di Damiano Palano
Questa recensione al libro di Timothy Snyder, La paura e la ragione. Il collasso della
democrazia in Russia, Europa e America (Rizzoli, pp. 393, euro 26.00), è apparsa su "Avvenire" del 10 ottobre 2018.
Secondo Freedom House, un’organizzazione non
governativa che da quarant’anni registra puntualmente (seppur con criteri
spesso criticati) lo stato delle libertà nel mondo, siamo dinanzi a un vero e proprio
«declino» democratico. La diffusione della democrazia liberale, che dopo il
1989 aveva conosciuto una marcia costante, si sarebbe infatti arrestata nel
2006. Da allora in poi il numero globale delle democrazie sarebbe progressivamente
diminuito. E segnali di deterioramento – relativi al minor rispetto di diritti
politici e libertà civili – emergerebbero anche nei paesi occidentali. Negli
ultimi anni molti politologi si sono persuasi in effetti che il rischio di una
«recessione democratica» debba essere preso sul serio, e ha dunque cominciato a
prendere corpo un’intesa discussione su come misurare il «deconsolidamento» dei
regimi democratici e sulle cause più profonde del malessere. Una posizione
specifica in questa riflessione è occupata dal libro di Timothy Snyder, La paura e la ragione. Il collasso della
democrazia in Russia, Europa e America (Rizzoli, pp. 393, euro 26.00), che
inquadra la questione puntando pressoché interamente lo sguardo sul ‘putinismo’
e sulle conseguenze che avrebbe prodotto sui paesi occidentali. Autore di
alcuni importanti lavori sull’Europa del Novecento, Snyder, storico
all’Università di Yale, dipinge infatti un grande affresco, senza dubbio ricco
di suggestioni, secondo cui si confrontano e si scontrano, negli ultimi tre
decenni, due opposte visioni del mondo e della storia. Da una parte, la
politica dell’inevitabilità, e cioè
la convinzione che il futuro sia solo la prosecuzione del presente, che la
strada del progresso sia tracciata e che non siano possibili alternative.
Dall’altra, la politica dell’eternità,
che colloca una specifica nazione al centro del racconto di una ciclica
vittimizzazione. Dopo il 1989, gli Stati Uniti e l’Unione Europea sposarono senza
esitazioni la politica dell’inevitabilità, persuadendosi che la Storia fosse
davvero finita e che democrazia e libero mercato fossero destinati a estendersi
al mondo intero. Ma gradualmente la realtà ha mostrato come non si trattasse di
processi inevitabili. E la politica dell’eternità ha cominciato a guadagnare
spazio, trovando nella Russia di Putin il centro della propria espansione.
Snyder ricostruisce le vicende russe a partire dalla
fine dell’Unione Sovietica e fissa in particolare una cesura nel 2010: proprio
quell’anno, secondo lo storico, la Russia sarebbe infatti diventata una
«cleptocrazia» e avrebbe cominciato ad agire per «demolire la fattualità»,
diffondendo disinformazione e fake news,
con l’obiettivo di destabilizzare Ue e Usa. Articolando la propria narrazione a
cerchi concentrici, Snyder si focalizza dunque sul recupero della filosofia
nazionalista di Ivan Il’in, sul ricorso alla manipolazione delle elezioni da
parte di Putin, sul ritorno di un progetto imperiale, sull’intervento in
Ucraina, sulla proliferazione di disinformazione, sull’influenza di Mosca nelle
elezioni americane del 2016. Con la campagna di Donald Trump, la politica
dell’eternità avrebbe infatti rimpiazzato anche negli Usa la vecchia politica
dell’inevitabilità. Portando con sé il corollario di un acceso nazionalismo, di
uno spregiudicato utilizzo di propaganda e fake
news, oltre che tentazioni di autoritarie.
Benché sia dedicato alla Russia dell’ultimo quarto di
secolo, il volume di Snyder è in effetti rivolto tutto verso gli Stati Uniti, ed
è per molti versi un nuovo capitolo di quella riflessione, innescata dalla
conquista della Casa Bianca da parte di Trump, sul possibile «collasso» della
democrazia americana. Ciò spiega la foga polemica che alimenta il volume. Ma è
anche la ragione per cui le suggestioni risultano affiancate da semplificazioni
e forzature polemiche. La sagoma della politica dell’eternità – certo efficace
sotto il profilo retorico – finisce così col fornire una spiegazione quantomeno
riduttiva (e talvolta persino caricaturale) del fallimento della democratizzazione
in Russa. E l’attenzione rivolta al Cremlino e alla sua influenza sulla
politica occidentale suggerisce anche una spiegazione davvero piuttosto
insoddisfacente dell’instabilità che ha investito i sistemi politici
occidentali. Molto probabilmente, come sostiene lo storico, Mosca utilizza
davvero gli strumenti di cui dispone per incidere sulla politica occidentale. E
Snyder non dimentica neppure le tensioni sociali emerse in Occidente dopo
l’esplosione della crisi economica. Ma ritenere che i rischi per le democrazie
occidentali giungano solo dall’insidiosa penetrazione di un nemico esterno
appare piuttosto semplicistico. Anche perché, in questo modo, si finisce col
replicare il medesimo limite della visione ‘vittimista’ della storia che Snyder
attribuisce alla Russia di oggi.
Damiano Palano
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