di Damiano Palano
Questa recensione al volume di Jamie Bartlett, The
People Vs Tech. How the internet is killing democracy (and how we save it) (Ebury
Press, pp. 242), è apparsa su "Avvenire", il 21 novembre 2018.
Leggendo molte delle riflessioni condotte sul potere pervasivo delle fake news, si può avere la sensazione di
un déjà-vu. E si può finire col
ritrovare nella vecchia Psicologia delle
folle di Gustave Le Bon una formidabile anticipazione di quella sorta di
vertigine che sperimentiamo oggi. «Mentre le nostre antiche credenze vacillano
e dispaiono, mentre le vecchie colonne della società crollano una dopo
l’altra», scriveva Le Bon nell’incipit del
suo pamphlet più celebre, «l’azione
delle folle è l’unica forza che nulla minaccia e il cui prestigio cresce
sempre». Ma l’«era delle folle» era soprattutto l’annuncio di un imminente
cataclisma, destinato a dissolvere le basi stesse dell’ordine sociale. «Quando
l’edificio di una società è tarlato», osservava Le Bon, «le folle ne
determinano il crollo». Se cioè le orde dei barbari avevano dissolto la civiltà
dell’impero romano, le nuove folle potevano solo distruggere la società esistente,
senza essere in grado di costruire nulla di solido.
Anche
Jamie Bartlett, direttore del Centro per l’analisi dei social media del
think-tank Demos, nel suo libro The
People Vs Tech. How the internet is killing democracy (and how we save it) (Ebury
Press, pp. 242), sostiene che la rivoluzione comunicativa dell’ultimo ventennio
abbia portato sulla scena la potenza distruttiva di nuove folle digitali. La
visione di Bartlett – lo si intuisce già dal titolo del suo testo – è agevolmente
ascrivibile alla schiera dei ‘tecno-pessimisti’, che vedono nello sviluppo
tecnologico una seria minaccia alle istituzioni democratiche. Molto
probabilmente, sostiene infatti, nei prossimi anni verranno progressivamente
erosi tutti quei pilastri su cui si è retto l’edificio della democrazia
rappresentativa: una cittadinanza attiva e dotata di autonomia intellettuale,
una cultura condivisa, elezioni libere e corrette, un’ampia classe media,
un’economia competitiva, una società civile indipendente dallo Stato e una diffusa
fiducia nei confronti dell’autorità. Per motivi in gran parte (anche se non
solo) connessi con le trasformazioni tecnologiche, tutti questi «pilastri» sono
però già oggi minacciati da processi di logoramento sempre più visibili. Innanzitutto,
la «datizzazione» e le tecniche predittive basate sugli algoritmi, oltre a
rappresentare un rischio per la nostra privacy,
profilano un tipo di scelta affidata alle macchine e sottratta agli individui. Il
punto è che potremmo convincerci (più rapidamente di quanto pensiamo) che le
decisioni assunte dagli algoritmi siano più efficaci, più oggettive e più
‘giuste’ di quelle che adotterebbero degli esseri umani. E che siano dunque più
efficaci di quelle adottate a seguito di processi di discussione democratica.
L’economia del futuro potrebbe inoltre aumentare ancora di più le
diseguaglianze, in particolare riducendo l’ampiezza della classe media. I
grandi giganti del web potrebbero estendere ancora di più le reti del loro controllo
sui diversi settori produttivi, avvicinandosi a costituire veri e propri
monopoli e aumentando così la loro influenza sulla società. E la stessa
autorità dello Stato potrebbe alla fine collassare.
Tra
le tendenze destinate secondo Bartlett a mettere in crisi l’edificio della
democrazia rappresentativa, la più suggestiva riconduce però probabilmente
proprio alla vecchia immagine delle folle distruttive evocata da Le Bon. Fino a
un decennio fa, molti guardavano a internet come a una grande agorà virtuale, in
cui si sarebbe realizzata una nuova democrazia diretta. Le cose sono andate
molto diversamente. E in particolare, i social media, invece di diventare uno
strumento di discussione e confronto, si sono rivelati un formidabile canale di
polarizzazione. In altre parole, invece di attenuare le differenze, le nuove
tecnologie comunicative hanno esasperato le distanze. Bartlett ritrova nella
crescita della polarizzazione una conferma della vecchia previsione di Marshall
McLuhan, secondo cui il villaggio globale avrebbe prodotto una nuova ondata di
‘ri-tribalizzazione’. La comunicazione digitale sembra in effetti favorire
l’«omofilia», ossia la tendenza a rivolgersi e a scambiare opinioni con persone
che condividono le medesime preferenze. Una conseguenza è, dunque, la
formazione di «tribù» sempre più convinte delle loro opinioni e insofferenti
nei confronti degli avversari. Ma un’altra dalle implicazioni cruciali per le
sorti della democrazia è lo sgretolamento di quella cultura condivisa in grado
di attenuare i conflitti e di trasformare dunque i ‘nemici politici’ in avversari
con cui è possibile discutere e trovare un compromesso.
Naturalmente
il pessimismo di Bartlett lascia più di qualche spazio per immaginare il futuro
in modo meno cupo. Ma, a ben vedere, non tutte le venti «idee per salvare la
democrazia», con cui si conclude il volume, sembrano agevolmente realizzabili.
Un punto centrale rimane senza dubbio la necessità di aggiornare le leggi che
regolamentano le campagne elettorali, tenendo conto di come sono cambiate le
tecniche di mobilitazione negli ultimi dieci anni. Non è comunque sorprendente che
le contromisure forse più importanti – ma tutt’altro che semplici da realizzare
– riguardino lo stesso atteggiamento dei cittadini nei confronti delle tecnologie,
dalla tendenza a delegare alle macchine la responsabilità delle nostre scelte,
alla dipendenza compulsiva da internet, alla passiva accettazione della
disinformazione. Naturalmente sul futuro dei nostri sistemi politici pesano molte
altre incognite, alcune delle quali legate anche a dinamiche ‘strutturali’. Ma
è davvero probabile che la salvaguardia dei «pilastri» dell’edificio
democratico passi anche dalla conquista di una maggiore consapevolezza sui
rischi di manipolazione delle nuove tecnologie. Perché proprio una simile ‘educazione
digitale’ può consentire all’homo
democraticus di non cedere all’abbraccio seduttivo delle nuove folle.
Damiano Palano
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