di
Damiano Palano
Questa recensione al libro di Heinrich Meier, "La Lezione di
Carl Schmitt. Quattro capitoli sulla distinzione tra Teologia politica e
Filosofia politica (Cantagalli, pp. 343, euro 22.00) è apparsa su "Avvenire" il 16 novembre 2018.
Nel
novembre 1931 Leo Strauss, allora trentaduenne allievo di Ernst Cassirer, fece
visita a Carl Schmitt per chiedergli una lettera di referenza. Negli anni
precedenti, dopo aver conseguito la laurea, Strauss aveva lavorato presso
l’Accademia di Studi sull’Ebraismo, che però, a causa di difficoltà economiche,
si trovava ora costretta a licenziare i collaboratori. L’intenzione del giovane
studioso era dunque di domandare alla Fondazione Rockfeller un contributo
finanziario per proseguire i propri studi su Thomas Hobbes. E una
raccomandazione di Schmitt – che era allora uno dei più illustri giuristi della
Repubblica di Weimar – poteva senz’altro rafforzare la candidatura. Un mese
dopo – come attestano i diari di Schmitt – Strauss inviò inoltre al più anziano
e già affermato studioso un dattiloscritto in cui esponeva il proprio progetto
di ricerca. La relazione stesa da Schmitt probabilmente facilitò il successo
della proposta di Strauss, che in effetti a marzo poté comunicare al proprio
sostenitore l’esito positivo della domanda. Il rapporto tra i due studiosi
avrebbe però conosciuto l’episodio culminante alcuni mesi dopo. Nel giugno del
1932 Strauss inviò infatti a Schmitt un denso dattiloscritto dedicato a una
lettura critica del suo celebre saggio sul Concetto
di ‘politico’, che era apparso originariamente nel 1927 ma che quell’anno
era stato ripubblicato in una nuova edizione, rivista e ampliata. Il giurista
rimase davvero colpito dalle osservazioni del giovane studioso. Nelle edizioni
successive del suo lavoro, richiamò infatti in diversi punti le obiezioni di
Strauss, accogliendone peraltro le indicazioni. E – come dimostrano i carteggi
– fece in modo che la lunga recensione fosse tempestivamente pubblicata sul
prestigioso «Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», la medesima
rivista in cui il saggio era originariamente comparso. In seguito, Strauss
scrisse ancora due volte al giurista, l’ultima volta – ormai nel luglio 1933 –
da Parigi, dove si era trasferito grazie alla borsa ottenuta. Schmitt non
rispose mai a quell’ultima lettera. E tra i due studiosi non ci fu da allora
più alcun rapporto. Il clima politico era d’altronde radicalmente mutato. E soprattutto
erano cambiate le posizioni di Schmitt, che si apprestava ormai a vivere la
famigerata breve esperienza di ‘giurista di corte’ del nuovo regime
nazionalsocialista. Un’esperienza che probabilmente l’ebreo Strauss – di lì a
poco trasferitosi negli Stati Uniti – non poté dimenticare.
Anche se i due non ebbero mai
più alcun incontro, probabilmente non cessò mai il loro dialogo ‘nascosto’. È
questa almeno la tesi che sostiene da tempo Heinrich Meier, docente
all’Università di Monaco e curatore dell’edizione tedesca delle opere di
Strauss. Nel suo Carl Schmitt e Leo
Strauss (Cantagalli) mostrava infatti come le critiche del giovane filosofo
avessero indotto l’autore del Concetto di
‘politico’ a rivedere le proprie
posizioni originarie. Nella Lezione di
Carl Schmitt. Quattro capitoli sulla distinzione tra Teologia politica e
Filosofia politica, da poco tradotto in italiano (Cantagalli, pp. 343, euro 22.00), torna più ampiamente su questa
tesi, cercandone una verifica nell’intera riflessione dello studioso di
Plettenberg. In particolare, mostra come la provocazione di Strauss indusse Schmitt
a rivedere la propria valutazione di Hobbes. Secondo Strauss, l’autore del Leviatano doveva essere paradossalmente
considerato come il fondatore ‘illiberale’ del liberalismo. E Schmitt – che in
precedenza aveva accolto senza riserve la lezione hobbesiana – si rese conto di
non poterne recepire per intero la visione. Tutta la riflessione schmittiana
aveva infatti preso le mosse dall’indignazione contro l’«epoca della
sicurezza», contro la hybris degli
uomini che mettono il calcolo dei propri interessi al posto della provvidenza
divina. Ma, promettendo sicurezza in cambio di libertà, di fatto l’operazione
di Hobbes aveva invece innescato proprio quella ‘depoliticizzazione’ che il
liberalismo avrebbe portato a compimento.
La lettura di Meier si
sofferma anche su un altro aspetto importante. A suo avviso, nel ‘dialogo
nascosto’ con Strauss, Schmitt fu indotto almeno in parte a esplicitare le
premesse ‘teologiche’ della propria riflessione. Sezionando l’intera opera
schmittiana, Meier sostiene così che la Teologia politica per Schmitt non fu semplicemente
una chiave per cogliere la struttura dei concetti politici. La Teologia
politica coincise per lui anche con una visione della politica saldamente
radicata nella fede nella verità rivelata. E in questo si distingueva radicalmente
dalla Filosofia politica, rivolta invece a rispondere alla questione del giusto
solo sulla base della «saggezza umana». Anche la concezione che riconduce il
‘politico’ alla distinzione tra ‘amico’ e ‘nemico’ avrebbe allora come
fondamento il dogma del peccato originale. Per non impegnarsi in una
discussione teologica, secondo Meier Schmitt non esplicitò però mai le più
profonde matrici del proprio pensiero. La sua autentica Teologia politica può così
solo essere ‘intuita’ a partire da passaggi occasionali (peraltro dal
significato non sempre univoco). Ed è probabilmente anche per questa ambiguità
che – nonostante l’interpretazione di Meier risulti suggestiva, e in molti casi
davvero convincente – il ‘mistero’ di Schmitt è destinato a rimanere senza
soluzione, avvolto in una coltre impenetrabile di allusioni, occultamenti,
giustificazioni.
Damiano Palano
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