di Damiano Palano
Questa recensione al libro di Steven Levitsky e
Daniel Ziblatt, How
democracies die (Viking) è apparsa su "Avvenire" il 18 ottobre 2018.
In uno dei suoi ultimi romanzi, Il complotto contro l’America, Philip Roth immaginò che, allo
scoppio della Seconda guerra mondiale, la storia degli Stati Uniti fosse andata
in un’altra direzione. L’«ucronia» di Roth descriveva infatti la travolgente ascesa
politica di Charles Lindbergh, protagonista nel 1927 della prima trasvolata
oceanica in solitario a bordo del suo monoplano Spirit of St. Louis. Dopo aver conquistato una vasta popolarità grazie
alle proprie imprese, l’aviatore era divenuto il portavoce di uno schieramento
isolazionista, che – con dichiarate simpatie per la Germania hitleriana e un
evidente antisemitismo – si opponeva all’ingresso degli Stati Uniti nel
conflitto bellico. Privo di qualsiasi esperienza politica, ma sostenuto da un
travolgente consenso popolare (oltre che dall’occulto appoggio tedesco),
Lindbergh, nella ‘storia alternativa’ di Roth, irrompeva a sorpresa nella
campagna presidenziale del 1940, ottenendo la nomination del Partito
Repubblicano, paralizzato da lotte intestine. E con lo slogan «America First»
riusciva a conquistare la Casa Bianca, portando con sé una pattuglia di
elementi filo-nazisti che, già nei primi mesi di governo, introdussero forti
limitazioni alle libertà civili e avviarono persecuzioni contro gli ebrei. Nel romanzo
‘ucronico’ di Roth la misteriosa scomparsa di Lindbergh finiva comunque col
riportare la storia americana sul binario democratico, e già nel 1942 gli Stati
Uniti – nuovamente guidati da Franklin Delano Roosevelt – potevano entrare in
guerra contro le potenze dell’Asse.
Se i timori per una deriva autoritaria negli Stati
Uniti sono rimasti a lungo solo il materiale per romanzi fantapolitici, agli
occhi di molti quei timori sono diventati invece realistici nel novembre 2016,
con la conquista della Casa Bianca da parte di Donald Trump. La travolgente
ascesa politica del miliardario newyorkese – peraltro all’insegna dello stesso
slogan «America First», che aveva inalberato il vecchio comitato isolazionista animato
nel 1940 da Lindbergh ed Henry Ford – ha acceso violente polemiche e alimentato
contestazioni da molto tempo sconosciute sull’altra sponda dell’Atlantico. Ma
ha anche finito col sollecitare discussioni vivaci tra i politologi, che –
spesso risentendo dell’animosità del momento – hanno iniziato a interrogarsi
sul modo in cui un regime democratico può crollare. In questa discussione
spicca in particolare il lavoro di due politologi di Harvard, Steven Levitsky e
Daniel Ziblatt, che nel loro How
democracies die (Viking, pp. 312), hanno cercato di trovare nella ‘lezione
della storia’ qualche indicazione sui rischi che corrono le democrazie
occidentali (e non solo quella a stelle e strisce). Come sottolineano i due
studiosi, ci sono due strade che possono condurre alla fine di un regime
democratico. La prima è quella del ‘colpo di Stato’, con cui un piccolo gruppo
di armati si impossessa del potere e sospende libertà e garanzie, schiacciando
con la violenza qualsiasi traccia di opposizione. Una seconda strada – meno
drammatica ma ugualmente distruttiva – prevede invece che siano dei presidenti
o primi ministri eletti a sovvertire le regole democratiche. Ed è proprio
questa seconda dinamica che risulta più frequente nel mondo nato dal crollo del
Muro di Berlino. Dopo il 1989 le dittature più palesi sono in gran parte scomparse,
e anche i colpi di Stato militari sono diventati meno frequenti, mentre nella
maggior parte dei paesi si tengono elezioni (anche se non sempre competitive).
E, soprattutto, notano Levitsky e Ziblatt, la maggior parte delle rotture
democratiche è avvenuta per opera di governi eletti. I due politologi si
riferiscono al Venezuela di Chávez, oltre che alle tensioni in Georgia,
Ungheria, Nicaragua, Perù, Filippine, Polonia, Russia, Sri Lanka, Turchia e
Ucraina. Ciò significa che i mutamenti avvengono senza che siano cancellate le
carte costituzionali o che siano sospese le elezioni. La democrazia viene
dunque abbandonata ‘legalmente’, nel senso che viene accettata dalle assemblee
elettive o dalle corti. E, soprattutto, tutto ciò avviene in modo
«impercettibile», perché i cittadini non si rendono conto né che stia prendendo
forma un regime autoritario, né che siano abbandonate le garanzie della
democrazia liberale
Mettendo insieme le loro competenze, Levitsky e
Ziblatt cercano dunque di ‘imparare dalla storia’, e cioè di capire quali siano
stati i fattori che – nel passato – hanno favorito (o impedito) il crollo della
democrazia per ‘via elettorale’. In questo senso, non possono evitare di
tornare all’Italia di Mussolini e alla Germania di Hitler, ma guardano anche al
Venezuela degli ultimi vent’anni e alla Spagna della guerra civile. In tutti
questi casi, erano visibili fin dall’inizio alcune tracce della torsione autoritaria,
che secondo i due politologi rappresentano indicatori del rischio che corre una
democrazia: il rifiuto delle regole del gioco democratico, la delegittimazione
degli avversari politici, la tolleranza della violenza, la restrizione mediante
disposizioni di legge delle libertà degli oppositori. Per Levitsky e Ziblatt
alcuni di questi segnali sono riconoscibili anche nell’America di Donald Trump,
anche se in realtà il logoramento delle istituzioni democratiche negli Stati
Uniti ha, per loro, radici più profonde. La convinzione dei due studiosi è
infatti che la divisione dei poteri e gli equilibri fissati dalle costituzioni
non siano sufficienti, da soli, a salvaguardare la democrazia. A rappresentare
un presidio ben più saldo sono regole non scritte, ma riconosciute e adottate
dai principali attori politici. Regole che consistono, innanzitutto, nella
reciproca tolleranza degli avversari e, in secondo luogo, nell’auto-disciplina
che induce chi occupa le cariche pubbliche a rispettare lo ‘spirito’ (e non
solo la forma) delle regole istituzionali. Ma sono proprio questi due elementi
a essere colpiti dalla crescente polarizzazione che da un decennio ha investito
la politica americana. I sostenitori dei diversi schieramenti hanno iniziato a
contestare la stessa legittimità dei rispettivi avversari, le contrapposizioni
politiche hanno assunto spesso anche una connotazione violenta, e ciò ha
indotto una parte della classe politica a ricorrere a forzature istituzionali
(per esempio, al Gerrymandering, ossia
alla artificiosa segmentazione dei collegi elettorali con l’obiettivo di
favorire il partito al potere).
La lettura di Levitsky e Ziblatt è evidentemente influenzata
dalle tensioni della politica americana. E qualcuno potrebbe considerare eccessivi
i timori dei due politologi. Ma è davvero plausibile che la polarizzazione visibile
in molte democrazie occidentali possa produrre conseguenze rilevanti.
Naturalmente la polarizzazione non è una novità, specie per il Vecchio
continente. Ma il fatto inedito è che oggi i partiti – o ciò che ne rimane – non
sembrano in grado di poter controllare e disciplinare la polarizzazione, come
invece fecero almeno per una parte del Novecento. E se ci auguriamo che questa
tendenza non debba condurci verso nuovi regimi autoritari, si deve però
riconoscere che, molto probabilmente, è destinata a mutare il volto delle
nostre democrazie.
Damiano Palano
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