di
Damiano Palano
Questa recensione ad Alessio Musio, nel suo libro Chiaroscuri. Figure dell’ethos (Vita e Pensiero, pp. 183, euro 18.00) è apparsa su "Avvenire" il 6 novembre 2018.
«Io sono soltanto realista nel senso più alto, cioè
raffiguro tutte le profondità
dell’anima umana», scrisse una volta Dostoevskij ribattendo a quei critici che
lo definivano come uno psicologo. Il suo obiettivo era cioè cogliere «l’uomo
nell’uomo» e – come notava George Steiner – riconoscere la complessità della
realtà umana. Tanto che i personaggi che popolano le sue pagine – così diversi
da quelli dei romanzi di Tolstoj – sembrano sempre contraddittori, sopraffatti
da un’ambivalenza insolubile, costantemente in bilico tra vette di nobiltà e
abissi di corruzione. E proprio sulle orme dell’autore dei Fratelli Karamazov, accettando cioè la sfida di riconoscere la
complessità della realtà umana, Alessio Musio, nel suo libro Chiaroscuri. Figure dell’ethos (Vita e
Pensiero, pp. 183, euro 18.00), riflette sulle ambiguità che contrassegnano i
vissuti dell’esperienza. Le figure dell’ethos
– con cui gli esseri umani cercano di esprimere concretamente le forme di una
vita moralmente buona – sono infatti sempre anche figure della libertà,
dell’individuo verso se stesso, ma anche dell’individuo nei confronti degli
altri. E per questo esibiscono ogni volta un’ampia gamma di chiaroscuri, di
ambiguità, di ambivalenze. Il compito dell’indagine filosofico-morale di Musio
è dunque diradare quei ‘chiaroscuri’, conservando la classica domanda su cosa
sia bene fare, ma, al tempo stesso, senza cancellare le ambivalenze, senza cioè
disconoscere quelle «profondità dell’anima umana» che le pagine di Dostoevskij
restituiscono.
Esaminando alcune cruciali figure dell’ethos – come la scelta, la decisione, la ripetizione, il segreto –
Musio si concentra su una serie di casi ‘estremi’, ben consapevole del rischio che
ciò comporta, ma nella convinzione che proprio del ‘caso estremo’ sia
necessario tenere conto per evitare idealizzazioni. Forse non casualmente il
viaggio attraverso i ‘chiaroscuri’ – e attraverso le analisi di Aristotele,
Kierkegaard, Sartre, Arendt e Jankélévitch – si conclude però
sull’indifferenza, un’esperienza tutt’altro che ‘estrema’, e che anzi proprio per
la sua travolgente ‘banalità’ rappresenta per molti versi la più enigmatica
delle figure dell’ethos. L’indifferenza
risulta innanzitutto stretta in un forte legame con la crudeltà. Quando lo
spettacolo delle esecuzioni pubbliche viene sottratto allo sguardo pubblico,
diventa infatti qualcosa di ‘saputo’ ma non ‘visto’, ossia qualcosa di cui si è
a conoscenza ma di cui si può diventare indifferenti. Distogliere lo sguardo dallo
spettacolo della crudeltà non significa così né eliminare il male e neppure
ignorarne l’esistenza, bensì semplicemente esserne ‘indifferenti’. Ma l’indifferenza
– osserva Musio – è soprattutto l’altra faccia della libertà individuale. Rendere
la libertà l’unico bene in gioco nelle relazioni equivale a diventare indifferenti
alle relazioni in quanto tali, ridotte semplicemente a occasioni di affermazione
della libertà. E dunque la celebrazione della libertà, la sua collocazione al
vertice di ogni gerarchia dei beni, innesca una doppia indifferenza: nei
confronti degli altri beni e nei confronti delle persone con cui si entra in
relazione. L’indifferenza, scriveva Sartre, è «una cecità nei riguardi dell’altro», o meglio – suggerisce Musio – una
relazione in cui l’altro si riduce alle sue qualità. Relazioni con individui concepiti
solo come il ‘punto di appoggio’ di determinate qualità non possono però che
essere relazioni narcisistiche, nelle quali ciascuno rimane in fondo –
dall’inizio alla fine – solo con se stesso. Se le qualità presuppongono la
persona, osserva invece Musio, non sono in grado fondarla. E pur riconoscendo
che le qualità rimangono per molti versi il punto di avvio di un legame, è allora
necessario procedere oltre. Senza arrestarsi alle qualità e alle funzioni
dell’altro, un’etica delle relazioni deve dunque essere «capace di rispettare
l’unicità dei soggetti che le compongono».
Damiano Palano
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