di Damiano Palano
In questi giorni la vicenda della nave Aquarius ha riaperto la discussione sull'utilizzo delle migrazioni come strumento di condizionamento politico. Non si tratta infatti di un caso inedito perché in diverse occasioni i flussi migratori - reali o minacciati - sono diventati strumenti con cui gli Stati hanno richiesto e ottenuto vantaggi economici o politici. A questo proposito, "Maelstrom" ripropone una recensione al volume di Kelly M. Greenhill, Armi di migrazione di massa. Deportazione, coercizione e politica estera (Leg, pp. 482, euro 20.00), apparsa sul quotidiano "Avvenire" il 6 giugno 2017.
Nel 1979, durante uno storico incontro con Deng
Xiaoping, il presidente americano Jimmy Carter pose la questione del mancato
rispetto dei diritti umani da parte della Repubblica Popolare. E dichiarò che,
se il regime non avesse concesso ai propri cittadini la possibilità di emigrare
senza restrizioni, gli Stati Uniti non avrebbero potuto commerciare liberamente
con la Cina. La replica di Deng lasciò però Carter letteralmente disarmato: «Va
bene. Allora, esattamente quanti cinesi le piacerebbe avere, signor presidente?
Un milione? Dieci milioni? Trenta milioni?». La minaccia di Deng non si
concretizzò mai. Ma l’episodio – ricordato da Zbigniew Brzezinski – può essere
considerato come una testimonianza della fragilità che le democrazie liberali
spesso mostrano dinanzi alla prospettiva di essere investiti da flussi migratori
di massa. Una fragilità che, in qualche caso, può essere sfruttata
politicamente da alcuni Stati per ottenere concessioni, o comunque per
esercitare pressione.
Proprio a questo tema è dedicato il volume di Kelly M.
Greenhill, Armi di migrazione di massa.
Deportazione, coercizione e politica estera (Leg, pp. 482, euro 20.00). Greenhill
sostiene infatti che, almeno in alcuni casi, le migrazioni progettate coercitive – ossia movimenti transfrontalieri
deliberatamente creati o manovrati da Stati o organizzazioni non statali –
possano essere sfruttate per ottenere concessioni politiche, militari ed economiche.
Nel periodo compreso tra il 1951 e il 2010, la politologa ne riconosce ben
cinquantasei casi. Le proporzioni della popolazione coinvolta e lo stesso
profilo degli attori protagonisti furono ovviamente, di volta in volta, molto
diversi. Nel 1953, l’allora cancelliere della Repubblica Federale tedesca
Konrad Adenauer tentò per esempio di sfruttare l’improvviso afflusso di circa
trecentomila profughi dalla Germania Est (dipinto come un deliberato piano di
destabilizzazione ordito dall’Unione Sovietica) per ottenere aiuti straordinari
dagli Stati Uniti. Un caso analogo vide protagonista l’Austria, che nel 1956
dichiarò che non avrebbe più accolto i rifugiati in fuga dall’Ungheria, se gli
Stati Uniti non avessero fornito un consistente supporto finanziario per la
gestione dell’emergenza. In altre occasioni le migrazioni furono invece direttamente
innescate (o favorite) da parte di chi esercitava la pressione. Fidel Castro
alimentò per esempio varie volte i flussi di profughi cubani verso la Florida per
riaprire la contrattazione con Washington. E nel 1993 l’ex presidente haitiano
Jean-Bertrand Aristide ebbe probabilmente un ruolo nel promuovere quell’afflusso
di boat people verso le coste degli
Stati Uniti che indusse l’amministrazione Clinton a intervenire nell’isola.
Il testo di Greenhill offre sicuramente una chiave di
lettura. Ma – è importante sottolinearlo – i suoi risultati non possono essere
fraintesi. In particolare, i flussi di profughi e migranti che negli ultimi
anni hanno investito l’Europa non possono essere considerati semplicisticamente
come il frutto di un deliberato calcolo politico, diretto a indebolire il
Vecchio continente mediante una «bomba demografica». Anche se certo alcuni attori
hanno tentato di utilizzare e manipolare quei flussi per ottenere benefici (non
solo economici). Quasi sempre la coercizione
per mezzo di migrazione sfrutta d'altronde flussi innescati da altri processi
(spesso ben più complessi). Inoltre questo strumento di pressione – come mette
in luce la politologa – riesce a far leva sul fatto che, nelle democrazie liberali,
la popolazione tende a considerare la limitazione dei flussi migratori come un
imperativo molto più rilevante rispetto a qualsiasi altra questione di politica
estera. Al tempo stesso, gli Stati democratici considerano spesso troppo
elevato ciò che Greenhill chiama il «costo dell’ipocrisia», ossia il costo in
termini di credibilità e reputazione derivante dal mancato rispetto di quei
diritti che pure vengono solennemente dichiarati inviolabili. Proprio una
simile debolezza rende infatti gli Stati occidentali bersagli sensibili alla
minaccia di diventare oggetto di flussi migratori. E dunque spesso disponibili
ad accogliere le richieste di quegli attori che usano i migranti come un’arma
per ottenere concessioni.
Damiano Palano
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