Di Damiano Palano
Questa recensione al volume di Yascha Mounk, Popolo vs Democrazia. Dalla cittadinanza alla dittatura elettorale
(Feltrinelli, pp. 335, euro 18.00), è apparsa su "Avvenire" il 10 dicembre 2018.
Nel giugno 1953, i
vertici della nascente Repubblica Democratica Tedesca annunciarono il taglio
dei salari degli operai edili. Nei mesi precedenti erano già state innalzate le
quote di lavoro, e la nuova decisione il 17 giugno innescò così una
sollevazione spontanea. Da Berlino Est la rivolta dilagò nel resto del paese,
ma fu subito stroncata con il pugno di ferro, anche grazie al sostegno delle
truppe sovietiche. Il segretario dell’Unione degli Scrittori fece
allora distribuire volantini che criticavano severamente l’insurrezione. «La
classe operaia», si leggeva, «ha tradito la fiducia che il Partito aveva in
esso risposto». E per riconquistarla avrebbe dovuto aumentare ulteriormente i
ritmi di lavoro. Bertolt Brecht, che dopo il suo lungo esilio si trovava ormai
stabilmente nella Germania Orientale, si rivolse invece alla Sed, il partito
alla guida del regime, avvertendo che in quel modo lo Stato socialista sarebbe
durato ben poco. Nella poesia La
soluzione fissò in versi lapidari la propria critica all’atteggiamento di
quello stesso partito che in teoria doveva rappresentare le istanze della
classe operaia, ma che era diventato il severo censore dei lavoratori. E scrisse
allora: «Non sarebbe / più semplice, allora, che il governo / sciogliesse il
popolo e / ne eleggesse un altro?».
Le reazioni
all’ondata populista che sta investendo le democrazie occidentali spesso finiscono
col richiamare alla mente l’epigramma di Brecht. Gli allarmi per i successi
ottenuti da forze che utilizzano parole d’ordine demagogiche e che innalzano la
bandiera della «sovranità nazionale» rischiano infatti, in molti casi, di suonare
come una critica al «popolo»: proprio a quel popolo cui nei regimi democratici
dovrebbe essere assegnato lo scettro del potere, ma che, quando premia i leader
populisti, si mostra inadeguato, ignorante, incapace di scelte responsabili.
Tanto che i critici più severi del populismo sembrano talvolta pretendere addirittura
che il ‘popolo’ venga sciolto e ne venga eletto un altro. O quantomeno che le
decisioni più importanti vengano sottratte al voto degli elettori e affidate a
organi tecnici, impermeabili ai mutevoli umori dell’elettorato. In questo modo,
non ci si interroga però sui motivi più profondi che stanno spingendo molti
elettori occidentali verso posizioni che solo alcuni anni fa non avrebbero
neppure preso in considerazione. Un invito a prendere sul serio una simile
domanda proviene invece dal libro di Yascha Mounk, Popolo vs Democrazia. Dalla cittadinanza alla dittatura elettorale
(Feltrinelli, pp. 335, euro 18.00), che – pur con molti limiti e parecchie
semplificazioni (tra cui quelle relative alle vicende italiane dell’ultimo
quarto di secolo) – ha il merito di affrontare con uno sguardo complessivo ciò
che sta avvenendo.
In pressoché tutti i
sistemi politici occidentali, come mostra Mounk, i voti ai partiti «populisti»
(di destra e di sinistra) sono raddoppiati, mentre le forze tradizionali si
sono fortemente indebolite e in alcuni casi sono addirittura scomparse. Secondo
il politologo tedesco, docente ad Harvard, questi segnali mettono in luce il «deconsolidamento»
della democrazia. Di solito, nel linguaggio politologico, si dice che una
democrazia è «consolidata» quando tutte le forze politiche, sociali ed
economiche ritengono pienamente legittime le regole democratiche, e quando
dunque non vi sono all’orizzonte segnali rilevanti di crisi potenziale.
Inoltre, una convinzione a lungo nutrita dagli scienziati politici era che per i
paesi ricchi, una volta raggiunto il «consolidamento», fosse quasi impossibile
tornare indietro. Oggi, almeno agli occhi di Mounk, questa tesi deve essere
invece messa seriamente in discussione. Ci sono in effetti molti segnali che la democrazia si sta deconsolidando. La sfiducia, l’ostilità e persino il disprezzo nei confronti della classe politica sono cresciuti notevolmente. La stessa valutazione della democrazia, come forma di regime, è oggi molto più negativa di quanto fosse vent’anni fa (soprattutto tra le nuove generazioni). In generale, i cittadini risultano essere sempre più favorevoli, o comunque aperti, a soluzioni autoritarie. E diversi paesi – tra cui Polonia e Ungheria – sembrano già avere imboccato la strada di una «democrazia illiberale». La causa non sta però semplicemente negli effetti della crisi economica globale iniziata dieci anni fa. Piuttosto, Mounk indica un cocktail di tre fattori principali. In primo luogo, l’avvento di Internet, che ha consentito agli outsider politici di sfidare i partiti tradizionali utilizzando le nuove potenzialità. In secondo luogo, la stagnazione degli standard di vita della popolazione, che indebolisce la fiducia in un miglioramento futuro e lo stesso sostegno alla democrazia. Infine, il mutamento demografico delle società occidentali, che ha modificato la base ‘monoetnica’ di quasi tutte le democrazie (compresa quella degli Stati Uniti) e che alimenta reazioni da quanti si sentono minacciati dai nuovi arrivati. Nel corso degli ultimi tre decenni, si è consumato però anche un divorzio tra democrazia e liberalismo, nel senso che molte decisioni sono state di fatto trasferite a organismi non elettivi. Ha così preso forma un «sistema di diritti senza democrazia», mentre l’ascesa dei populisti sembra prefigurare l’avvento di una democrazia senza diritti (o, quantomeno, con diritti solo per un gruppo ristretto).
Le soluzioni che Mounk indica – la riduzione delle diseguaglianze, il ripensamento dell’appartenenza nello Stato-nazione, il controllo delle informazioni che corrono sul web – sono naturalmente solo i titoli di un programma tutto da scrivere e lasciano il tempo che trovano. Ma il quadro che emerge è comunque efficace. E senza cedere al pessimismo, dal momento che non è possibile eleggere un nuovo popolo, è necessario prenderne atto.
Damiano Palano
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