di Damiano Palano
Questa recensione al volume Introduzione alla
politologia storica. Questioni teoriche e studi di caso, curato da Marco
Almagisti, Carlo Baccetti e Paolo Graziano (Carocci, pp. 287, euro, 27.00), è apparsa, in una versione leggermente diversa, su "Avvenire" il 19 ottobre 2018.
Nel 1936, in uno dei suoi ultimi lavori,
Gaetano Mosca scrisse che la «vera scienza politica» doveva rivolgersi allo
studio «delle cause delle lente decadenze e delle crisi». E tornò a ribadire anche
una sua antica convinzione. Fin da mezzo secolo prima, Mosca – che, in virtù
dei suoi Elementi di scienza politica,
apparsi nel 1896, è considerato come il fondatore della moderna politologia
italiana – aveva infatti criticato le seduzioni del positivismo allora in auge,
il quale aveva spesso ricondotto lo studio degli organismi politici a
determinanti biologiche, razziali o geografiche. Per lo studioso palermitano,
l’unico modo di scoprire le «tendenze psicologiche costanti» che guidavano la
vita degli organismi politici era invece studiare il passato. E si augurava,
così, che «l’immenso materiale storico raccolto nel secolo decimonono e nei
primi decenni del ventesimo» rendesse possibile la creazione di una vera
scienza politica, capace di «insegnare agli uomini di Stato e alle classi
dirigenti la maniera di scongiurare quei periodi di decadenza», oltre che le «crisi
violente» destinate a dare origine a dolori e durature lacerazioni.
La scienza politica di oggi non rende a
Mosca molto più dell’omaggio rituale concesso agli antichi precursori. E per
molti versi è quasi inevitabile che una disciplina scientifica, una volta
entrata nella sua maturità, debba dimenticare i suoi fondatori. Meno scontato è
invece che la politologia italiana, nel corso degli anni, abbia in larga parte
rimosso dal proprio orizzonte la dimensione storica. Il consolidamento (anche
accademico) della disciplina, realizzatosi nell’ultimo trentennio, ha d’altronde
fatto emergere nuovi problemi, legati all’accentuata specializzazione e alla frammentazione
tra differenti campi di indagine. Imboccando il sentiero della
specializzazione, la ricerca politologica ha conquistato metodologie sempre più
raffinate e accurate. Ma ha finito talvolta col concentrarsi su domande poco
ambiziose e circoscritte. Ha così abbandonato molte di quelle questioni che
invece i ‘classici’ avevano posto al cuore della loro riflessione, a partire
dall’indagine sulle cause della decadenza degli organismi politici. E le conoscenze
che produce – per quanto conseguite con strumenti raffinati – rischiano dunque di
rivelarsi del tutto irrilevanti per affrontare le grandi trasformazioni che
investono le nostre società.
È da una simile consapevolezza che muovono i saggi
raccolti nel volume Introduzione alla
politologia storica. Questioni teoriche e studi di caso, curato da Marco
Almagisti, Carlo Baccetti e Paolo Graziano (Carocci, pp. 287, euro, 27.00).
L’obiettivo dei curatori non è ovviamente quello di ricondurre la scienza
politica nell’alveo della ricerca storica, né di cancellare le differenze metodologiche.
Per un verso, la conoscenza storica – pur ponendosi talvolta domande di
carattere generale – non può aggirare l’impegno di rappresentare, in tutta la
sua complessità, una specifica esperienza. Per l’altro, la scienza politica
conserva invece uno sguardo ‘riduzionista’, perché – anche quando si concentri
sul singolo caso – punta a cogliere delle uniformità destinate a riproporsi in
differenti contesti. Ma secondo Almagisti, Baccetti e Graziano è impossibile
«comprendere i principali processi politici della contemporaneità senza fare
riferimento alla ‘lunga durata’ dei processi storici». La politologia storica configura
dunque una prospettiva di ricerca che si fonda «sul riconoscimento
dell’importanza dei mutamenti di lungo periodo come chiave interpretativa della
contemporaneità». E che ricorre alla comparazione storica (fra un numero
limitato di casi) per spiegare la logica delle trasformazioni politiche.
Nel volume vengono ripresi i contributi di
‘classici’ come Max Weber, Antonio Gramsci e Stein Rokkan, che possono essere
arruolati tra gli alfieri della politologia storica. E il panorama potrebbe
arricchirsi ulteriormente, considerando studiosi (tra loro ben diversi) come
Otto Hinze, Reinhard Bendix, Barrington Moore, Charles Tilly, Theda Skocpol,
Perry Anderson o Immanuel Wallerstein. Non è inoltre sorprendente che nel libro
siano ospitati diversi contributi dedicati alle culture politiche italiane.
Almeno in Italia è infatti proprio questo l’ambito in cui la prospettiva della politologia
storica ha trovato maggiori occasioni di consolidamento (basti pensare alle
indagini sulle subculture politiche territoriali o alle ricerche avviate dalle
ipotesi di Robert D. Putnam sulle origini del capitale sociale). Ed è
probabilmente questo stesso campo che la politologia storica dovrà tornare a
frequentare nei prossimi anni. Non tanto perché guardando alla lezione del
passato si possa davvero scoprire – come si augurava Mosca – il modo di evitare
le crisi e la decadenza. Quanto perché la politologia storica ci può forse
consentire di cogliere i nessi che legano il nostro passato – vicino e lontano
– a un presente segnato dall’apparente ‘liquefazione’ di tutte le vecchie
identità politiche.
Damiano Palano
La prospettiva della politologia storica sarà al centro di una discussione sul libro di Marco Almagisti, Una democrazia possibile. Politica e territorio nell'Italia contemporanea (Carocci), con Vittorio Parsi e Damiano Palano, che si svolgerà giovedì 24 ottobre 2018 alle ore 18.00 presso l'Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali (Aseri), in Via San Vittore 18 a Milano