di
Damiano Palano
Questa recensione al volume di Giulio De Ligio, Democrazia e contenuti di vita.
Riflessioni di filosofia politica (Rubbettino, pp. 148, euro 16.00), è apparso su "Avvenire".
Nella settimana in cui la Francia
venne travolta dalla febbre del «Maggio», Raymond Aron si trovava negli Stati
Uniti per un ciclo di conferenze. Nei mesi precedenti non aveva preso posizione
sulle prime tappe della rivolta. Ma dopo il suo rientro a Parigi, il 23 maggio,
la situazione indusse Aron a intervenire pubblicamente. Dinanzi all’estendersi
della protesta dalle università alle fabbriche, e soprattutto di fronte alla
latitanza delle istituzioni, cominciò infatti a temere seriamente l’avvento di
una crisi di regime. Questo rischiò si allontanò dopo il discorso radiofonico
con cui il 30 maggio De Gaulle invitò i francesi a mobilitarsi contro la
«sovversione» e la minaccia totalitaria. Ma proprio da quel momento Aron incominciò
a pubblicare una serie di interventi in cui cercava di portare alla luce le
motivazioni di un’esplosione imprevista. Gli articoli apparsi su «Le Figaro»,
accompagnati da una lunga intervista con Alain Duhamel, furono repentinamente raccolti
nella Rivoluzione introvabile, un
libro che per molti aspetti era una sorta di prosecuzione dell’Oppio degli intellettuali, ma in cui
vibrava una corda polemica inusuale per Aron. L’obiettivo che si proponeva era
d’altronde soprattutto ridimensionare l’«evento». Più che dell’annuncio della
«fine di una civiltà», si era trattato a suo avviso di un grande «psicodramma»,
le cui principali responsabilità erano da imputare agli intellettuali. «Per
alcune settimane», scrisse, «l’opinione pubblica parigina, come fosse in preda
a un delirio ideologico, è sembrata unanime nel culto di questa ‘ammirevole
gioventù’ e di questa rivoluzione che non era tale». Le critiche dello studioso
si indirizzavano d’altronde soprattutto all’amico Claude Lefort, il quale –
insieme a Edgar Morin – aveva esaltato l’anti-autoritarismo della «Comune»
parigina, dipingendola come una «breccia» capace di aprire il sentiero di una
progressiva democratizzazione. Aron non poteva perdonargli la celebrazione di
una battaglia contro l’autorità che rischiava a suo avviso di condurre a
risultati disastrosi. Puntare all’abbattimento delle gerarchie senza avanzare
alcun modello alternativo di società ai suoi occhi era solo l’espressione di un
«nichilismo da esteti», se non addirittura la legittimazione dell’«irruzione di
barbari inconsapevoli della loro barbarie».
Nel corso di mezzo secolo, la critica di Aron è spesso
tornata ad aleggiare, anche perché nel dibattito politico e filosofico
transalpino il «Maggio» non ha cessato di occupare una posizione centrale, sia
per i detrattori, sia per quanti – come per esempio Alain Badiou – ne hanno
fatto il perno di un vero sistema di pensiero. Che nel discorso svolto allora dall’intellettuale
liberale si nascondessero intuizioni importanti è anche la convinzione di
Giulio De Ligio, giovane studioso italiano allievo di Pierre Manent, che, nel
suo Democrazia e contenuti di vita.
Riflessioni di filosofia politica (Rubbettino, pp. 148, euro 16.00), torna
a rileggere le pagine di Aron sul ’68 per interpretare la crisi del presente.
Tutt’altro che circoscritte alla cronaca polemica di una rivolta effimera, le
considerazioni sulla «rivoluzione introvabile» restituivano innanzitutto la
complessità dell’approccio aroniano, capace di contemperare l’apporto delle
scienze sociali e la lezione dei classici. Ma, per quanto formulata a caldo, la
diagnosi dello studioso francese risulta oggi preziosa soprattutto nella misura
in cui afferma la centralità della politica, nei confronti della quale invece i
contestatori esibivano una sostanziale indifferenza. Quando Aron sottolineava
l’importanza del «primato della politica», non richiamava infatti solo
l’attenzione sul ruolo delle istituzioni. Esplicitava anche la convinzione
secondo cui la forma dell’autorità politica definisce il modo di vivere di una
comunità, il senso stesso del ‘comune’. La critica rivolta dai contestatori ai
criteri e alle forme della vita comune rischiava invece di «privare la
democrazia di ogni contenuto, di ogni cornice storica d’attuazione, di ogni
motivo d’azione».
Ma la vecchia polemica di Aron – che De Ligio riesamina
affiancandola alla riflessione sul ‘politico’ che Lefort e Cornelius
Castoriadis iniziarono svolgere per molti versi dopo la cesura del «Maggio» -
può essere anche una chiave per leggere il presente. Non certo perché sulla
scena occidentale si profilino eredi di quella contestazione. Ma perché si può
riconoscere un elemento di continuità fra l’indeterminazione politica innalzata
sulle barricate parigine mezzo secolo fa e le democrazie liberali post-totalitarie,
uscite vittoriose dalla fine della Guerra fredda. Il pensiero democratico
contemporaneo, scrive infatti De Ligio seguendo la lezione di Manent, separa
radicalmente le azioni, le comunità e le leggi «dai principi che dovrebbero
determinarle». Il ‘contenuto’ dell’unità politica rimane ‘vuoto’. E in questo
senso si riproduce dunque quell’atteggiamento che Aron imputava ai contestatori
parigini: il disinteresse per la politica, per l’autorità e per l’educazione,
come basi indispensabili in grado di dare una ‘forma’ alla convivenza comune.
Per preservare la propria autonomia, la democrazia post-totalitaria tende infatti
a escludere dalle sue regole principi e fini. Ma in questo modo, conclude De
Ligio, «vieta a se stessa di approfondire la ricerca della cosa comune o della virtù
totale che tiene la città davvero in movimento, aperta alla giustizia e
alla verità».
Damiano Palano
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