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martedì 11 settembre 2018

La democrazia creativa di John Dewey. Un libro curato da Giovanni Dessì



Di Damiano Palano

Questa recensione a J. Dewey, Democrazia creativa (Castelvecchi) è apparsa su "Avvenire" del 10 luglio 2018).

Nell’ottobre del 1939 John Dewey fu invitato da alcuni intellettuali a un ricevimento in cui si sarebbe celebrato il suo ottantesimo compleanno. Il filosofo non poté accettare l’invito, ma inviò un breve testo, intitolato Democrazia creativa, che ora viene ripubblicato dall’editore Castelvecchi, accompagnato da un ricco saggio introduttivo di Giovanni Dessì (pp. 59, euro 9.00). Il tema affrontato in quel discorso non era certo nuovo per Dewey, che anzi se ne era occupato a più riprese. Ma il momento storico rendeva la questione più che mai cruciale. In Europa era infatti già cominciata la Seconda guerra mondiale e i regimi autoritari sembravano essere ormai quasi padroni dell’intero Vecchio continente. Nel testo del 1939 Dewey non si limitava però a difendere la causa della democrazia contro i suoi avversari. Esponendo una concezione che aveva avuto modo di affinare nel corso dei decenni, sottolineava soprattutto la necessità di non considerarla solo come un insieme di procedure istituzionali.
Molti anni prima, nel 1888, il filosofo – allora ventinovenne – aveva dedicato uno dei suoi primi lavori a una polemica contro chi vedeva nella democrazia un regime che favoriva l’irrazionalità delle folle e la corruzione dei partiti. «Dire che la democrazia è solo una forma di governo», scriveva già allora, «è come dire che una casa è un insieme più o meno geometrico di mattoni». La comunità era cioè il contesto in cui l’individuo poteva perseguire il proprio pieno sviluppo, e la democrazia coincideva con l’assetto che poteva consentire a ognuno la completa realizzazione. In seguito Dewey avrebbe definito ulteriormente la propria visione dell’esperienza e del ruolo dell’educazione, ma non modificò sostanzialmente la propria idea della democrazia.
Anche per questo, diversi anni dopo si trovò in contrasto con Walter Lippmann, con cui aveva contribuito alla nascita della rivista «The New Republic». Entrambi avevano sostenuto la causa dell’intervento americano nella Prima guerra mondiale. Ma proprio la guerra aveva portato alla luce alcuni meccanismi psicologici che dovevano invitare a ripensare la visione classica della democrazia. Nel 1922 Lippmann pubblicò così Public Opinion, un’analisi che prendeva le mosse dalle esperienze di manipolazione dell’opinione pubblica sperimentate durante il conflitto. I cittadini delle società democratiche – argomentava – Lippmann avevano solo una conoscenza imprecisa e semplificata (quando non distorta) della realtà. A costruire queste immagini stereotipate era in gran parte la stampa. Ma il punto era che le immagini indirizzavano le valutazioni e le scelte degli elettori, benché non avessero nulla (o ben poco) a che vedere con la realtà. E le decisioni dell’opinione pubblica erano dunque sempre superficiali o del tutto irrazionali.
Dewey fu senz’altro colpito dall’impietosa descrizione di Public Opinion. Ma, pur concordando con un quadro così fosco, non condivise le conclusioni di Lippmann, che proponeva che un gruppo di esperti vagliasse le notizie da offrire ai decisori. Per Dewey, il cuore della democrazia era infatti l’educazione dell’opinione pubblica (e non solo degli amministratori). Una democrazia non poteva cioè essere davvero considerata tale se non consentiva a ciascun cittadino di realizzare le proprie potenzialità. Nel testo del 1939 riprendeva proprio questa stessa concezione. «La democrazia», scriveva, «è un modo ‘personale’ di vita individuale», ossia «il possesso e l’uso continuo di certe attitudini che formano il carattere personale e determinano desideri e obiettivi in tutte le relazioni della vita». E per questo, continuava, «gli attuali nemici della democrazia possono essere affrontati con successo soltanto attraverso la creazione di attitudini personali nei singoli esseri umani».
A molti anni di distanza, in tempi di post-verità e fake news, il ritratto di un’opinione pubblica superficiale, irrazionale e inaffidabile, dipinto dal cinico realismo di Lippmann, ci risulta probabilmente piuttosto familiare. Le pagine di Dewey possono invece sembrarci fin troppo ottimiste e la sua concezione ‘partecipativa’ della democrazia può addirittura apparirci ingenua. Ciò nonostante, l’invito di Dewey a diffidare dell’«elitismo democratico» rimane ancora prezioso. Quantomeno per non correre il rischio di ridurre la democrazia a un insieme di procedure. E, soprattutto, per evitare di convincerci che la democrazia coincida con quel regime politico in cui al popolo spetta soltanto decidere i propri governanti mediante il ricorso a elezioni competitive.


Damiano Palano

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