sabato 29 settembre 2018

Raymond Aron, il Sessantotto parigino e la crisi contemporanea. "Democrazia e contenuti di vita" di Giulio De Ligio


 
di Damiano Palano

Questa recensione al volume di Giulio De Ligio, Democrazia e contenuti di vita. Riflessioni di filosofia politica (Rubbettino, pp. 148, euro 16.00), è apparso su "Avvenire".

Nella settimana in cui la Francia venne travolta dalla febbre del «Maggio», Raymond Aron si trovava negli Stati Uniti per un ciclo di conferenze. Nei mesi precedenti non aveva preso posizione sulle prime tappe della rivolta. Ma dopo il suo rientro a Parigi, il 23 maggio, la situazione indusse Aron a intervenire pubblicamente. Dinanzi all’estendersi della protesta dalle università alle fabbriche, e soprattutto di fronte alla latitanza delle istituzioni, cominciò infatti a temere seriamente l’avvento di una crisi di regime. Questo rischiò si allontanò dopo il discorso radiofonico con cui il 30 maggio De Gaulle invitò i francesi a mobilitarsi contro la «sovversione» e la minaccia totalitaria. Ma proprio da quel momento Aron incominciò a pubblicare una serie di interventi in cui cercava di portare alla luce le motivazioni di un’esplosione imprevista. Gli articoli apparsi su «Le Figaro», accompagnati da una lunga intervista con Alain Duhamel, furono repentinamente raccolti nella Rivoluzione introvabile, un libro che per molti aspetti era una sorta di prosecuzione dell’Oppio degli intellettuali, ma in cui vibrava una corda polemica inusuale per Aron. L’obiettivo che si proponeva era d’altronde soprattutto ridimensionare l’«evento». Più che dell’annuncio della «fine di una civiltà», si era trattato a suo avviso di un grande «psicodramma», le cui principali responsabilità erano da imputare agli intellettuali. «Per alcune settimane», scrisse, «l’opinione pubblica parigina, come fosse in preda a un delirio ideologico, è sembrata unanime nel culto di questa ‘ammirevole gioventù’ e di questa rivoluzione che non era tale». Le critiche dello studioso si indirizzavano d’altronde soprattutto all’amico Claude Lefort, il quale – insieme a Edgar Morin – aveva esaltato l’anti-autoritarismo della «Comune» parigina, dipingendola come una «breccia» capace di aprire il sentiero di una progressiva democratizzazione. Aron non poteva perdonargli la celebrazione di una battaglia contro l’autorità che rischiava a suo avviso di condurre a risultati disastrosi. Puntare all’abbattimento delle gerarchie senza avanzare alcun modello alternativo di società ai suoi occhi era solo l’espressione di un «nichilismo da esteti», se non addirittura la legittimazione dell’«irruzione di barbari inconsapevoli della loro barbarie».

Nel corso di mezzo secolo, la critica di Aron è spesso tornata ad aleggiare, anche perché nel dibattito politico e filosofico transalpino il «Maggio» non ha cessato di occupare una posizione centrale, sia per i detrattori, sia per quanti – come per esempio Alain Badiou – ne hanno fatto il perno di un vero sistema di pensiero. Che nel discorso svolto allora dall’intellettuale liberale si nascondessero intuizioni importanti è anche la convinzione di Giulio De Ligio, giovane studioso italiano allievo di Pierre Manent, che, nel suo Democrazia e contenuti di vita. Riflessioni di filosofia politica (Rubbettino, pp. 148, euro 16.00), torna a rileggere le pagine di Aron sul ’68 per interpretare la crisi del presente. Tutt’altro che circoscritte alla cronaca polemica di una rivolta effimera, le considerazioni sulla «rivoluzione introvabile» restituivano innanzitutto la complessità dell’approccio aroniano, capace di contemperare l’apporto delle scienze sociali e la lezione dei classici. Ma, per quanto formulata a caldo, la diagnosi dello studioso francese risulta oggi preziosa soprattutto nella misura in cui afferma la centralità della politica, nei confronti della quale invece i contestatori esibivano una sostanziale indifferenza. Quando Aron sottolineava l’importanza del «primato della politica», non richiamava infatti solo l’attenzione sul ruolo delle istituzioni. Esplicitava anche la convinzione secondo cui la forma dell’autorità politica definisce il modo di vivere di una comunità, il senso stesso del ‘comune’. La critica rivolta dai contestatori ai criteri e alle forme della vita comune rischiava invece di «privare la democrazia di ogni contenuto, di ogni cornice storica d’attuazione, di ogni motivo d’azione».

Ma la vecchia polemica di Aron – che De Ligio riesamina affiancandola alla riflessione sul ‘politico’ che Lefort e Cornelius Castoriadis iniziarono svolgere per molti versi dopo la cesura del «Maggio» - può essere anche una chiave per leggere il presente. Non certo perché sulla scena occidentale si profilino eredi di quella contestazione. Ma perché si può riconoscere un elemento di continuità fra l’indeterminazione politica innalzata sulle barricate parigine mezzo secolo fa e le democrazie liberali post-totalitarie, uscite vittoriose dalla fine della Guerra fredda. Il pensiero democratico contemporaneo, scrive infatti De Ligio seguendo la lezione di Manent, separa radicalmente le azioni, le comunità e le leggi «dai principi che dovrebbero determinarle». Il ‘contenuto’ dell’unità politica rimane ‘vuoto’. E in questo senso si riproduce dunque quell’atteggiamento che Aron imputava ai contestatori parigini: il disinteresse per la politica, per l’autorità e per l’educazione, come basi indispensabili in grado di dare una ‘forma’ alla convivenza comune. Per preservare la propria autonomia, la democrazia post-totalitaria tende infatti a escludere dalle sue regole principi e fini. Ma in questo modo, conclude De Ligio, «vieta a se stessa di approfondire la ricerca della cosa comune o della virtù totale che tiene la città davvero in movimento, aperta alla giustizia e alla verità».


Damiano Palano


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