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domenica 23 dicembre 2018

La fine possibile della democrazia. "How democracy ends" di David Runciman




di Damiano Palano


Questa recensione al libro di David Runciman, How democracy ends, è apparsa su "Avvenire" il 5 dicembre 2018. 


Nel suo vecchio romanzo Qui non è possibile, il dimenticato premio Nobel Sinclair Lewis immaginò che, alla metà degli anni Trenta, anche negli Stati Uniti, favorita dal clima della grande crisi, potesse avere luogo una svolta autoritaria. «Qui non è possibile», non cessavano di ripetere molti dei protagonisti, persuasi che i vincoli costituzionali e la tradizione politica americana fossero baluardi inespugnabili per movimenti analoghi a quelli che in Italia e in Germania avevano travolto le istituzioni rappresentative. E invece, nell’incubo fantapolitico di Lewis, Berzelius Windrip – quasi un paradigma del leader populista, costruito sul modello del controverso senatore e governatore della Louisiana Huey Long – riusciva a conquistare la Casa Bianca, a instaurare una dittatura e a stabilire un ferreo controllo sulla società grazie a fedeli formazioni paramilitari. Naturalmente, come sappiamo, i timori di Lewis si sarebbero rivelati ben presto eccessivi. Negli ultimi anni, allarmati dai risultati eclatanti (e talvolta imprevisti) riportati da candidati e partiti ‘populisti’, diversi politologi sono invece tornati a chiedersi, ancora una volta, se non sia possibile anche in Occidente un crollo della democrazia. E cioè hanno iniziato a interrogarsi sull’eventualità che anche le democrazie mature, all’apparenza più consolidate e stabili, siano soggette al rischio di crisi politiche tanto gravi da innescare una svolta autoritaria. Roberto Stefan Foa e Yascha Mounk hanno per esempio ravvisato i segnali di un «deconsolidamento» delle democrazie occidentali. E Steven Levitsky e Daniel Ziblatt, guardando alla storia del Novecento, hanno riconosciuto, soprattutto negli Stati Uniti, dinamiche simili a quelle che prepararono l’ascesa dei regimi autoritari nell’Europa uscita dalla Prima guerra mondiale. Nel suo brillante saggio How Democracy Ends (Profile Books, pp. 249), David Runciman segue invece un’altra strada. Esclude categoricamente che si possa tornare agli Trenta, e cioè che la minaccia per le democrazie avanzate possa giungere dalla presa del potere da parte di movimenti autoritari e totalitari. Ciò non significa che la democrazia non corra qualche rischio, ma per il politologo – direttore del Dipartimento di Politica e Studi internazionali dell’Università di Cambridge – la storia non si ripete e le minacce non sono più quelle del passato. Le nostre società, sostiene, sono «troppo ricche, troppo anziane, troppo interconnesse» perché mutamenti come quelli degli anni tra le due guerre possano ripetersi. Guardando al passato, possiamo anzi correre il rischio di non riconoscere le nuove forme che potrebbe assumere la fine della democrazia.

Alcuni anni fa, nel suo The Confidence Trap, Runciman sosteneva che il rischio principale per il futuro delle democrazie occidentali derivasse dal successo che quel modello politico aveva ottenuto. Le istituzioni democratiche sono state infatti in grado di monopolizzare la violenza, di consentire lo sviluppo economico, di sostenere uno stabile progresso tecnologico e di raggiungere un livello di benessere sconosciuto a ogni altra società del passato. Ma proprio questa assenza di precedenti storici ci priva della possibilità di riconoscere, sulla scorta dell’esperienza storica, i rischi di fallimento. La democrazia occidentale potrebbe così rimanere vittima dell’eccessiva sicurezza riposta nelle proprie capacità. E potrebbe persuadersi cioè, sulla base dei successi conseguiti nel passato, che il processo di miglioramento sia destinato a proseguire in modo interminabile, che gli incubi del passato non possano tornare e che tutti i problemi – anche i più complicati – siano in fondo risolvibili. In How Democracy Ends Runciman torna a sviluppare questo discorso, invitando a distogliere lo sguardo dal passato, per tentare invece di «pensare l’impensabile». Il politologo cerca cioè immaginare gli scenari che potrebbero mettere in crisi le istituzioni rappresentative occidentali. In primo luogo, considera l’eventualità di un colpo di Stato: un’ipotesi che non può certo essere considerata come un ricordo del passato, ma che – almeno per quanto concerne le democrazie consolidate – rimane piuttosto improbabile. Uno degli obiettivi cui puntava la spettacolare presa del potere da parte dei golpisti era infatti dissuadere gli oppositori dal ricorso alle armi. Ma la notevole riduzione della violenza politica nelle società occidentali rende molto difficile che una presa del potere avvenga secondo il vecchio repertorio del Putsch. Più probabile sarebbe invece una sorta di invisibile golpe «incrementale», che conti sull’apatia di quella che Runciman chiama «zombie-democracy», e che dunque riduca gradualmente libertà e garanzie. Un secondo scenario è legato all’insorgere di una catastrofe, specialmente perché, a differenza di quelle del passato, le minacce di oggi (come il riscaldamento globale o un incidente nucleare) non sembrano poter innescare un’azione collettiva. Infine, il politologo considera le conseguenze che potrebbe avere la rivoluzione digitale. La comunicazione contemporanea e i social media rappresentano infatti un’insidia fatale per la democrazia rappresentativa. Invece di abituare i cittadini ad attendere con pazienza gli effetti delle decisioni politiche, li incoraggiano a richiedere una gratificazione immediata, li inducono a chiedere autenticità e trasparenza. E, al tempo stesso, spingono gli attori politici a inseguire un sostegno immediato e a rinunciare a progetti di lungo periodo.

Come tutti gli esercizi di futurologia, il libro di Runciman – benché sia davvero ricco di suggestioni – non può prevedere il futuro. Probabilmente il politologo britannico ha ragione a escludere che le tensioni dei prossimi anni non ricalcheranno quelle del passato. Ma sarebbe comunque un errore ritenere che la storia non ci insegni nulla. Non solo perché proprio l’esperienza del passato suggerisce di non riporre eccessiva fiducia nelle virtù delle istituzioni e di diffidare di chi ripete, con un ottimismo un po’ ingenuo, che «qui non è possibile». Ma anche perché, probabilmente, le trasformazioni contemporanee non possono essere davvero comprese senza riconoscere come spesso le crisi del presente affondino (almeno in parte) le loro radici nel passato.



Damiano Palano

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