di Damiano Palano
Questa recensione al libro di David Runciman, How democracy ends, è apparsa su "Avvenire" il 5 dicembre 2018.
Nel
suo vecchio romanzo Qui non è possibile,
il dimenticato premio Nobel Sinclair Lewis immaginò che, alla metà degli anni
Trenta, anche negli Stati Uniti, favorita dal clima della grande crisi, potesse
avere luogo una svolta autoritaria. «Qui non è possibile», non cessavano di
ripetere molti dei protagonisti, persuasi che i vincoli costituzionali e la
tradizione politica americana fossero baluardi inespugnabili per movimenti
analoghi a quelli che in Italia e in Germania avevano travolto le istituzioni
rappresentative. E invece, nell’incubo fantapolitico di Lewis, Berzelius
Windrip – quasi un paradigma del leader populista, costruito sul modello del
controverso senatore e governatore della Louisiana Huey Long – riusciva a
conquistare la Casa Bianca, a instaurare una dittatura e a stabilire un ferreo
controllo sulla società grazie a fedeli formazioni paramilitari. Naturalmente,
come sappiamo, i timori di Lewis si sarebbero rivelati ben presto eccessivi. Negli
ultimi anni, allarmati dai risultati eclatanti (e talvolta imprevisti)
riportati da candidati e partiti ‘populisti’, diversi politologi sono invece
tornati a chiedersi, ancora una volta, se non sia possibile anche in Occidente
un crollo della democrazia. E cioè hanno iniziato a interrogarsi
sull’eventualità che anche le democrazie mature, all’apparenza più consolidate
e stabili, siano soggette al rischio di crisi politiche tanto gravi da
innescare una svolta autoritaria. Roberto Stefan Foa e Yascha Mounk hanno per
esempio ravvisato i segnali di un «deconsolidamento» delle democrazie
occidentali. E Steven Levitsky e Daniel Ziblatt, guardando alla storia del
Novecento, hanno riconosciuto, soprattutto negli Stati Uniti, dinamiche simili
a quelle che prepararono l’ascesa dei regimi autoritari nell’Europa uscita
dalla Prima guerra mondiale. Nel suo brillante saggio How Democracy Ends (Profile Books, pp. 249), David Runciman segue
invece un’altra strada. Esclude categoricamente che si possa tornare agli
Trenta, e cioè che la minaccia per le democrazie avanzate possa giungere dalla
presa del potere da parte di movimenti autoritari e totalitari. Ciò non
significa che la democrazia non corra qualche rischio, ma per il politologo –
direttore del Dipartimento di Politica e Studi internazionali dell’Università
di Cambridge – la storia non si ripete e le minacce non sono più quelle del
passato. Le nostre società, sostiene, sono «troppo ricche, troppo anziane,
troppo interconnesse» perché mutamenti come quelli degli anni tra le due guerre
possano ripetersi. Guardando al passato, possiamo anzi correre il rischio di
non riconoscere le nuove forme che potrebbe assumere la fine della democrazia.
Alcuni
anni fa, nel suo The Confidence Trap,
Runciman sosteneva che il rischio principale per il futuro delle democrazie
occidentali derivasse dal successo che quel modello politico aveva ottenuto. Le
istituzioni democratiche sono state infatti in grado di monopolizzare la
violenza, di consentire lo sviluppo economico, di sostenere uno stabile
progresso tecnologico e di raggiungere un livello di benessere sconosciuto a
ogni altra società del passato. Ma proprio questa assenza di precedenti storici
ci priva della possibilità di riconoscere, sulla scorta dell’esperienza storica,
i rischi di fallimento. La democrazia occidentale potrebbe così rimanere
vittima dell’eccessiva sicurezza riposta nelle proprie capacità. E potrebbe
persuadersi cioè, sulla base dei successi conseguiti nel passato, che il
processo di miglioramento sia destinato a proseguire in modo interminabile, che
gli incubi del passato non possano tornare e che tutti i problemi – anche i più
complicati – siano in fondo risolvibili. In How
Democracy Ends Runciman torna a sviluppare questo discorso, invitando a distogliere
lo sguardo dal passato, per tentare invece di «pensare l’impensabile». Il
politologo cerca cioè immaginare gli scenari che potrebbero mettere in crisi le
istituzioni rappresentative occidentali. In primo luogo, considera
l’eventualità di un colpo di Stato: un’ipotesi che non può certo essere
considerata come un ricordo del passato, ma che – almeno per quanto concerne le
democrazie consolidate – rimane piuttosto improbabile. Uno degli obiettivi cui
puntava la spettacolare presa del potere da parte dei golpisti era infatti
dissuadere gli oppositori dal ricorso alle armi. Ma la notevole riduzione della
violenza politica nelle società occidentali rende molto difficile che una presa
del potere avvenga secondo il vecchio repertorio del Putsch. Più probabile sarebbe invece una sorta di invisibile golpe
«incrementale», che conti sull’apatia di quella che Runciman chiama «zombie-democracy»,
e che dunque riduca gradualmente libertà e garanzie. Un secondo scenario è
legato all’insorgere di una catastrofe, specialmente perché, a differenza di
quelle del passato, le minacce di oggi (come il riscaldamento globale o un
incidente nucleare) non sembrano poter innescare un’azione collettiva. Infine,
il politologo considera le conseguenze che potrebbe avere la rivoluzione
digitale. La comunicazione contemporanea e i social media rappresentano infatti
un’insidia fatale per la democrazia rappresentativa. Invece di abituare i
cittadini ad attendere con pazienza gli effetti delle decisioni politiche, li
incoraggiano a richiedere una gratificazione immediata, li inducono a chiedere
autenticità e trasparenza. E, al tempo stesso, spingono gli attori politici a inseguire
un sostegno immediato e a rinunciare a progetti di lungo periodo.
Come
tutti gli esercizi di futurologia, il libro di Runciman – benché sia davvero
ricco di suggestioni – non può prevedere il futuro. Probabilmente il politologo
britannico ha ragione a escludere che le tensioni dei prossimi anni non ricalcheranno
quelle del passato. Ma sarebbe comunque un errore ritenere che la storia non ci
insegni nulla. Non solo perché proprio l’esperienza del passato suggerisce di
non riporre eccessiva fiducia nelle virtù delle istituzioni e di diffidare di
chi ripete, con un ottimismo un po’ ingenuo, che «qui non è possibile». Ma anche
perché, probabilmente, le trasformazioni contemporanee non possono essere
davvero comprese senza riconoscere come spesso le crisi del presente affondino (almeno
in parte) le loro radici nel passato.
Damiano Palano
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