domenica 16 dicembre 2018

Le bandiere discrete del «nazionalismo banale». Un libro di Michael Billig



di Damiano Palano


Questa recensione al libro di Michael Billig Nazionalismo banale (Rubbettino, pp. 351, euro 20.00) è apparsa su "Avvenire" il 18 novembre 2018.


Nel suo celebre, contestato e spesso frainteso libro sulla fine della Storia, Francis Fukuyama non concedeva grandi prospettive al nazionalismo. La conclusione della Guerra fredda aveva sancito naturalmente la sconfitta delle ideologie socialiste e la vittoria della democrazia liberale. Ma quelle forze economiche, che un tempo avevano richiesto la formazione di grandi entità centralizzate, ora spingevano verso la creazione di mercato mondiale unico e integrato, destinato a dissolvere tutte le barriere nazionali. «Il fatto che la neutralizzazione definitiva del nazionalismo non possa avere luogo in questa o nella prossima generazione», aggiungeva l’analista nippo-americano, «non cambia niente: la sua fine è ormai segnata». Naturalmente sarebbe facile oggi contestare a Fukuyama questa previsione. Poco più di un quarto di secolo dopo, il nazionalismo sembra infatti tutt’altro che un concorrente sconfitto o una comparsa della scena politica contemporanea. E non è dunque affatto sorprendente che si sia riaperta la discussione su cosa sia davvero il nazionalismo, sulle sue origini storiche, sulle sue dimensioni ideologiche.

Un tassello importante di questo dibattito è senza dubbio rappresentato dal libro di Michael Billig Nazionalismo banale, apparso originariamente nel 1995 e ora finalmente tradotto in italiano (con una introduzione di Andrea Geniola, Rubbettino, pp. 351, euro 20.00). Il tema al cuore del libro non è però quel nazionalismo aggressivo, estremista, violento, che proprio alla metà degli anni Novanta del secolo scorso – quando il libro venne pubblicato – aveva da poco fatto la propria ricomparsa nel cuore del Vecchio continente. Billig si propone piuttosto di indagare il nazionalismo ‘discreto’ che compare nella nostra vita quotidiana, il nazionalismo ‘banale’ delle bandiere issate sugli edifici pubblici o dei simboli stampati sulla carta moneta. In questo senso, il suo lavoro si colloca in una corrente di ricerche volta a smantellare il mito ‘primordialista’, secondo cui ogni nazione avrebbe alla base una lingua comune, tradizioni condivise e dunque un’identità ben definita (precedente rispetto agli Stati). A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, molti studiosi – tra cui, per citare solo qualche esempio, Ernst Gellner, Eric Hobsbawm e Benedict Anderson – hanno d’altronde messo radicalmente in discussione una simile visione. Hanno mostrato innanzitutto che molte delle ‘tradizioni’ che le nazioni custodiscono gelosamente – per esempio l’abbigliamento delle Highlands scozzesi o i rituali della monarchia britannica – sono in realtà invenzioni tutto sommato recenti, quasi sempre risalenti al trentennio che precedette la Prima guerra mondiale. E più in generale hanno messo in luce come le identità e le lingue nazionali siano il prodotto dell’azione di uniformazione culturale esercitata dagli Stati negli ultimi due secoli. L’analisi di Billig si colloca però a un livello diverso. Come psicologo sociale, più che alla genesi storica delle ‘tradizioni’ nazionali, è infatti interessato al ruolo che le rappresentazioni sociali hanno nel plasmare il nostro modo di concepire la realtà. Ed è dunque investigando il nostro ‘senso comune’ che porta alla luce la centralità del riferimento (spesso implicito) alla nazione.

Di solito non facciamo molta fatica a riconoscere (e a stigmatizzare) il nazionalismo, specie quando la sua retorica viene inalberata da leader e movimenti estremisti. Ma siamo invece meno disponibili a riconoscere anche nelle democrazie mature la presenza costante della «coscienza ideologica della nazione». Una coscienza che «abbraccia un complesso insieme di temi relativi a ‘noi’, la ‘nostra patria’, le ‘nazioni’ (‘loro’ e ‘nostre’), il ‘mondo’, così come la moralità del dovere e dell’onore nazionali». Secondo Billig, anche nei paesi in cui il nazionalismo sembra essere stato dimenticato, continua infatti a vivere in una condizione endemica, per essere riattivato solo in presenza di crisi. La nazione fa cioè costantemente da sfondo ai discorsi politici, ai prodotti culturali, al modo stesso in cui i giornali sono strutturati. Il richiamo mentale del ‘nazionalismo banale’ non viene neppure percepito, così come non viene notata la bandiera che penzola da un edificio pubblico. Ma in realtà struttura il nostro senso comune. In altre parole, alcune idee che ci sembrano persino ‘banali’ sono in realtà costruzioni ideologiche del nazionalismo, «permanenze inventate» nell’età moderna, che ci sembrano esistere da sempre. Da questo punto di vista è sufficiente pensare alla nostra concezione delle lingue, una concezione plasmata da un mondo di lingue formalmente costituite, risultato dei processi di uniformazione compiuti dagli Stati. Ma anche al linguaggio di giornali e tv, alle previsioni metereologiche o alle cronache sportive, che – nella misura in cui usano termini come «noi» e «qui» - ci rammentano implicitamente la nostra appartenenza alla comunità nazionale.

Ovviamente l’indagine di Billig non dimostra che il ‘nazionalismo banale’ sia sempre qualcosa di negativo. Per molti versi, si limita a ricordarci che la nazione non è scomparsa, anche se spesso la sua presenza passa inosservata. E si tratta certo di un motivo in più per ridimensionare tutte quelle previsioni che – partire da Fukuyama – davano per spacciato il nazionalismo. Da un certo punto di vista si potrebbe ribattere allo studioso britannico che è persino un bene che la nazione sia ‘sopravvissuta’, per il semplice motivo che, in molti casi, è davvero solo l’identità nazionale a tenere insieme una società. Ma, sulla scorta di Hannah Arendt, Billig non manca di ricordarci che ‘banale’ non significa affatto benevolo. E proprio per questo non dovremmo dimenticare che difficilmente il ‘nazionalismo banale’ può essere davvero innocente.



 Damiano Palano

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