di
Damiano Palano
Questa recensione al volume di Salvatore Veca, Il senso della possibilità. Sei lezioni (Feltrinelli, pp. 238, euro 22.00), è apparsa su "Avvenire" il 22 luglio 2018.
Quasi
un secolo fa, al termine di una celebre conferenza pronunciata a Monaco, Max
Weber mise in guardia dalle insidie che si nascondevano nella politica intesa (in
senso nobile) come «professione». E soprattutto indicò alla platea degli
studenti che aveva di fronte quali fossero gli ostacoli contro cui doveva scontrarsi
chiunque intendesse dedicarsi seriamente a questa attività. «È certo del tutto
esatto, e confermato da ogni esperienza storica», disse allora il sociologo, «che
non si realizzerebbe ciò che è possibile se nel mondo non si aspirasse sempre
all’impossibile». Chi era in grado di assumersi davvero un simile compito,
proseguì, doveva essere «un capo», se non addirittura «un eroe». Ma coloro che
non erano né capi né eroi dovevano «armarsi di quella fermezza interiore che
permette di resistere al naufragio di tutte le speranze», perché «altrimenti
non saranno in grado di realizzare anche solo ciò che oggi è possibile». Il sociologo
di Economia e società pronunciava la
propria lezione al principio del «secolo breve», nel clima rivoluzionario
dell’Europa post-bellica, in cui le speranze di trasformazione della realtà
andavano spesso ben al di là dei confini del possibile. Come avrebbero fatto
mezzo secolo dopo i contestatori del Sessantotto, anche gli studenti cui si
rivolgeva Weber pensavano infatti che essere realisti significasse chiedere
l’«impossibile». E probabilmente ritenevano che lo strumento per modificare la
realtà fosse la politica. Oggi le cose sono ovviamente ben diverse. Non
soltanto perché le grandi utopie che hanno nutrito il Novecento si sono
dissolte, ma anche perché la politica pare incapace di governare i flussi
dell’economia globale e perché i suoi margini d’azione sembrano essersi ridotti
alla pura amministrazione dell’esistente.
Il
nuovo libro di Salvatore Veca, Il senso
della possibilità. Sei lezioni (Feltrinelli, pp. 238, euro 22.00) torna a
esplorare la tensione che segnalava Weber. Ma proprio perché lo scenario con
cui si confronta è segnato dall’impotenza della politica e dall’apparente assenza
di alternative, per molti versi rappresenta un elogio dell’utopia. «Lo spazio
del possibile», scrive infatti, «è contratto e come dissolto», mentre «la
densità e la rigidità dei vincoli sono tali che non abbiamo più risorse
intellettuali, né morali, né motivazioni per prenderci per mano e ragionare e
operare insieme su forme più decenti di convivenza». Un po’ come faceva Weber,
anche Veca invita allora a ripensare il realismo, discostandosi però da quella
tradizione di pensiero che considera la realtà come un insieme di determinanti
inaggirabili. Naturalmente non nega che i vincoli esistano, ma cerca di
mostrare che lo spazio della realtà non è mai totalmente determinato dalla
necessità. In altre parole, c’è sempre un margine di incertezza, in cui si
situa la possibilità di sviluppi alternativi. L’elogio dell’utopia in cui Veca
si impegna è allora una sollecitazione a esplorare lo spazio della possibilità
dentro i confini che il mondo concede, a immaginare «mondi possibili», «modi
differenti di convivere, ideali di società ed esperimenti di vita individuali e
collettivi».
L’utopia
di Veca naturalmente ha poco a che vedere con quelle che hanno nutrito le
rivoluzioni novecentesche. Si tratta piuttosto di un’«utopia realistica», che,
sulla scia di John Rawls, punta principalmente a estendere «quelli che di
solito sono considerati i limiti delle possibilità politiche pratiche». E,
dunque, più che a fornire una visione radicalmente contrapposta alla
rappresentazione del mondo offerta dal realismo, si propone di indicare
l’utilità di uno scavo dentro le nicchie della contingenza. «Il discorso
dell’utopia ragionevole non rinuncia all’esplorazione delle possibilità istituzionali
e politiche alternative», scrive infatti il filosofo, «ma assume che questa
esplorazione abbia luogo entro lo
spazio che il mondo ci concede». Ed è anche per questo che, secondo Veca, l’immaginazione
politica e sociale non eleva castelli su una tabula rasa, ma attinge alle voci dell’umanità che abbiamo alle
spalle. Qualsiasi progetto futuro non può che alimentarsi cioè al senso del
passato, alle esperienze riuscite, oltre che alle catastrofi e ai fallimenti. Ma
allora non è solo per la presa dei vincoli economici che l’immaginazione
politica si restringe. L’utopia scompare infatti dalla nostra mappa anche perché
il nostro sguardo è schiacciato sul presente. E proprio perché non siamo più
davvero in grado di guardare alle nostre spalle, tendiamo a concepire il futuro
come un destino già scritto.
Damiano Palano
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