di
Damiano Palano
In questa discussione, destinata senza dubbio a proseguire
nei prossimi anni, si inserisce per molti versi anche il libro di Pankaj
Mishra, L’età della rabbia. Una storia
del presente (Mondadori, pp. 348, euro 25.00), che, con un’originale
prospettiva, si spinge a ricercare le radici delle turbolenze contemporanee
nelle promesse non mantenute del progresso. La «storia del presente» annunciata
dal sottotitolo non si limita peraltro a spiegare l’ascesa dei populismi in
Occidente, ma ha ben presente anche le fortune recenti del fondamentalismo
indù, o l’attrazione esercitata in Medio Oriente e in Europa dai proclami
dell’Isis. Mishra comunque guarda soprattutto indietro, alla ricerca di una
connessione tra le odierne declinazioni dell’estremismo e quelle degli ultimi
due secoli. Ma la spiegazione che propone non considera fattori puramente
‘materiali’, come per esempio la dimensione della diseguaglianza. Per indagare
l’essere umano, le sue paure e i suoi rancori, Mishra preferisce infatti setacciare
la storia culturale alla ricerca di quelle tracce che possono svelare le radici
più profonde dell’«età della rabbia». La tesi dello studioso indiano è d’altronde
che le vecchie e nuove forme di estremismo, non di rado violento, siano sempre
la conseguenza di una frustrazione covata a lungo. L’avventura dell’occupazione
di Fiume – da cui prende le mosse la riflessione – diventa per questo una sorta
di paradigma in cui riconoscere i tratti anche della «rabbia» contemporanea.
D’Annunzio divenne infatti una sorta di profeta «per i furiosi disadattati
europei che si consideravano ormai del tutto superflui in una società in cui la
crescita economica arricchiva soltanto una minoranza». E la chiave della
spiegazione proposta dallo studioso indiano sta proprio nel «risentimento»,
ossia nella reazione emotiva che si produce ogni volta che la moderna promessa
di uguaglianza si scontra con la realtà dell’esclusione, con le differenze di
potere, di istruzione, di ricchezza.
La categoria del «risentimento» rimanda naturalmente a
Nietzsche, che, dopo aver letto Le
memorie del sottosuolo di Dostoevskij, ne fece il perno di
un’interpretazione personale. Ma il primo teorico del risentimento, secondo
Mishra, fu Jean Jacques Rousseau, lo «zotico geniale» che, in un pomeriggio
dell’ottobre 1749, inaugurò «la rivolta tipicamente moderna contro la
modernità». Se la «rivoluzione morale» di Voltaire prometteva la costruzione
del paradiso in terra grazie all’aumento della ricchezza e della raffinatezza
intellettuale, Rousseau sostenne invece che il progresso delle scienze e delle
arti stava conducendo a nuove forme di schiavismo. E in questo modo, come déclassé, Rousseau descrisse la
modernizzazione negli stessi termini in cui la vivevano milioni di persone, e in
modo diametralmente opposto a come invece la consideravano le élite
intellettuali dei circoli illuministi. In questo senso fu il primo interprete
di quel risentimento che nasce dal tradimento delle promesse di uguaglianza e
ricchezza del progresso. E quello stesso meccanismo si ripete secondo Mishra
anche oggi, nei ceti medi occidentali minacciati dalla globalizzazione e nella
popolazione alfabetizzata e urbanizzata che, fuori dall’Occidente, si trova
esclusa dai benefici della crescita. Per questo, anche se il discorso
dell’intellettuale indiano qualche volta tende a semplificare i fenomeni, non
possiamo escludere che la sua tesi non colga davvero un nodo importante del
«malessere» contemporaneo. E che il «risentimento» non sia dunque la categoria
adeguata a fissare la condizione emotiva di un’epoca segnata dalla disillusione
di massa e dai disorientamenti provocati dall’economia globale.
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