Di
Damiano Palano
Questa recensione a J. Dewey, Democrazia creativa (Castelvecchi) è apparsa su "Avvenire" del 10 luglio 2018).
Nell’ottobre
del 1939 John Dewey fu invitato da alcuni intellettuali a un ricevimento in cui
si sarebbe celebrato il suo ottantesimo compleanno. Il filosofo non poté
accettare l’invito, ma inviò un breve testo, intitolato Democrazia creativa, che ora viene ripubblicato dall’editore
Castelvecchi, accompagnato da un ricco saggio introduttivo di Giovanni Dessì
(pp. 59, euro 9.00). Il tema affrontato in quel discorso non era certo nuovo
per Dewey, che anzi se ne era occupato a più riprese. Ma il momento storico
rendeva la questione più che mai cruciale. In Europa era infatti già cominciata
la Seconda guerra mondiale e i regimi autoritari sembravano essere ormai quasi
padroni dell’intero Vecchio continente. Nel testo del 1939 Dewey non si
limitava però a difendere la causa della democrazia contro i suoi avversari.
Esponendo una concezione che aveva avuto modo di affinare nel corso dei
decenni, sottolineava soprattutto la necessità di non considerarla solo come un
insieme di procedure istituzionali.
Molti
anni prima, nel 1888, il filosofo – allora ventinovenne – aveva dedicato uno
dei suoi primi lavori a una polemica contro chi vedeva nella democrazia un
regime che favoriva l’irrazionalità delle folle e la corruzione dei partiti.
«Dire che la democrazia è solo una forma di governo», scriveva già allora, «è
come dire che una casa è un insieme più o meno geometrico di mattoni». La
comunità era cioè il contesto in cui l’individuo poteva perseguire il proprio
pieno sviluppo, e la democrazia coincideva con l’assetto che poteva consentire
a ognuno la completa realizzazione. In seguito Dewey avrebbe definito
ulteriormente la propria visione dell’esperienza e del ruolo dell’educazione,
ma non modificò sostanzialmente la propria idea della democrazia.
Anche
per questo, diversi anni dopo si trovò in contrasto con Walter Lippmann, con
cui aveva contribuito alla nascita della rivista «The New Republic». Entrambi
avevano sostenuto la causa dell’intervento americano nella Prima guerra
mondiale. Ma proprio la guerra aveva portato alla luce alcuni meccanismi
psicologici che dovevano invitare a ripensare la visione classica della
democrazia. Nel 1922 Lippmann pubblicò così Public
Opinion, un’analisi che prendeva le mosse dalle esperienze di manipolazione
dell’opinione pubblica sperimentate durante il conflitto. I cittadini delle
società democratiche – argomentava – Lippmann avevano solo una conoscenza
imprecisa e semplificata (quando non distorta) della realtà. A costruire queste
immagini stereotipate era in gran parte la stampa. Ma il punto era che le
immagini indirizzavano le valutazioni e le scelte degli elettori, benché non
avessero nulla (o ben poco) a che vedere con la realtà. E le decisioni
dell’opinione pubblica erano dunque sempre superficiali o del tutto
irrazionali.
Dewey
fu senz’altro colpito dall’impietosa descrizione di Public Opinion. Ma, pur concordando con un quadro così fosco, non
condivise le conclusioni di Lippmann, che proponeva che un gruppo di esperti
vagliasse le notizie da offrire ai decisori. Per Dewey, il cuore della
democrazia era infatti l’educazione dell’opinione pubblica (e non solo degli
amministratori). Una democrazia non poteva cioè essere davvero considerata tale
se non consentiva a ciascun cittadino di realizzare le proprie potenzialità. Nel
testo del 1939 riprendeva proprio questa stessa concezione. «La democrazia»,
scriveva, «è un modo ‘personale’ di vita individuale», ossia «il possesso e
l’uso continuo di certe attitudini che formano il carattere personale e
determinano desideri e obiettivi in tutte le relazioni della vita». E per
questo, continuava, «gli attuali nemici della democrazia possono essere
affrontati con successo soltanto attraverso la creazione di attitudini
personali nei singoli esseri umani».
A
molti anni di distanza, in tempi di post-verità
e fake news, il ritratto di
un’opinione pubblica superficiale, irrazionale e inaffidabile, dipinto dal
cinico realismo di Lippmann, ci risulta probabilmente piuttosto familiare. Le
pagine di Dewey possono invece sembrarci fin troppo ottimiste e la sua concezione
‘partecipativa’ della democrazia può addirittura apparirci ingenua. Ciò
nonostante, l’invito di Dewey a diffidare dell’«elitismo democratico» rimane
ancora prezioso. Quantomeno per non correre il rischio di ridurre la democrazia
a un insieme di procedure. E, soprattutto, per evitare di convincerci che la
democrazia coincida con quel regime politico in cui al popolo spetta soltanto decidere i propri governanti
mediante il ricorso a elezioni competitive.
Damiano Palano
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