domenica 2 settembre 2018

I giorni del risentimento. Pankaj Mishra e le promesse non mantenute del progresso

di Damiano Palano


Il successo delle formazioni ‘populiste’ che accomuna ormai molte democrazie (non solo occidentali) ha acceso un dibattito piuttosto affollato tra gli scienziati sociali. Nel tentativo di spiegare perché una fetta rilevante dell’elettorato tenda a spostarsi su posizioni radicali, alcuni studiosi si sono concentrati sulle conseguenze economiche della globalizzazione, sull’aumento delle diseguaglianze sociali e sulla crisi del ceto medio. Altri hanno insistito invece sulle determinanti socio-psicologiche e culturali, ossia sulle modalità con cui i processi di globalizzazione sono percepiti. In questo senso, Ronald Inglehart e Pippa Norris hanno per esempio sostenuto che l’avanzata contemporanea dei populismi andrebbe spiegata come l’effetto di una sorta una reazione culturale all’avanzata del «cosmopolitismo libertario» di cui si fanno portatrici le élite globalizzate. E dunque il sostegno a formazioni «populiste» (connotate da posizioni anti-establishment, autoritarie e nativiste) sarebbe da ricondurre non a motivazioni economico-sociali, bensì alla reazione nostalgica contro i valori «post-materialistici».

In questa discussione, destinata senza dubbio a proseguire nei prossimi anni, si inserisce per molti versi anche il libro di Pankaj Mishra, L’età della rabbia. Una storia del presente (Mondadori, pp. 348, euro 25.00), che, con un’originale prospettiva, si spinge a ricercare le radici delle turbolenze contemporanee nelle promesse non mantenute del progresso. La «storia del presente» annunciata dal sottotitolo non si limita peraltro a spiegare l’ascesa dei populismi in Occidente, ma ha ben presente anche le fortune recenti del fondamentalismo indù, o l’attrazione esercitata in Medio Oriente e in Europa dai proclami dell’Isis. Mishra comunque guarda soprattutto indietro, alla ricerca di una connessione tra le odierne declinazioni dell’estremismo e quelle degli ultimi due secoli. Ma la spiegazione che propone non considera fattori puramente ‘materiali’, come per esempio la dimensione della diseguaglianza. Per indagare l’essere umano, le sue paure e i suoi rancori, Mishra preferisce infatti setacciare la storia culturale alla ricerca di quelle tracce che possono svelare le radici più profonde dell’«età della rabbia». La tesi dello studioso indiano è d’altronde che le vecchie e nuove forme di estremismo, non di rado violento, siano sempre la conseguenza di una frustrazione covata a lungo. L’avventura dell’occupazione di Fiume – da cui prende le mosse la riflessione – diventa per questo una sorta di paradigma in cui riconoscere i tratti anche della «rabbia» contemporanea. D’Annunzio divenne infatti una sorta di profeta «per i furiosi disadattati europei che si consideravano ormai del tutto superflui in una società in cui la crescita economica arricchiva soltanto una minoranza». E la chiave della spiegazione proposta dallo studioso indiano sta proprio nel «risentimento», ossia nella reazione emotiva che si produce ogni volta che la moderna promessa di uguaglianza si scontra con la realtà dell’esclusione, con le differenze di potere, di istruzione, di ricchezza.

La categoria del «risentimento» rimanda naturalmente a Nietzsche, che, dopo aver letto Le memorie del sottosuolo di Dostoevskij, ne fece il perno di un’interpretazione personale. Ma il primo teorico del risentimento, secondo Mishra, fu Jean Jacques Rousseau, lo «zotico geniale» che, in un pomeriggio dell’ottobre 1749, inaugurò «la rivolta tipicamente moderna contro la modernità». Se la «rivoluzione morale» di Voltaire prometteva la costruzione del paradiso in terra grazie all’aumento della ricchezza e della raffinatezza intellettuale, Rousseau sostenne invece che il progresso delle scienze e delle arti stava conducendo a nuove forme di schiavismo. E in questo modo, come déclassé, Rousseau descrisse la modernizzazione negli stessi termini in cui la vivevano milioni di persone, e in modo diametralmente opposto a come invece la consideravano le élite intellettuali dei circoli illuministi. In questo senso fu il primo interprete di quel risentimento che nasce dal tradimento delle promesse di uguaglianza e ricchezza del progresso. E quello stesso meccanismo si ripete secondo Mishra anche oggi, nei ceti medi occidentali minacciati dalla globalizzazione e nella popolazione alfabetizzata e urbanizzata che, fuori dall’Occidente, si trova esclusa dai benefici della crescita. Per questo, anche se il discorso dell’intellettuale indiano qualche volta tende a semplificare i fenomeni, non possiamo escludere che la sua tesi non colga davvero un nodo importante del «malessere» contemporaneo. E che il «risentimento» non sia dunque la categoria adeguata a fissare la condizione emotiva di un’epoca segnata dalla disillusione di massa e dai disorientamenti provocati dall’economia globale.


Damiano Palano

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