mercoledì 13 giugno 2018

L'estate in cui diventammo campioni del mondo. Il mito del Mundial di Spagna nelle pagine di "Italia-Brasile 3 a 2" di Davide Enia



In questi giorni si aprono in Russia i mondiali di calcio, che - sessant'anni dopo l'edizione del 1958 - non vedono tra i partecipanti la nazionale italiana, eliminata nelle qualificazioni. "Maelstrom" ripropone un testo, originariamente apparso sul blog "Mompracem" nel giugno 2010, e dedicato al libro di Davide Enia, "Italia-Brasile 4-3", nel quale lo scrittore e attore palermitano rievocava le storiche giornate in cui la nazionale guidata da Enzo Bearzot conquistò la coppa del mondo.

di Damiano Palano

Tra le date che scandiscono il cambiamento d'epoca, e il passaggio dall'Italia di ieri all'Italia di oggi, una non può essere dimenticata, perché continua a parlare - più di altre - a molti italiani, e soprattutto alle generazioni nate tra la metà degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta. Per le ragazze e i ragazzi nati in quel periodo, le date che hanno scandito la storia italiana, imprimendo una cesura profonda, un taglio netto fra il 'prima' e 'dopo' - date come, per esempio, il 16 marzo 1978 o il 14 ottobre del 1980 - non hanno infatti un grande significato. E se ancora oggi conservano un valore, l'hanno assunto molto più tardi, in un processo di rielaborazione culturale successivo. Non certo perché non fosse ben chiaro già allora, persino a un ragazzino, cosa fosse accaduto in Via Fani, ma perché il significato reale di quei fatti e il peso che avrebbe avuto nella costruzione della memoria collettiva del paese sarebbero diventati chiari molti anni dopo. C'è però un'altra data, in cui quelle generazioni - e, insieme a loro, buona parte dell'Italia, al Sud come al Nord - sono nate davvero. E, per così dire, hanno scoperto il mondo come prima non avevano neppure mai osato pensarlo. Quella data è l'11 luglio del 1982. Perché in quella notte, la nazionale italiana di calcio, quella di Zoff, Gentile, Cabrini, Conti, Rossi, ecc., saliva per la prima volta - o, meglio, dopo le vittorie (lontanissime) del '34 e del '38 - sul tetto del mondo.


Per quanto si trattasse 'soltanto' di un evento sportivo, quella notte e l'intera estate del 1982 furono con ogni probabilità un momento di snodo cruciale per la ridefinizione dell'identità italiana. Un momento che incise molto più di altre vicende politiche, pur importanti. Non soltanto perché quella notte venne vissuta da molti come il più importante avvenimento nell'esperienza collettiva del paese, e persino nelle vite individuali di ciascuno. Ma anche perché fu un momento che venne a dividere la storia dell'Italia contemporanea fra un 'prima' e un 'dopo'. Un 'dopo' in cui nulla sarebbe stato più come prima.

Davide Enia, un attore e autore di grande talento, ha dedicato il suo monologo probabilmente più popolare al momento cruciale dell'avventura della nazionale di Bearzot. In Italia-Brasile 3 a 2 - un monologo andato in scena per la prima volta nel 2002, pubblicato anche in volume dall'editore Sellerio di Palermo, e diventato ormai una sorta di piccolo classico contemporaneo - Enia rievoca proprio la straordinaria partita che contrappose la rappresentativa italiana alla nazionale verde-oro. Ma non tocca certo le corde della nostalgia. I pochi che non hanno visto lo spettacolo - sempre entusiasmante - o letto il libro possono infatti stare tranquilli, perché non c'è proprio nulla di quello che abbondava a piene mani in un testo teatrale all'apparenza simile, come Italia-Germania 4-3. In quest'ultimo lavoro (scritto da Umberto Marino e trasposto anche sul grande schermo da Andrea Barzini), l'unica nota che emergeva, alla fine, era solo un patetico alone di malinconia e di commiserazione. E la vittoria italiana nella semifinale di Mexico '70 era solo il pretesto per intonare l'ennesima elegia per una generazione in crisi di identità. In Italia-Brasile 3 a 2 non c'è nulla di tutto questo. Perché Enia, riuscendo a mettere a frutto le proprie qualità di autore e di interprete, racconta quella partita nell'unico modo possibile. Dato che Italia-Brasile - quella Italia-Brasile - è ormai una parte di noi, dato che le sequenze di quello scontro sono diventate un momento decisivo nell'esperienza collettiva, Enia non mette in scena la 'vera' partita, ma la partita - ancora più vera - giocata nel soggiorno di casa Enia, dinanzi al televisore (un solenne, avveniristico, quasi minaccioso, Sony Black Trinitron) nel torrido pomeriggio del 5 luglio 1982.


Dinanzi al racconto di quei febbrili novanta minuti, tutti noi non possiamo che riconoscerci negli indimenticabili personaggi del teatrino allestito da Enia, nei loro comici (ma così familiari) rituali scaramantici, nei loro odi viscerali, nelle loro passioni travolgenti, nei loro passaggi repentini dal più nero pessimismo alle più triviali spacconate. E non possiamo che tornare al soggiorno di casa nostra, o in qualsiasi altro luogo abbiamo seguito quello scontro epico, per incontrare ancora una volta la sagoma flemmatica di Socrates, le geometrie imprevedibili di Falçao, o le punizioni di Zico. Per rivivere le cavalcate di Bruno Conti e le gagliarde entrate di Claudio Gentile, o per ritrovare il punto esatto in cui il vecchio patriarca Dino Zoff riuscì a fermare sulla linea la spietata incornata di Leandro. Ma, soprattutto, non potremo mai dimenticare il momento in cui, indossando la maglia con il fatidico numero 20, il rachitico Paolo Rossi partiva verso le sue indimenticabili, rapaci, imprevedibili accelerazioni. Il momento in cui indirizzava il suo piede - così apparentemente legnoso, eppure così implacabile - verso l'angolo più lontano della porta del Sarrià di Barcellona. 


Ed è forse proprio la figura di Paolo Rossi - o "Paolorrossi", come lo chiama Enia, nel suo vernacolo palermitano, ricco di invenzioni e persino di richiami classici - a racchiudere in sé gran parte della storia di quel mondiale:

"Paolorrossi... quello che 'non tornerai mai più il giocatore di calcio che sei stato un tempo'... quello che 'tornatene a casa'... 'sei la vergogna dell'Italia...'
Paolorrossi... quello che in 232 minuti cambia tutto.
Dal 5' minuto di Italia-Brasile al 57' minuto di Italia-Germania, Paolorrossi nato a Prato segna 6 gol consecutivi:
3: al Brasile
2: alla Polonia, in semifinale
1: il primo nella finalissima alla Germania Ovest
cambiando di fatto la storia della competizione mondiale
cambiando la storia della nazionale italiana di calcio che dal 1938 non vinceva suddetto titolo
cambiando la storia dell'Italia che si trova unificata nella più grande festa popolare di piazza da Aosta a Palermo dai tempi della Liberazione dal nazifascismo
cambiando la sua storia professionale, conseguendo il titolo di capocannoniere della competizione mondiale e venendo eletto quell'anno il migliore giocatore di calcio al mondo
e cambiando, sopra ogni cosa, la sua vicenda umana passando dalla merda che quotidianamente gli veniva gettata addosso infangandolo alla santificazione in vita per miracoli conclamati sul terreno di gioco" (pp. 45-46).


Quella partita, insieme all'epilogo della vittoria sulla Germania, al Santiago Bernabeu di Madrid, non si sarebbe semplicemente impressa nell'immaginario collettivo di una generazione. Ne sarebbe diventata l'unico tratto realmente autobiografico, l'unico momento realmente condiviso. E, soprattutto, sarebbe diventata il grande racconto attorno al quale annodare la trama di tutte le singole esistenze di giovani privi di qualsiasi rilevante riferimento ideologico, politico, culturale. Così, ognuno di loro - di tutti quelli che avevano spinto la testa e il piede di Pablito nelle fatali giornate spagnole - avrebbe vissuto i periodi di difficoltà, lo scherno degli amici, l'incapacità di ingranare, come se si trattasse della prima fase del Mundial. Come se si trovasse dinanzi al Perù e al Camerun: avversari tutto sommato inferiori, ma di cui risulta difficile venire a capo. Ognuno di loro avrebbe confidato che queste difficoltà fossero solo il 'primo turno', solo la fase di riscaldamento prima dello slancio. Nella convinzione che, dopo il risicato, sofferto passaggio del turno, le cose sarebbero cambiate del tutto. Nella certezza che la cavalcata sarebbe cominciata, travolgendo uno dopo l'altro - dinanzi allo stupore di tutti, contro tutti i pronostici, contro il discredito di tutti i critici e della stampa - le loro personali Argentina, Brasile, Polonia e Germania. Nella speranza che, alla fine, quello che tutti ritenevano un giocatore finito, si rivelasse - proprio come Paolo Rossi - l'imprevedibile, immarcabile centravanti capace di diventare, davanti agli occhi increduli del mondo, un grande campione. E che tutto si sarebbe concluso con il liberatorio, immortale urlo di Marco Tardelli.



Ma non è stato solo un sogno individuale. E non è stato soltanto il sogno di una generazione di ragazzi, che per anni – nei momenti più esaltanti, come in quelli di maggiore difficoltà – sarebbe tornata a quella notte, a tutta la cavalcata del Mundial di Spagna. È stato il sogno di un intero Paese, che, con la vittoria al Mundial di Spagna, si scopriva diverso. Un paese che cambiava pelle proprio nella canicola di quelle indimenticabili giornate dell’estate dell’82. Un paese che, in quei giorni, si lasciava alle spalle il passato. E si indirizzava davvero verso gli anni Ottanta. Abbandonando qualche zavorra. Ma lasciandosi dietro anche qualcosa di più.
In un libro ricco di sollecitazioni sugli anni Ottanta, Marco Gervasoni ha ovviamente ritrovato proprio nel Mundial spagnolo lo snodo di un mutamento culturale profondo (M. Gervasoni, Storia d’Italia degli anni Ottanta. Quando eravamo moderni, Marsilio, Venezia, 2010). Nella sua ricostruzione, Gervasoni ritrova per esempio nel Pertini del Santiago Bernabeu (e in quello che giovava a scopone sull’aereo presidenziale, insieme a Bearzot) i tratti di «un italiano nuovo e antico al tempo stesso», qualche volta insofferente verso le regole del protocollo, persino protagonista di gaffe imbarazzanti, ma al tempo stesso «immagine di un paese vitale, dinamico, di cui ci si poteva sentire orgogliosi» (ibi, p. 29). Un Pertini, insomma, che anticipava già alcuni dei tratti personalistici che avrebbero in seguito segnato la politica italiana. Ma, soprattutto, Gervasoni riscopre il senso (culturale e persino politico) che, già allora, veniva assegnato alla vittoria da alcuni commentatori del Mundial. Gianni Brera, nelle sue corrispondenze dalla Spagna, esaltava per esempio il catenaccio della nazionale di Bearzot come un ritratto fedele dell’identità italiana, perché il catenaccio esprimeva una «paura canina, cioè in certo modo feroce, perché è assodato che i cani mordono quando hanno paura». Ma, dopo la vittoria, Brera non si ritraeva certo dalle celebrazioni della «cara vecchia e smandrappata Italia», che aveva «sfruttato appieno le virtù della sua indole»: «al diavolo i malevoli i cacaminuzzoli gli invidiosi gli incompetenti i pirla i fessi ai quali non è piaciuta la vittoria italiana. Io triumphe, avventurata Italia. Dovessi per un mese cantare le tue caste glorie, ebbene, lo farei con grato entusiasmo. […] Il terzo titolo mondiale dell’Italia non si discute come non si discutono i miracoli veri» (da «la Repubblica», 14 luglio 1982, citato da Gervasoni, Storia d’Italia degli anni Ottanta, cit., p. 32). E ancora più esplicito era Mario Soldati, inviato dal «Corriere della Sera» in Spagna per seguire gli aspetti di colore dei mondiali, che scriveva, all’indomani della notte di Madrid: «è la prima volta, dal lontanissimo (avevo dodici anni ma mi ricordo) 1918, durante la festa della vittoria nella guerra ‘15-’18, la prima volta che mi sento patriottico all’antica […] Non c’è stato anche il 24 luglio? Non c’è stato anche il 25 aprile? Sì, senza dubbio, ma in queste due date certamente più gloriose, purtoppo l’Italia era ancora divisa, divisa dentro di sé. Oggi non più […]. C’è qualcosa di nuovo nell’aria» (M. Soldati, Ah! Il Mundial!, Sellerio, Palermo, 2008, p. 120, citato sempre da Gervasoni, Storia d’Italia degli anni Ottanta, cit., p. 32). E gli entusiasmi andavano ben al di là delle consuete iperboli dei commentatori sportivi. Persino «l’Unità», quello che era ancora il quotidiano del Pci di Berlinguer, non si sottraeva all’entusiasmo, leggendo addirittura nella rinascita patriottica un segnale di rinnovamento politico. Proprio sull’«Unità» del 13 luglio 1982 si leggeva, infatti: «è avvenuto qualcosa di inedito, di travolgente, forse di effimero eppure di indimenticabile: qualcosa su cui occorre riflettere, scavare, come merita un momento così sorprendente della nostra biografia collettiva […]. Tutto ciò è converso nell’elemento simbolico, costantemente esibito, del tricolore, cioè della nazione, da parte di un popolo che, come molti riconoscono, non è né sciovinista, né xenofobo, a cui anzi si rimprovera un deficit di unità, di cultura e di identità». E la medesima lettura avrebbe spinto l’allora sindaco di Roma, il comunista Ugo Vetere, a vedere, nell’entusiasmo delle masse capitoline all’arrivo degli azzurri nella capitale, l’annuncio di una trasformazione sociale: «dalla pagina che è stata scritta tutti insieme», secondo le parole di Vetere, «può crearsi la possibilità di trasformare questa gioia, questa voglia di stare insieme in ricerca, speranza, volontà collettiva, di avere di conquistare una società più giusta, più bella, più umana» (ibi, p. 30). 
Certo, nell’atmosfera di quei giorni la retorica non poteva che abbondare, diventando una vera e propria marea montante. Ma, effettivamente, quella notte e quell’estate, l’Italia, improvvisamente, si ritrovò unita attorno al tricolore e alla maglia azzurra, riconquistando, dopo le divisioni e le lacerazioni anche dolorose degli anni precedenti, un’omogeneità nuova. Un’omogeneità che, al di là della retorica, neppure gli anni del terrorismo e dell’emergenza avevano realmente garantito. E che, invece, la grande cavalcata spagnola aveva magicamente ricomposto. Anche perché l’Italia poteva – o voleva – riconoscersi nell’exploit imprevedibile di Paolo Rossi, nella gloria tardiva di Dino Zoff, nella grinta di Claudio Gentile, nel catenaccio di Bearzot. Nella sua ricostruzione, Gervasoni ritrova così nell’estate del 1982 il passaggio emotivo, simbolico, culturale, dall’Italia degli anni Settanta all’Italia degli anni Ottanta, o, meglio, da un’Italia segnata dalla violenza e dal conflitto a un’Italia ottimista e rampante:

Gli italiani con il tricolore sentivano di poter uscire da un paese credendo in loro stessi, in una nazione nuova, solidale sì (il messaggio thatcheriano non poteva passare), ma allo stesso modo della squadra di calcio, fondata sul merito delle singole individualità. L’Italia immaginata dai tifosi era la stessa nazionale informale del ‘catenaccio’, delle piccole imprese e dei distretti snobbati dall’establishment economico, l’Italia degli stilisti, che venivano dal nulla e dalla provincia, guardati con sospetto dalle grandi industrie e dal cosiddetto salotto buono del capitalismo italiano. Era la nazione istituzionale incarnata, più di tutti, da Pertini, quella che alle regole e ai protocolli contrapponeva ‘l’umanità’ e ‘l’imprevisto’. […] Il Mondiale rappresentò la conferma di un nuovo stato d’animo – e fu sprone ad andare avanti – che valeva per tutti, al di là delle appartenenze politiche, culturali, sociali e, a quel punto, anche geografiche. Lo spirito di ottimismo generato dalla vittoria della coppa poté così convivere, nei mesi successivi, con eveti gravi, lo scandalo Ior, l’assassinio di Dalla Chiesa, nuovi attentati del terrorismo. Gli italiani, però, si sentivano già in un clima nuovo: anche se omicidi, scandali, crisi caratterizzarono gli anni successivi, tutti erano proiettati verso un mondo nuovo (M. Gervasoni, Storia d’Italia degli anni Ottanta, cit., pp. 32-33).

Naturalmente, nella parole di Gervasoni non è difficile ritrovare l’intento di riabilitazione degli anni Ottanta, che d’altronde sostiene il suo volume. Ma, effettivamente, la vittoria ai mondiali spagnoli fu un episodio chiave dell’autobiografia nazionale. Un episodio che incise in profondità, perché, a partire da quel momento, l’Italia non rappresentò più se stessa allo stesso modo. Dopo quell’estate, però, l’Italia perse forse per sempre qualcosa. E questa perdita – rileggendo quegli eventi quasi trent’anni dopo – non può che emergere in modo chiaro.
La vittoria nella notte di Madrid e quella nella canicola del Sarrià furono infatti le vittorie del ‘catenaccio’, il gioco all’italiana per eccellenza, l’arma nobile dei poveri, l’arma delle squadre prive di talento ma ricche di passione. Ma, dopo la vittoria al mondiale, le cose cambiarono rapidamente. Il campionato italiano diventò – o iniziò a essere rappresentato – come ‘il più bello del mondo’, quello in cui giocavano grandi campioni stranieri come Platini, Zico e Maradona. E, ben presto, lo spettacolo televisivo richiese, o impose, una svolta spettacolare anche al calcio. Il catenaccio fu abbandonato, la zona sostituì la marcatura a uomo, e così, il calcio all’italiana, se non sparì del tutto, divenne l’emblema del ‘vecchio’, un antico retaggio di cui la ‘nuova’ Italia si doveva liberare, non solo per rimanere al passo coi tempi, ma anche per aderire alla nuova fisionomia di un paese vincente, individualista e rampante. Ma, insieme al catenaccio, che aveva regalato al paese la più grande gioia sportiva della sua storia, l’Italia doveva liberarsi anche del proprio passato. Un passato di divisioni profonde, radicate, che non venivano affatto rimarginate o superate, ma semplicemente rimosse da una sorta di ri-unificazione puramente emotiva, destinata a dissolversi rapidamente. Alla fine degli anni Ottanta, infatti, molti dei motivi su cui era cresciuto il mito del successo italiano si dovevano svelare come semplici illusioni. E, una volta scemato l’entusiasmo, sul tappeto dovevano rimanere soltanto il rancore, il risentimento e il rimpianto.
Ma tutto questo doveva venire dopo. L’estate del 1982 fu davvero irripetibile. E l’avventura spagnola dei ragazzi di Bearzot fu una cavalcata straordinaria e imprevedibile. Una cavalcata che solo l’epica può raccontare, e che il monologo di Enia, con i suoi indimenticabili personaggi, stretti attorno al solenne Sony Black Trinitron, riesce ogni volta a far rivivere. Facendoci ridere e commuovere. E restituendoci, almeno per un attimo, l’innocenza perduta.

Damiano Palano



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