuale degli strati sociali subalterni, destinata a essere abbandonata da quelle frazioni dell’élite che temporaneamente, per effetto di una delusione del tutto contingente, si erano staccate dalla classe dominante. Proprio alla conclusione del trattato – e mentre si avvicinava l’imminente scadenza del maggio 2034, in cui era prevista una grande mobilitazione del movimento populista – lo storico formulava perciò una previsione piuttosto netta:

«questa gente declassata non potrà mai essere che una minoranza eccentrica – i populisti, come forza politica, non sono mai stati altro che questo – perché l’élite viene trattata con tutto il riguardo che si può desiderare. Senza un grammo di intelligenza nel cervello, le classi inferiori sono minacciose non più di quanto possa esserlo una plebaglia, anche se talvolta fanno il muso, e si mostrano volubili e un po’ imprevedibili. Se le speranze di alcuni dei primi dissidenti si fossero realizzate, e i ragazzi brillanti provenienti dalle classi inferiori fossero rimasti in seno a queste, per insegnare, per ispirare e per organizzare le masse, avrei un racconto da esporre. Ma i pochi che ora propongono una misura così radicale sono in ritardo di cent’anni. Questa è la previsione che mi propongo di verificare quando, nel prossimo maggio, andrò ad ascoltare i discorsi che verranno fatti dalla grande tribuna di Peterloo» (ibidem).

Il testo del narratore di The Rise of Meritocracy però si fermava qui. E Young – con una nota a pie’ pagina di sulfurea ironia – scriveva, simulando l’intervento dell’editore: «Poiché l’autore di questo saggio è stato ucciso anch’egli a Peterloo, gli editori, con rincrescimento, non hanno potuto sottoporgli le bozze del manoscritto per quelle correzioni che forse avrebbe voluto apportargli prima della pubblicazione. Il testo, anche nella sua ultima parte, è stato lasciato esattamente come egli lo scrisse. I fallimenti della sociologia sono illuminanti quanto i suoi successi» (ibidem).
Se la nota conclusiva faceva trapelare l’intento dell’intera opera di Young, i lettori successivi non sono stati sempre così arguti come lo scrittore inglese probabilmente auspicava. E così, qualcuno ha dimenticato di leggere quella piccola nota a piè di pagina, finendo col travisare completamente il significato della distopia. Tra questi lettori distratti, deve essere probabilmente annoverato anche Roger Abravanel, autore di Meritocrazia. Quattro proposte concrete per valorizzare il talento e rendere il nostro paese più ricco e più giusto, pubblicato dall’editore Garzanti nel 2008, con una prestigiosa prefazione di Francesco Giavazzi. Come nota Mario Tesini nel numero 1/2011 di «Paradoxa», Abravanel incorre in un equivoco non da poco, dato che il suo testo è interamente centrato sul «merito» e sul valore positivo della «meritocrazia». «Piuttosto incredibilmente» - osserva infatti Tesini - «egli mostra di fraintendere completamente il senso del libro di Michael Young, assai spesso citato non solo in relazione all’origine del vocabolo, ma anche come una difesa, tutt’al più problematica, della meritocrazia: della quale, come si è visto, esso costituisce una denuncia implacabile. La forzatura del testo (in passato perfettamente inteso da interpreti tra loro assai diversi come Raymond Aron e Christopher Lasch) appare veramente curiosa. In modo del tutto arbitrario, ad esempio, in luogo dell’unico narratore se ne ravvisano due, in conflitto tra loro: con il risultato che la dimensione filosofica e sociale di Rise of Meritocracy, ed il suo stesso valore letterario, congiuntamente svaniscono» (Meritocrazia, merito e storia del linguaggio politico, in «Paradoxa», 2011, n. 1, p. 66).
Ma l’infortunio di Abravanel non è certo isolato. Non soltanto perché in Italia al termine di «meritocrazia» si è fatto ricorso quasi costantemente, nell’ultimo mezzo secolo, senza alcun riferimento né al nome di Young, né alle specifiche motivazioni che spinsero a coniare l’espressione. Ma anche perché non si tratta di una deformazione soltanto italiana, se è vero che lo stesso Young, in uno dei suoi ultimi interventi, nel 2001, sentì l’esigenza di protestare contro l’uso che della «meritocrazia» faceva l’allora Primo ministro britannico Tony Blair: un uso che, evidentemente, distorceva completamente lo spirito di The Rise of Meritocracy, tramutando, in modo del tutto acritico, la «meritocrazia» nel tassello di un’ideologia antiegualitaria (cfr. M. Young, Down with Meritocracy, in «The Guardian», 29 giugno 2001).
Negli ultimi anni, le celebrazioni della meritocrazia sono diventati l’inevitabile luogo comune con cui corredare gli attacchi alle diverse ‘caste’ che bloccherebbero lo sviluppo dell’Italia e che sarebbero la causa più profonda del suo declino economico. A ben vedere, però, in poche occasioni si è cercato di esaminare con un minimo di serietà cosa c’è, realmente, dietro il «merito» invocato a gran voce dagli alfieri della meritocrazia. Quando lo si è fatto, i risultati sono stati piuttosto deludenti, se non proprio sconcertanti (come nel caso della vibrante difesa di Abravanel, per cui il pilastro della meritocrazia è la misurazione «oggettiva» del merito). E, così, è inevitabile che un esame accurato delle ipotesi delineate dai sostenitori della meritocrazia abbia finito con lo svelare soltanto un inestricabile viluppo di luoghi comuni, ingenuità e asserzioni ideologiche (cfr. per esempio M. Boarelli L’inganno della meritocrazia, in «Lo straniero», n. 118, 2010).
In fondo, è proprio questo il risultato che emerge anche dal numero di «Paradoxa», interamente dedicato a Merito e Uguaglianza, che, oltre all’editoriale di Laura Paoletti (Le molte facce del merito), raccoglie interventi di Vittorio Mathieu, Francesco D’Agostino, Pietro Grilli di Cortona, Lucetta Scaraffia, Luigi Cappugi, Stefano Semplici, Mario Tesini, Marcello Ostinelli e Francesca Rigotti. L’istanza da cui parte il fascicolo di «Paradoxa» è una riabilitazione del merito. Come scrive la curatrice Paoletti, «ci siamo interrogati sul ‘merito’, muovendo dalla ferma convinzione che sia urgente e indispensabile farne un principio fondante del nostro tessuto civile e politico, avvilito da ben altri criteri e logiche di promozione sociale» (p. 8). Ma il risultato si allontana da un’esaltazione acritica del «merito», a proposito del quale in effetti molti autori sottolineano, in vari modi, l’impossibilità di qualsiasi misurazione ‘oggettiva’.
Non mancano – ed è comprensibile – alcuni tentativi di difendere il merito. In questo senso, vanno per esempio le caute osservazioni di Grilli di Cortona, che individua in particolare una netta contrapposizione fra il merito, che si applica al singolo individuo, e i benefici assegnati ai gruppi e ai loro componenti. «Quali sono le sfide quotidiane al merito e alla meritocrazia?», si chiede infatti. E Grilli di Cortona le ritrova nella minaccia costituita dai benefici (o dai privilegi) assegnati alle collettività, che finiscono con l’appiattire i meriti e i demeriti individuali. «Il merito», scrive, «viene penalizzato ogni qualvolta la dimensione individuale è sostituita da quella collettiva: l’individuo ottiene qualcosa non in virtù dei suoi meriti personali, ma in virtù della sua appartenenza ad un gruppo, ad un insieme di persone che condividono qualche caratteristica comune. In questo modo la rappresentatività di gruppi e categorie diviene prioritaria rispetto al criterio del merito individuale grazie all’assegnazione di quote» (Significato e ruolo sociale del merito: alcune riflessioni, p. 31). E, secondo Grilli di Cortona, i criteri possono essere molti, tanti quanti possono essere i modi in cui i ‘gruppi’ si formano e vengono riconosciuti (politico-culturali, di genere, di residenza, di età, risarcitori, parentali, ideologici).
Ben più convinta, è la difesa di Lucetta Scaraffia, che si scaglia in particolare contro la tradizione culturale italiana, cui è estranea la valorizzazione del merito che invece contrassegna le società anglosassoni. Come scrive, a questo proposito: «l’Italia, governata per secoli dalle piccole corti – spesso rette da dinastie straniere – o addirittura da potenze straniere, ha visto sempre scegliere le sue élites in base alla vicinanza e all’obbedienza al potere piuttosto che al merito. È quindi un’antica abitudine, molto radicata soprattutto nelle regioni del paese che non hanno conosciuto una rivoluzione industriale autoctona» (L’antimeritocrazia italiana, p. 36). Le condizioni per l’affermazione di una società meritocratica sono infatti diverse da quelle che hanno a lungo caratterizzato l’Italia (e molti fra i suoi territori): «il merito infatti può essere riconosciuto a una sola persona, non a un gruppo né a una famiglia», e, perciò, «la meritocrazia come sistema di selezione può affermarsi solo in società democratiche e di economia liberale, società in cui è avvenuta una rivoluzione industriale che ha visto il formarsi di una élites di imprenditori che ha avuto successo per meriti professionali» (ibi, p. 37). Va da sé, allora, che nel codice genetico italiano sia sempre stata inscritta una vocazione alla «antimeritocrazia». Questa vocazione è stata arginata dalla «scuola liberale», ossia dall’istruzione nata dall’intervento dello Stato con la Legge Coppino, che impose la scuola elementare obbligatoria, e con la scuola media unificata, negli anni Sessanta. Ma l’«antimeritocrazia» ha ripreso vigore – secondo il ragionamento di Scaraffia – a seguito dell’ondata di egualitarismo innescata dal Sessantotto:

«La crisi della nostra scuola, soprattutto quella secondaria, ha determinato quindi la quasi totale scomparsa di quella tendenza alla selezione meritocratica che la scuola liberale in qualche modo aveva diffuso, creando le condizioni per la sua esistenza. Oggi, che tutti sono promossi, che i titoli di studio non hanno più valore, è più facile che, nel selezionare, la meritocrazia lasci il passo ad altre forme di selezione, di tipo clientelare. Ma nessuno sembra preoccuparsene e, quando si parla di necessarie riforme della scuola secondaria, sono evocate solo la necessità di rendere la scuola più vicina alla vita moderna, di rinnovare le forme didattiche: non si parla mai di ripristinare la severità necessaria ad una selezione meritocratica e chi lo fa – come ha provato la Gelmini – viene subito costretto al silenzio nello sdegno generale. Il nostro sistema scolastico è stato ridotto così da una serie di interventi – avvenuti nei decenni post-sessantotto – finalizzati a garantire all’interno della scuola una totale eguaglianza fra gli insegnanti e gli alunni» (ibi, p. 38).

Quando Scaraffia evoca «una serie di interventi» che hanno condotto alla «totale eguaglianza fra gli insegnanti e gli alunni», intende l’abolizione delle note di merito e di demerito agli insegnanti (con cui i presidi riuscivano a influire sulla carriera e sulla destinazione del corpo docente), oltre che alla eliminazione della facoltà di utilizzare la «bocciatura» da parte degli insegnanti. Ma, al di là di questi elementi (che certo andrebbero valutati con maggiore attenzione), non è difficile individuare nel ragionamento un ‘cortocircuito’, se non una patente contraddizione logica. È infatti piuttosto singolare che, dopo aver sostenuto che l’«antimeritocrazia» italiana ha profonde radici culturali e storiche, e aver enunciato nettamente che una reale meritocrazia può esistere solo «in società democratiche e di economia liberale, società in cui è avvenuta una rivoluzione industriale che ha visto il formarsi di una élites di imprenditori che ha avuto successo per meriti professionali», l’unico modo per conseguire la meritocrazia sia individuato nell’intervento politico dello Stato: sia nel caso delle leggi che introducono l’istruzione obbligatoria, sia nel caso degli interventi con cui il Ministro dell’Istruzione impone – o cerca di imporre – agli insegnanti l’adozione di misure disciplinari. Si tratta, senza dubbio, di un ragionamento piuttosto interessante, perché la montagna della società aperta, delle «società democratiche», dell’«economia liberale», finisce col partorire il topolino dell’intervento dello Stato. Un topolino che, peraltro, può anche assumere il volto inquietante di un despota, non solo custode, ma anche legislatore e giudice della moralità pubblica. E un topolino la cui unica vocazione – a dispetto delle dichiarazioni di liberalità – diventa quello di raddrizzare il ‘legno storto’ della società, i suoi ‘vizi’, le sue ‘distorte’ tradizioni culturali.
Ovviamente, Scaraffia è ben consapevole – e non può non esserlo – della portata distruttiva della contraddizione che si annida nel suo discorso. E proprio per questo evoca, proprio in conclusione al suo intervento, la necessità di «una vera rivoluzione culturale, che ci porti non solo ad accettare finalmente la selezione meritocratica come necessità sociale, ma anche a ridiscutere i criteri con cui il merito viene giudicato» (ibi, p. 41). In questo senso, la polemica è diretta contro l’egualitarismo, contro «il mito della ‘scuola di tutti’», e, più o meno direttamente, contro i miti propalati dal Sessantotto. Anche in questo caso, non si tratta affatto di motivi nuovi, ma, alcuni anni fa, hanno incontrato una nuova fortuna, principalmente perché furono utilizzati nella campagna per le elezioni presidenziali da Nicholas Sarkozy. Allora, i numerosi estimatori italiani di quello che di lì a poco sarebbe diventato il nuovo Presidente francese ne accolsero con entusiasmo il vigore polemico. E, così, anche in Italia – soprattutto nei mordaci interventi di Giuliano Ferrara – riprese forza la ormai più che quarantennale battaglia culturale contro il Sessantotto e i suoi miti, ossia contro l’eguaglianza a tutti i costi, il relativismo morale, la rilassatezza dei costumi, il completo pregiudizio del merito individuale, sacrificato sull’altare di una desolante omologazione: tutti elementi che – secondo questi critici – avrebbero corroso la tempra austera e il rigore morale del popolo italiano, condannandolo al declino economico, al progressivo allontanamento dai livelli di eccellenza. Naturalmente, non si trattava di argomentazioni che potessero essere prese troppo sul serio, fondate com’erano – piuttosto evidentemente – su luoghi comuni, più che su dati di fatto. Ma è comprensibile che questo tasto, e cioè che l’idea di «una vera rivoluzione culturale», per utilizzare le parole di Scaraffia, abbia oggi perso molto del proprio mordente. Anche perché quei medesimi entusiasti sostenitori del ritorno al rigore morale e agli austeri costumi dei padri hanno preso a rivolgersi – dopo solo qualche mese – alla gaudente esaltazione del libertinismo (mostrandosi così, ancora una volta, come tenaci, consapevoli e irriducibili alfieri di un nichilismo assoluto).
Una serie di preziose osservazioni vengono anche da Stefano Semplici, che mette in guardia contro alcuni rischi che si celao nell’opzione meritocratica. Uno di questi è che «il migliore in termini di performance […] può sempre approfittare della sporgenza delle sue capacità per soddisfare il suo interesse e le sue ambizioni personali piuttosto che l’interesse comune» (Capaci «e» meritevoli, p. 48). Ma, ancora più rilevante, è la questione che sta a monte della ripartizione dei meriti, ossia la questione – già ben chiara ad Aristotele – per cui una ripartizione ‘giusta’ dei meriti «non basta a superare le divisioni su quel che vada considerato appunto come il merito da premiare, in assoluto o in paragone ad altri» (ibi, p. 49). Quest’ultimo non è d’altronde un nodo di poco conto. È, anzi, il vero e proprio convitato di pietra di tutti i dibattiti sulla meritocrazia. Perché, in fondo, chi parla di meritocrazia ha un’idea ben precisa di quale sia il merito da premiare, mentre – ed è questo il punto centrale – nessun merito è ‘oggettivamente’ percepibile, e tantomeno ‘misurabile’, se, a monte, non sta una decisione – che è anche ‘politica’ – su cosa, in una determinata società, sia meritevole e cosa invece non lo sia. Ma dire che questa decisione sia ‘politica’ non significa affermare che si tratti, sempre, di una decisione imposta dallo Stato: più semplicemente, significa solo che si tratta di decisioni che riflettono le relazioni di potere esistenti all’interno di un determinato gruppo sociale. Questo comporta anche che, all’interno di una società, si possa arrivare a far coincidere il merito con il successo di mercato, ossia che, per esempio, il successo economico di un imprenditore sia inteso come testimonianza dei suoi meriti, che lo stipendio milionario percepito da un calciatore sia percepito come la giusta ricompensa del suo merito sportivo, o che – per giocare sul filo del paradosso – la popolarità del vincitore di un reality show sia concepita come il giusto riconoscimento dei meriti conseguiti nell’arricchimento della vita sociale e culturale di un paese.
Ma è proprio nelle aporie del discorso meritocratico che affondano il coltello i due interventi di Mario Tesini e Francesca Rigotti. Tesini ricostruisce in particolare una sorta di storia dell’idea di meritocrazia e, soprattutto, dell’idea del merito. Si tratta di una storia che ha radici lontane, ma che subisce un’accelerazione improvvisa con la Rivoluzione francese e con la travolgente ascesa di Napoleone, un’ascesa cui tutto l’Ottocento avrebbe continuato a guardare come a un modello di riconoscimento del merito. L’obiezione principale che Tesini rivolge contro l’«ideologia» meritocratica è pero costituita soprattutto dalla sua funesta ingenuità, un’ingenuità che finisce col trascurare la ‘relatività’ del merito, ossia la complessità delle strade che conducono, nelle diverse società, a definire ‘cosa sia’ il merito, prima ancora che a misurarlo:

L’ideologia meritocratica (a differenza ovviamente dei ragionevoli tentativi di valorizzazione dei meriti, come umanamente percepibili e convenzionalmente valutabili), costituisce – proprio in quanto ideologia – una radicale negazione della Storia: in una parola della realtà e della complessità dell’esperienza umana. Sarebbe forse ingiusto pensare che sempre sia dettata da una mera logica di dominio mascherata di forma scientifiche. Ma anche se in buona fede, anche se originata dalla shakesperiana indignazione per lo ‘scherno’ che i meritevoli assai spesso subiscono, l’aspirazione meritocratica alimenta una pretesa eccessiva. Essa cade nel vizio costruttivistico e perfettistico di chi non riconosce il carattere inevitabilmente relativo, condizionato, in definitiva storico di ogni istituzione sociale. Nel suo uso retorico – e con la consapevolezza che di tale uso si tratta – il richiamo al valore del merito come criterio orientativo (troppo a lungo penalizzato, in particolare nel contesto italiano) può essere non solo legittimo avere una funzione positiva pratica: nel senso di una provocazione intellettuale utile. A volerne fare invece un pre-requisito scientifico e un parametro di valutazione oggettiva, riconducibile a valori quantificabili, certificabili e infine fondativi di un nuovo ordine sociale (e morale), sarebbe più facilmente l’incubo della distopia (dell’utopia negativa) descritta da Michael Young a prevalere; non l’utopia ottimistica e a volte troppo interessata degli attuali ideologi di un impossibile, e forse neppure auspicabile, potere del merito (Meritocrazia, merito e storia del linguaggio politico, pp. 66-67).

Le argomentazioni di Francesca Rigotti imboccano un’altra direzione, in un intervento il cui titolo - «Contro il merito» - rimanda esplicitamente al celebre Conto il metodo di Paul K. Feyrabend. Probabilmente quest’ultimo, osserva Rigotti, non avrebbe lesinato critiche al merito e alla meritocrazia, perché in fondo aveva levato una protesta tutt’altro che conciliante contro la prosopopea della ‘Scienza’ e di quelle élite che elevano «la propria concezione del mondo a criterio universale dell’umanità», che chiamano verità «l’ideologia dominante dei conquistatori» e che accampano «il diritto di misurare con tale criterio la felicità, le sofferenze, i desideri di altri». In realtà, però, Rigotti svolge un discorso che segue solo in parte Feyerabend. Piuttosto, si rivolge contro il mito del merito, quel mito in virtù del quale il merito «deciderebbe con equità e purezza della attribuzione di posizioni di prestigio e ben pagate, e prima ancora dell’accesso a luoghi di istruzione privilegiati che conducono a carriere di responsabilità lautamente retribuite e socialmente riconosciute». In sostanza, quel mito secondo cui «il merito sarebbe un criterio pulito, giusto ed equo per l’attribuzione e la distribuzione dei beni predetti, invocato da sinistra e da destra a sostituire i biechi criteri basati su eredità, corruzione, nepotismo» («Contro il merito», p. 83). E, partendo dal presupposto di un forte egualitarismo, la tesi di Rigotti sostiene, in estrema sintesi, che proprio l’egualitarismo non è conciliabile «con principi che richiedono e giustificano diseguaglianza e privilegi come il principio del merito» (ibidem). Più specificamente, Rigotti punta a smantellare quelle posizioni filosofiche che criticano l’egualitarismo mostrando come esso sia frutto dell’«invidia» sociale, o sia insensibile invece nei confronti della responsabilità individuale. Ma chiunque – osserva Rigotti – sa bene che non si può parlare della responsabilità pensando che tutta la responsabilità del ‘merito’ o del ‘de-merito’ sia solo una questione individuale, che sia solo il risultato delle scelte compiute dal singolo nel corso della sua vita. «Tutti sappiamo anche solo intuitivamente che così non è, come sappiamo che nascere in un certo stato, da una certa famiglia che ti segue a scuola, ti fa imparare le lingue e apprezzare la musica, nonché crescere in un ambiente che non ti distrugge bensì riesce a darti fiducia in te stesso, è importante per le scelte che sarai in grado di compiere in futuro» (ibi, p. 89). Non è dunque casuale che chi si muove contro le rivendicazioni dell’egualitarismo tenda anche a ridurre al minimo le influenze ambientali e familiari sulla formazione individuale. Se si parla di una dotazione originaria, che ciascun individuo riceverebbe in sorte dalla natura, ha dunque davvero senso parlare di merito? Ovviamente, no. E proprio qui si intravede il reale significato che la retorica meritocratica assegna al merito, in realtà misurato non in base alle capacità o agli sforzi dei singoli individui, ma in base ai risultati ottenuti sul mercato. In corrispondenza di questo snodo, si divaricano nettamente il merito (inteso come l’efficienza di mercato) e l’uguaglianza, concepito come principio di giustizia volto a premiare gli sforzi compiuti dai singoli, sulla base delle loro specifiche dotazioni. Come scrive Rigotti a questo proposito:

«Le leggi del mercato si disinteressano sovranamente degli sforzi meritori e guardano solamente ai risultati, così come non si interessano alle storie che producono merito o giustizia, ma soltanto alle vendite del prodotto finito. Alle leggi del mercato non importa un bel niente se il risultato deriva da merito attivo o da dotazione passiva: vogliono persone che rispondono ai requisiti richiesti dal momento o imposte da mode e bisogni, veri o falsi, e sono disposte a pagarle profumatamente senza alcun riguardo nei confronti di attività o passività del ‘merito’. Il fatto è che bisogna distinguere chiaramente tra leggi del mercato e giustizia e dire che le leggi del mercato che stabiliscono una concorrenza tra individui con doti diseguali e impari vocazioni allo sforzo non sono giuste. Il problema dell’ideologia è quello di confondere efficienza della società e giustizia resa all’individuo. Una società che discrimina i suoi membri meno brillanti incoraggiando solamente i dotati (di nome prestigioso, intelligenza, fortuna, buona volontà ecc.) a intraprendere carriere di privilegio, raggiungerà forse una buona efficienza produttiva ma trascurerà la giustizia dovuta al singolo» (ibi, pp. 92-93).

Oltre a tutti questi limiti, che si nascondono dentro la seducente prospettiva di una società meritocratica, Rigotti non può fare a meno di soffermarsi su una realtà d’altronde evidente a tutti, e cioè su quella che definisce, eufemisticamente, «una strana ambivalenza» propria delle nostre società di mercato:

«benché inneggino al mercato e all’eccellenza indipendenti da eredità, nepotismo e corruzione, esse mostrano di fatto una spiccata tendenza a accettare e a promuovere l’«ereditarietà delle cariche», fenomeno particolarmente evidente nel campo della politica, dello sport e dell’intrattenimento. Come si comporta di fatto una società che predica l’illibatezza della meritocrazia? Favorisce e incrementa, in Italia, in Svizzera, in Europa come oltreoceano, dinastie di politici, giornalisti, sportivi e sportive, cantanti, attori, registi e intrattenitori di vario genere, crogiolandosi nella pratica del nepotismo. Non affliggerò il lettore con lunghi elenchi dinastici, soprattutto perché tali dati nulla aggiungono alla prospettiva teorica, se non la constatazione di una contraddizione tra l’enunciazione della adesione a principi meritocratici e la messa in pratica di principi nepotistici, che conferma il sospetto che spesso si confondono efficienza della società e leggi del mercato con criteri di giustizia. E se la giustizia e il mercato collidono?» (ibi, p. 93).

È difficile non concordare con Rigotti, quando sottolinea la «strana ambivalenza» per cui quanti proclamano l’esigenza di adottare i principi meritocratici, si affidano quasi invariabilmente alle pratiche del nepotismo. Ed è anche difficile non riconoscere la fondatezza del ragionamento intorno alla contrapposizione fra un merito inteso come criterio di efficienza di mercato e i principi di eguaglianza. Ma, forse, il riferimento di Rigotti al mercato – e cioè a un merito che si definisce in base ai criteri di mercato, alle esigenze di «efficienza della società» – richiede qualche approfondimento. Quantomeno, per evitare di adottare, più o meno implicitamente, un’immagine romantica del mercato, in larga parte, se non sostanzialmente contraddetta dalla realtà del mercato, e, soprattutto, dalla realtà del mercato del lavoro delle società contemporanee. Ma, per farlo, è forse necessario tornare a ragionare proprio sul ‘contenuto’ del merito.
Nella sua difesa del merito, Scaraffia scrive: «il concetto di uguaglianza […] si è sempre dimostrato nella pratica nemico della meritocrazia: lo conferma anche la storia dei regimi socialisti, dove l’obbedienza politica ha sostituito ogni forma di selezione per merito» (L’antimeritocrazia italiana, p. 39). Nei regimi socialisti, in sostanza, il merito viene del tutto oscurato da un elemento diverso, ossia dall’obbedienza. «La dittatura», scrive infatti Scaraffia, «in ogni sua forma, significa totale conformismo, che, specie se obbligatorio, è stato sempre il nemico più accanito del merito» (ibi, p. 39). Naturalmente, Scaraffia coglie un punto quantomeno condivisibile quando sostiene che l’obbedienza è un criterio fondamentale per ogni dittatura. Ma il suo ragionamento diventa molto meno nitido sia quando individua un’opposizione insanabile fra l’obbedienza e il merito, sia quando ritiene – più o meno esplicitamente – che le democrazie liberali, a differenza delle dittature in cui viene ricompensata solo l’obbedienza, siano in grado di premiare il merito.
Dal primo punto di vista – come dimostrano anche diversi saggi contenuti nel fascicolo – parlare di merito significa solo stabilire un criterio con cui assegnare una retribuzione, che può essere positiva (un premio) oppure negativa (un castigo). Ma parlare di merito, in generale, non significa affatto indicare il contenuto specifico della qualità da premiare. Proprio perché il merito – come si è detto – è una costruzione sociale, perché i criteri con cui definire il merito, e con cui misurarlo, sono sempre l’esito di un processo sociale complesso, che ovviamente risente dei rapporti di potere, e che può essere influenzato da altre componenti. Pertanto, il ‘merito’ può assumere volti molto diversi. In una società militare, il merito è dato principalmente dalla virtù militare, con tutte le dimensioni che la storia ci mostra. All’interno di un’organizzazione criminale, il merito viene invece definito, per esempio, dall’abilità di compiere rapine, di eseguire omicidi su commissione, oltre che dalla capacità di resistere alle intimidazioni delle autorità giudiziarie e di polizia senza rivelare nulla su complici e mandanti. Nel campo dello sport, il merito viene definito in base ad altri criteri, che ovviamente rimandano – più che alla capacità in senso stretto – ai risultati ottenuti in occasione di competizioni agonistiche. Come tutti questi casi dimostrano abbastanza efficacemente, il merito non ha di per sé un contenuto, e il fatto di evocare la necessità di una meritocrazia non può in alcun modo aggirare il problema di chiarire ‘cosa sia’ il merito, a meno di non voler far passare i criteri di ‘merito’ come qualcosa di ‘naturale’, di indipendente dalle relazioni di potere, dal contesto sociale. Un’obiezione, in questo caso, potrebbe chiamare in causa l’esempio dell’«uomo di genio», capace di creare dal nulla qualcosa di nuovo. Ma si tratta di un’obiezione poco significativa, se ci poniamo in una prospettiva storica che consideri, per esempio, l’evoluzione dell’idea di ‘autore’ e di ‘artista’, o che prenda in considerazione i motivi per cui un singolo può essere premiato in quanto dotato di facoltà straordinarie.
Il secondo assunto di Scaraffia – quello che contrappone le dittature alla democrazia – richiama invece l’attenzione su un altro punto. Innanzitutto, ci si potrebbe chiedere se sia proprio così corretta l’idea che la democrazia, a differenza delle dittature, premi il merito e non l’obbedienza. Ma, da questo punto di vista, Grilli di Cortona – accordandosi in fondo con il senso comune – invita ad abbandonare soverchie illusioni, quando osserva: «la politica non è quasi mai meritocratica: tra i principi di base della politics (che definisce processi e procedure per la conquista e l’esercizio del potere), il merito è importante ma non è al primo posto»; e questo dato di fatto, continua, «probabilmente, non è del tutto estraneo alle crisi cicliche di sfiducia vissute dalla politica, con la conseguenza di periodiche attribuzioni di fiducia a forme diverse di competenza, la conoscenza, la scienza, l’esperienza» (Significato e ruolo sociale del merito, p. 27).
A ben vedere, però, non si può essere del tutto ingenerosi nei confronti dei politici che riescono a ottenere risultati. In qualche modo, anche un aspirante leader che riesce a essere eletto dimostra, sul campo, di avere qualche merito. Perché dimostra di avere quelle abilità, quelle attitudini, quelle caratteristiche che gli elettori premiano: l’abilità oratoria, la ricchezza, l’eleganza, un’elevata provenienza sociale, un passato prestigioso alle spalle, una sapiente capacità di gestire la propria immagine televisiva, un’arguzia preziosa nei talk-show, o forse persino la reputazione di una competenza tecnica. Ovviamente, si potrebbe obiettare, «questi non sono ‘meriti’», «i cittadini non sono in grado di giudicare realmente il ‘merito’ degli aspiranti governanti», «gli elettori si fanno deviare da immagini spesso distorte, da reputazioni che poco hanno a che vedere con la realtà». In obiezioni di questo tipo, però, non è difficile intravedere il disprezzo di Platone verso la massa, il dispregio verso il giudizio superficiale del demos, il disgusto verso l’insipienza della plebe e gli inganni dei demagoghi. Ed è scontato che la soluzione che scaturisce da queste obiezioni non potrebbe essere altro che l’intervento di un’autorità superiore: l’intervento, cioè, di una sorta di ‘controllore’ – forse non necessariamente dispotico, ma certamente autoritario – che fissi il ‘contenuto’ del merito e i criteri con cui misurarlo. Ma, com’è ovvio, in questo caso ci si allontanerebbe in modo irrimediabile dalla democrazia e dai principi liberali, per approdare a una gestione autoritaria, che, comunque, non svaluterebbe in sé il merito, ma attribuirebbe un altro significato al merito.
Questo insieme di considerazioni conduce però al rapporto fra merito e obbedienza. Infatti, non è affatto così scontato – come sembra ritenere Scaraffia – che il merito sia incompatibile, o irrimediabilmente opposto, all’obbedienza. Perché, in effetti, il contenuto specifico del merito può anche consistere nell’obbedienza. In una società in cui viene premiato il rispetto del dovere – e tutte le società umane non possono fare a meno del rispetto del dovere (anche se muta storicamente il contenuto ‘morale’, ‘sociale’ e ‘politico’) – il merito viene ad avvicinarsi notevolmente all’obbedienza. «Il rispetto del dovere», scrive per esempio Mathieu, «può anche ridursi a obbedire al comando del più forte, in vista della sanzione positiva, o, più spesso, negativa (pena) che egli può irrogare» (La meritocrazia come postulato, p. 13). Così, quel difetto che Scaraffia attribuisce alle dittature – e in particolare all’Urss – è in realtà un carattere presente più o meno in tutti i gruppi umani: e ciò significa non soltanto che l’obbedienza è indispensabile a ogni organizzazione, ma anche che l’obbedienza è sovente trasformata in una virtù, o forse persino nella virtù più elevata, la quale viene fatta coincidere per intero con il merito. Pertanto, ritenere che molti politici contemporanei non siano selezionati in base al merito, ma in base all’obbedienza, è logicamente scorretto, semplicemente perché, all’interno dell’organizzazione in cui essi operano, il criterio principale con cui vengono stabiliti i ‘meriti’ individuali possono anche coincidere (e spesso di fatto coincidono) con l’obbedienza, l’aderenza alla disciplina di partito, l’abnegazione, la capacità di difendere la linea anche quando vi sono forti motivi di disaccordo. Quegli stessi principi che definiscono il merito nei corpi militari, che – come diceva il vecchio motto dell’arma dei Carabinieri – sono «usi obbedir tacendo e tacendo morir». Ma l’obbedienza non è una virtù solo in campo politico. E, da questo punto di vista, è forse da prendere in esame con maggiore attenzione l’idea di Rigotti secondo cui il merito, nelle società contemporanee, viene a coincidere principalmente con «l’efficienza di mercato».
Quando evidenzia la netta contrapposizione fra i principi egualitari di giustizia e il principio di un merito che, in realtà, coincide solo con l’efficienza di mercato, Rigotti coglie un punto importante. Un punto che può essere ulteriormente sviluppato, per evitare di pensare all’efficienza al mercato in termini eccessivamente romantici. In effetti, l’efficienza assume un carattere diverso a seconda del tipo concreto di lavoro cui ci si riferisce. Per esempio, nel caso di un singolo artigiano, che produce individualmente un manufatto e che lo porta sul mercato, l’efficienza chiama in causa la sua perizia tecnica e – va da sé – anche la sua velocità nel produrre un determinato bene. In altri termini, in questo caso si può forse dire che sia effettivamente il ‘mercato’ a sancire l’efficienza del singolo operatore. Ma, ovviamente, si tratta di un esempio che riesce ben poco a cogliere la realtà del lavoro contemporaneo. D’altronde, anche nel settore manifatturiero, dal momento in cui entra in campo una cooperazione lavorativa complessa, che assegna al singolo lavoratore un compito estremamente specializzato (e spesso standardizzato), la relazione tra efficienza e mercato diventa molto meno diretta. E proprio per questo vengono introdotti altri criteri (principalmente i tempi fissati dalla direzione) per stabilire se il singolo sia più o meno efficiente: ma, ovviamente, si tratta di un’efficienza che ha un rapporto non tanto con l’effettivo risultato sul mercato (il quale dipende da molti altri fattori, come la qualità del prodotto, le campagne pubblicitarie, la capacità di innovazione, ecc.), quanto con il piano della produzione stabilito dal vertice aziendale. Senza addentrarsi in disamine troppo complesse, è scorretto affermare che qui il rapporto fra efficienza e merito viene meno: piuttosto, si può affermare che efficienza e merito coincidono del tutto con la disciplina, ossia con la disponibilità del singolo a sottoporsi interamente alle direttive e ai tempi stabiliti dal vertice della gerarchia aziendale (con tutto ciò che comporta la disciplina di fabbrica, in termini di sanzione dei comportamenti conflittuali).
Ma il quadro cambia ancora – e cambia notevolmente – quando dal terreno della produzione materiale ci si sposta ad altri settori, come quelli che caratterizzano d’altronde gran parte delle economie ‘post-industriali’. Misurare l’efficienza del singolo è molto complesso, se non impossibile, in un’organizzazione burocratica. In questi casi, i criteri che fissano il merito, e il demerito, non possono che assumere contorni arbitrari, non possono cioè che imporre come regola di misurazione dell’efficienza una serie di convenzioni: convenzioni che risentono naturalmente dei rapporti di potere o delle ‘mode’ organizzative, che possono anche trovare un legittimazione ‘scientifica’; convenzioni che mutano nel tempo (anche per effetto delle sollecitazioni esterne, che rimandano, più o meno direttamente, anche al ‘mercato’), ma che, nondimeno, rimangono ‘convenzioni’. Convenzioni che si suppone – almeno da parte dei vertici – siano in grado di produrre vantaggi di qualche genere, e che si basano non tanto sull’effettivo risultato di mercato, quanto su un’ipotesi convenzionale, cioè sull’assunto ipotetico che si tratti davvero di qualcosa di ‘efficiente’. Un simile discorso diventa ancora più complicato quando chi deve stabilire la regola ‘convenzionale’ non ha alcuna relazione con un – anche lontanissimo – risultato di mercato, ma ha invece obiettivi differenti (come avviene nel caso delle amministrazioni pubbliche, in cui gli obiettivi possono essere la conquista del voto, la visibilità, la costruzione di un’immagine di rigore e di efficienza, la manipolazione delle risorse pubbliche, la gestione clientelare della forza lavoro, ecc.). Ed è ulteriormente più intricato nel caso di tutti quei lavori che coinvolgono una dimensione relazionale di qualche genere, come avviene non solo nei lavori di cura, ma anche in tutti quei lavori che implicano un’attività di vendita e la costruzione di relazioni. In simili lavori, che in un’economia dominata dai servizi sono sempre più rilevanti, misurare il merito – inteso nei termini di efficienza di mercato – diventa un’operazione che richiede inevitabilmente il ricorso ad altri criteri (e la simulazione degli effetti dell’efficienza di mercato).
A ben vedere, d’altronde, in tutti i lavori relazionali – anche in quelli che hanno un rapporto diretto con il mercato, e soprattutto più o meno in tutti i lavori ‘intellettuali’ che caratterizzano il cosiddetto ‘capitalismo cognitivo’ – le attitudini cruciali richieste al lavoratore hanno d’altronde poco a che fare con il livello del Q.I., che Young considerava il pilastro della società meritocratica. In tutti questi lavori, la meritocrazia tende avvicinarsi a una sorta di ‘meretrocrazia’, perché i criteri che fissano il ‘merito’ diventano molto simili a quelli che contrassegnano, più o meno da sempre, il mercato della prostituzione, e perché diventa sostanzialmente impossibile scindere il ‘merito’ e l’‘efficienza’ da attitudini – cui di solito non si attribuisce un valore positivo – come l’adulazione, la dissimulazione, il servilismo. Il ‘merito’, allora, non coincide con l’‘efficienza’, o almeno coincide con l’efficienza solo se si intende quest’ultima – al di là di ogni romanticismo – come la disponibilità ad adeguarsi alla convenzione arbitraria che sta alla base dell’organizzazione del lavoro. E, dunque, si devono includere nell’efficienza del singolo lavoratore anche elementi come il servilismo nei confronti della direzione, la compiacenza, la delazione. Tanto che, forse, possiamo ritrovare la più nitida rappresentazione della meritocrazia non nella distopia di Young, ma in una delle scene finali di Una vita difficile, il vecchio film di Dino Risi. La scena in cui Silvio Magnozzi, il giornalista interpretato da Alberto Sordi, propone un’inchiesta sui braccianti al commendator Bracci, il losco proprietario del giornale per cui lavora. Con il ghigno del grande Claudio Gora, il commendatore – come è facile ricordare – non si limita a bocciare la proposta e a dare del cretino al proprio segretario. Ma, una volta di più, rammenta a Magnozzi la primaria regola che ogni lavoratore deve seguire. Quella stessa regola che, probabilmente più di ogni apologo e più di ogni affilata argomentazione, continua a svelarci l’autentico significato della meritocrazia: «Dimentichi di avere delle idee personali e faccia soltanto quello che le dico io!».

Damiano Palano