di
Damiano Palano
Questa recensione al libro di Michael Billig Nazionalismo
banale (Rubbettino, pp. 351, euro 20.00) è apparsa su "Avvenire" il 18 novembre 2018.
Nel suo celebre, contestato e spesso
frainteso libro sulla fine della Storia, Francis Fukuyama non concedeva grandi
prospettive al nazionalismo. La conclusione della Guerra fredda aveva sancito
naturalmente la sconfitta delle ideologie socialiste e la vittoria della
democrazia liberale. Ma quelle forze economiche, che un tempo avevano richiesto
la formazione di grandi entità centralizzate, ora spingevano verso la creazione
di mercato mondiale unico e integrato, destinato a dissolvere tutte le barriere
nazionali. «Il fatto che la neutralizzazione definitiva del nazionalismo non
possa avere luogo in questa o nella prossima generazione», aggiungeva
l’analista nippo-americano, «non cambia niente: la sua fine è ormai segnata».
Naturalmente sarebbe facile oggi contestare a Fukuyama questa previsione. Poco
più di un quarto di secolo dopo, il nazionalismo sembra infatti tutt’altro che
un concorrente sconfitto o una comparsa della scena politica contemporanea. E
non è dunque affatto sorprendente che si sia riaperta la discussione su cosa
sia davvero il nazionalismo, sulle sue origini storiche, sulle sue dimensioni
ideologiche.
Un tassello importante di questo dibattito è senza dubbio
rappresentato dal libro di Michael Billig Nazionalismo
banale, apparso originariamente nel 1995 e ora finalmente tradotto in
italiano (con una introduzione di Andrea Geniola, Rubbettino, pp. 351, euro 20.00). Il tema al cuore del libro non è
però quel nazionalismo aggressivo, estremista, violento, che proprio alla metà
degli anni Novanta del secolo scorso – quando il libro venne pubblicato – aveva
da poco fatto la propria ricomparsa nel cuore del Vecchio continente. Billig si
propone piuttosto di indagare il nazionalismo ‘discreto’ che compare nella nostra
vita quotidiana, il nazionalismo ‘banale’ delle bandiere issate sugli edifici
pubblici o dei simboli stampati sulla carta moneta. In questo senso, il suo lavoro
si colloca in una corrente di ricerche volta a smantellare il mito
‘primordialista’, secondo cui ogni nazione avrebbe alla base una lingua comune,
tradizioni condivise e dunque un’identità ben definita (precedente rispetto
agli Stati). A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, molti studiosi –
tra cui, per citare solo qualche esempio, Ernst Gellner, Eric Hobsbawm e
Benedict Anderson – hanno d’altronde messo radicalmente in discussione una
simile visione. Hanno mostrato innanzitutto che molte delle ‘tradizioni’ che le
nazioni custodiscono gelosamente – per esempio l’abbigliamento delle Highlands
scozzesi o i rituali della monarchia britannica – sono in realtà invenzioni tutto
sommato recenti, quasi sempre risalenti al trentennio che precedette la Prima
guerra mondiale. E più in generale hanno messo in luce come le identità e le
lingue nazionali siano il prodotto dell’azione di uniformazione culturale
esercitata dagli Stati negli ultimi due secoli. L’analisi di Billig si colloca
però a un livello diverso. Come psicologo sociale, più che alla genesi storica
delle ‘tradizioni’ nazionali, è infatti interessato al ruolo che le
rappresentazioni sociali hanno nel plasmare il nostro modo di concepire la
realtà. Ed è dunque investigando il nostro ‘senso comune’ che porta alla luce
la centralità del riferimento (spesso implicito) alla nazione.
Di solito non facciamo molta fatica a riconoscere (e a
stigmatizzare) il nazionalismo, specie quando la sua retorica viene inalberata
da leader e movimenti estremisti. Ma siamo invece meno disponibili a
riconoscere anche nelle democrazie mature la presenza costante della «coscienza
ideologica della nazione». Una coscienza che «abbraccia un complesso insieme di
temi relativi a ‘noi’, la ‘nostra patria’, le ‘nazioni’ (‘loro’ e ‘nostre’), il
‘mondo’, così come la moralità del dovere e dell’onore nazionali». Secondo
Billig, anche nei paesi in cui il nazionalismo sembra essere stato dimenticato,
continua infatti a vivere in una condizione endemica, per essere riattivato
solo in presenza di crisi. La nazione fa cioè costantemente da sfondo ai
discorsi politici, ai prodotti culturali, al modo stesso in cui i giornali sono
strutturati. Il richiamo mentale del ‘nazionalismo banale’ non viene neppure
percepito, così come non viene notata la bandiera che penzola da un edificio
pubblico. Ma in realtà struttura il nostro senso comune. In altre parole,
alcune idee che ci sembrano persino ‘banali’ sono in realtà costruzioni
ideologiche del nazionalismo, «permanenze inventate» nell’età moderna, che ci
sembrano esistere da sempre. Da questo punto di vista è sufficiente pensare
alla nostra concezione delle lingue, una concezione plasmata da un mondo di
lingue formalmente costituite, risultato dei processi di uniformazione compiuti
dagli Stati. Ma anche al linguaggio di giornali e tv, alle previsioni
metereologiche o alle cronache sportive, che – nella misura in cui usano
termini come «noi» e «qui» - ci rammentano implicitamente la nostra
appartenenza alla comunità nazionale.
Ovviamente l’indagine di Billig non dimostra che il ‘nazionalismo
banale’ sia sempre qualcosa di negativo. Per molti versi, si limita a
ricordarci che la nazione non è scomparsa, anche se spesso la sua presenza
passa inosservata. E si tratta certo di un motivo in più per ridimensionare
tutte quelle previsioni che – partire da Fukuyama – davano per spacciato il
nazionalismo. Da un certo punto di vista si potrebbe ribattere allo studioso
britannico che è persino un bene che la nazione sia ‘sopravvissuta’, per il
semplice motivo che, in molti casi, è davvero solo l’identità nazionale a
tenere insieme una società. Ma, sulla scorta di Hannah Arendt, Billig non manca
di ricordarci che ‘banale’ non significa affatto benevolo. E proprio per questo
non dovremmo dimenticare che difficilmente il ‘nazionalismo banale’ può essere
davvero innocente.
Damiano Palano
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