Con la formazione dell'esecutivo presieduto da Giuseppe Conte, il Movimento 5 stelle è entrato nella stanza dei bottoni. La prova di governo, oltre al problema di mantenere le promesse elettorali, implicherà probabilmente anche trasformazioni organizzative interno al partito fondato da Beppe Grillo. "Maelstrom" ripropone a questo proposito un articolo, apparso sul quotidiano "il foglio" il 26 marzo 2018.
di Damiano Palano
Ormai
più di un secolo fa, nel 1911, Robert Michels dava alle stampe il suo libro più
famoso, La sociologia del partito
politico nella democrazia moderna, destinato ad aprire un intero filone di
studi. In quel libro il politologo tedesco illustrava quella che, da allora,
sarebbe stata conosciuta nell’ambito delle scienze sociali come la «legge
ferrea dell’oligarchia». Osservando da vicino la fisionomia e il funzionamento
del Partito socialdemocratico tedesco, Michels si rese conto (prima come
militante e poi come studioso) di un paradosso inquietante. Proprio quel
partito – che, più di ogni altro, aveva inalberato la parola d’ordine
dell’uguaglianza e che dichiarava di lottare per la realizzazione di una piena
democrazia – al suo interno era tutt’altro che democratico. Dietro un’apparenza
democratica, le decisioni venivano infatti sempre prese da una ristretta
oligarchia di dirigenti, alcuni dei quali occupavano le cariche di vertice da
decenni. Gli iscritti, i militanti e anche buona parte degli stessi funzionari
avevano invece un ruolo del tutto marginale. E l’organizzazione assomigliava
dunque a una piramide, che concentrava tutto il potere alla sua sommità.
Un aspetto cruciale che Michels
metteva in luce riguardava soprattutto le cause della formazione
dell’oligarchia. Non si trattava infatti di un consapevole tradimento ordito da
una ‘casta’ di dirigenti. L’oligarchia nasceva piuttosto da meccanismi
‘oggettivi’, legati alle caratteristiche immutabili della «natura umana» e
soprattutto alle esigenze della lotta. Il politologo chiamava in causa infatti
fattori ‘psicologici’, come il «misoneismo» delle masse o la tendenza dei
seguaci a venerare i loro capi. Ma sottolineava anche come l’oligarchia
scaturisse soprattutto da fattori tecnici. Ogni movimento che puntava a
raggiungere degli obiettivi doveva infatti dotarsi di un’organizzazione
efficiente, ma questa scelta aveva un costo. La costruzione dell’apparato organizzativo
innescava cioè la formazione – più o meno rapida – di un’oligarchia». In altre
parole, proprio l’organizzazione, la divisione del lavoro e la specializzazione
dei compiti producevano inevitabilmente un gruppo dirigente sempre più chiuso, il
cui obiettivo principale diventava col tempo la propria conservazione.
Anche se Michels dimostrava le
sue tesi con strumenti che oggi molti politologi considererebbero troppo
rudimentali, la «legge ferrea dell’oligarchia» ha trovato in più di un secolo
una messe sterminata di conferme. Ed è davvero difficile non pensare alla
vecchia lezione dello studioso tedesco leggendo la descrizione che del
Movimento 5 stelle ha fatto Davide Casaleggio ai lettori del «Washington Post»
dopo la vittoria del 4 marzo. Rispolverando la retorica degli esordi, l’erede
di Gianroberto è tornato infatti a celebrare il partito guidato oggi da Luigi
Di Maio come lo strumento con cui il cittadino comune può esprimere
«direttamente» la propria voce, esercitare la democrazia diretta consentita da Internet,
abbattere le organizzazioni politiche e sociali dominanti. E la piattaforma
Rousseau viene esaltata come lo strumento per consentire concretamente
l’espressione della «volontà generale del popolo». Le cose sono invece un po’
diverse, e – seguendo le orme di Michels – si può senz’altro rinvenire sotto
gli slogan la realtà di un nucleo che potremmo definire ‘oligarchico’.
Nei suoi quasi dieci anni di
vita, nonostante l’obiettivo di realizzare una democrazia diretta capace di
sfruttare le nuove potenzialità della Rete, la formazione pentastellata, si è
infatti trovata alle prese con tutte le insidie della «legge ferrea» individuata
da Michels. A ben guardare, non si può però trascurare il fatto che il
«non-partito» fondato da Grillo presentava fin dalle origini caratteristiche
ambigue. Caratteristiche che lo rendevano, come hanno scritto Luigi Ceccarini e
Fabio Bordignon, un attore «ibrido». Un attore che aveva qualche elemento in
comune con i movimenti sociali e con quei partiti (principalmente
ambientalisti) che avevano tentato di introdurre meccanismi di controllo della
leadership da parte della base. Ma che poteva anche essere considerato come un
«partito azienda».
Il M5s nasce infatti come un «non
partito», basato sull’ideale di una sorta di democrazia assoluta e sulla
celebrazione delle potenzialità della Rete come strumento per dare forma a una
nuova agorà. La sua retorica è contrassegnata da ideali ‘movimentisti’ di
orizzontalità e inclusione, e proprio in questo senso viene sostenuta e
celebrata la partecipazione ‘dal basso’. A livello locale effettivamente gli
attivisti nelle fasi iniziali si auto-organizzano autonomamente, talvolta
persino senza alcuna iscrizione formale. Ma fin dall’inizio è evidente un’anomalia
strutturale. Già prima che il Movimento assuma una veste politica, nel 2009, è infatti
chiaro che tutto il processo è stabilmente guidato dal vertice. A dispetto
dello slogan «uno vale uno», è proprio il leader (insieme alla Casaleggio
Associati) a indirizzare la costruzione organizzativa, fissando i requisiti per
la presentazione delle liste a livello locale e per le candidature. Anche i
punti programmatici inizialmente inseriti nell’agenda del movimento e le regole
del «Non Statuto» sono imposti dall’alto. L’assenza di norme statutarie sulle
strutture intermedie del «non-partito» inoltre consegna di fatto alla
Casaleggio un totale controllo sulle adesioni e sulla gestione dei processi di
partecipazione. Per questo, come hanno osservato Paolo Ceri e Francesca Veltri,
quella del M5s non è una democrazia diretta, ma semmai una democrazia «diretta
dall’alto». La democrazia interna è cioè fortemente limitata da distorsioni che
producono cooptazione, manipolazione, potere invisibile e verticismo. In molti
casi «le decisioni importanti sono prese da persone prive di una legittimità
elettiva». E anche quando la decisione è presa a maggioranza, non è comunque mai
il frutto di un processo basato su una discussione comune.
Molti studi – per esempio M5s (Il Mulino), curato da Piergiorgio
Corbetta, e il nuovo numero dei «Quaderni di Scienza Politica», curato da Marco
Almagisti e Paolo Graziano – hanno mostrato che però qualcosa cambia con le
elezioni politiche del 2013, dopo che la prima cospicua pattuglia di deputati
grillini entra in Palamento. Un primo mutamento significativo riguarda la base
elettorale. Se al principio i voti provengono dall’area del centrosinistra, a
partire dal 2012 il Movimento inizia a raccogliere voti più o meno in tutto
l’arco politico. Il suo baricentro si sposta progressivamente al Sud, come
d’altronde l’esito delle elezioni del 4 dicembre ha sancito in modo eclatante.
Oggi il M5s sembra così un vero e proprio «partito pigliatutti», nel senso che
raccoglie consensi nei settori sociali e geografici più vari (forse solo con la
relativa eccezione degli elettori con più di 65 anni).
Una trasformazione altrettanto
rilevante è però intervenuta a livello organizzativo. Cinque anni fa il party in public office, ossia il partito
degli eletti alle cariche pubbliche, era pressoché irrilevante rispetto al party on the ground, composto dalla base
degli iscritti e dei militanti che operano sul territorio. Oggi le relazioni
sono invertite: il partito degli eletti è il segmento decisivo, mentre la base
territoriale appare persino ‘svuotata’ di un ruolo sostanziale. Anche se non
viene formalizzata (e a dispetto del principio della rotazione degli
incarichi), comincia infatti a prendere forma una struttura intermedia, formata
da quei parlamentari che – grazie alla popolarità acquisita – iniziano a
diventare figure di spicco. Ma naturalmente il Movimento non ha perso i tratti
di «partito-azienda». Il cuore del partito ha continuato infatti a essere rappresentato
da Grillo (e dalla Casaleggio Associati), che in diverse occasioni ha
utilizzato lo strumento dell’espulsione per conservare la disciplina interna. Inoltre,
le esigenze della competizione elettorale e della lotta politica quotidiana hanno
richiesto la formazione di un ristretto gruppo di rappresentanti sempre più
‘professionalizzati’. L’investitura di Luigi Di Maio come capo politico ha sancito
da questo punto l’affermazione del ruolo del party in public office. Un’affermazione che l’elezione di Roberto
Fico alla presidenza della Camera ha confermato e che nei prossimi mesi la ‘marcia
dentro le istituzioni’ dei pentastellati si incaricherà di consolidare
ulteriormente. Ma è abbastanza prevedibile che non si
tratterà dell’unica trasformazione organizzativa.
Nonostante la retorica
dell’iperdemocrazia, la scoperta di Casaleggio e Grillo non è stata dunque la
democrazia diretta. Ma, semmai, la riscoperta del vecchio partito leninista,
anche se ovviamente ‘de-ideologizzato’ e adattato a una società molto diversa
da quella di un secolo fa. Anche se ha oscurato gli ideali partecipativi dell’inizio,
proprio il forte centralismo ha infatti consentito al partito di sopravvivere
nel tempo e di superare i rischi di frammentazione che il precoce successo
comportava. E proprio l’organizzazione richiesta dalle necessità della
quotidiana lotta politica ha in seguito favorito l’emergere di un’oligarchia
sempre più ‘professionalizzata’.
Più di un secolo dopo la sua
formulazione, la «legge ferrea» di Michels non sembra dunque essere minimamente
scalfita. Sarebbe però sin troppo scontato riconoscere che, dietro la bandiera
dell’«uno vale uno», è tornata a riaffiorare la realtà di un’«oligarchia».
Semplicemente perché, al di là della retorica, fin dalle sue origini il
Movimento 5 stelle era una sorta di ‘partito azienda in franchising’: un
partito in cui era il vertice a controllare saldamente il ‘marchio’ e la
comunicazione sul piano nazionale, mentre alle articolazioni locali era
concessa (almeno fino a un certo punto) un’ampia libertà di manovra.
L’oligarchia nata dopo l’ingresso delle istituzioni è piuttosto venuta ad
alterare la fisionomia del partito. Più che ‘strappare lo scettro’ al cittadino
comune, l’emergente ceto parlamentare pentastellato si è affiancato a Grillo (e
alla Casaleggio). La formazione di questa oligarchia, cresciuta nel party in public office, potrebbe persino
dare origine nel tempo a una sorta di ‘diarchia’ in equilibrio instabile con il
cuore organizzativo e comunicativo del «partito azienda». E non è escluso che
possa verificarsi qualcosa di simile a quanto a Parma è avvenuto per il sindaco
Pizzarotti, che ha capitalizzato la visibilità della carica istituzionale per
‘sfidare’ il vertice dell’organizzazione.
È difficile dire cosa diventerà
nel futuro il Movimento 5 stelle (e molto dipenderà da quale sarà la
composizione del prossimo governo). Quasi certamente, dell’«uno vale uno»
rimarrà solo un vago ricordo. E probabilmente, per sopravvivere alle insidie
dell’istituzionalizzazione, il «non partito» fondato da Grillo dovrà comunque
diventare sempre più simile a un partito. Se infatti la formazione
pentastellata dovesse accedere alla ‘stanza dei bottoni’, è scontato che la
pressione dell’istituzionalizzazione diventerebbe ancora più forte. Ma anche se
ciò non avverrà (come è probabile), il Movimento si troverà probabilmente di
fronte alla necessità di rivedere il limite dei due mandati. La spinta a
superare (magari in via eccezionale) il principale ostacolo alla
‘professionalizzazione’ e dunque ad abbandonare la regola della rotazione delle
cariche non sarà solo dettata dalla comprensibile intenzione del ceto politico
di riprodursi e di conservare le proprie posizioni, ma dalle necessità stesse
della competizione. Perché rinunciare a leader conosciuti, popolari e ormai
abili nell’utilizzare gli strumenti comunicativi significherebbe privarsi di
una risorsa preziosa e forse persino decisiva.
Le polemiche sull’assenza di
democrazia interna rischiano però di farci perdere di vista quella che è la
vera rivoluzione del M5s. Che non ha nulla a che vedere con Rousseau e con il
fantasma della volontà generale celebrata dal filosofo ginevrino. Il successo
del partito di Grillo sta semmai nell’aver ripensato e adattato il vecchio
modello leninista, e cioè un modello di partito fondato – più ancora che i
partiti socialisti studiati da Michels – sulla centralizzazione, sulla
disciplina e sulla divisione dei compiti. Se infatti il partito ideato da Lenin
nella Russia zarista era una sorta di «macchina» che ‘imitava’ la ferrea
organizzazione di fabbrica, anche il M5s basa le sue fortune su una «macchina»
efficiente e sulla disciplina. In questo caso la «macchina» è però molto esile
e coincide con un apparato – tutto sommato esiguo – di esperti nella gestione
dei flussi comunicativi. Nel mondo della bubble
democracy, il partito non ha infatti bisogno (ameno inizialmente) di una
rete di militanti che presidino i cancelli delle fabbriche o che battano le
campagne. Ma la sua funzione cruciale – prima ancora che la selezione del
personale politico – rimane quella comunicativa. Ossia la capacità di costruire
una rappresentazione della società, delle sue linee di contrapposizione e dei
suoi conflitti. Ed è anche per questo che, per molti versi, il Movimento 5 stelle
può essere considerato quasi come il paradigma di una sorta di «Principe
postmoderno».
Damiano Palano
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