In questi giorni si aprono in Russia i mondiali di calcio, che - sessant'anni dopo l'edizione del 1958 - non vedono tra i partecipanti la nazionale italiana, eliminata nelle qualificazioni. "Maelstrom" ripropone un testo, originariamente apparso sul blog "Mompracem" nel giugno 2010, e dedicato al libro di Davide Enia, "Italia-Brasile 4-3", nel quale lo scrittore e attore palermitano rievocava le storiche giornate in cui la nazionale guidata da Enzo Bearzot conquistò la coppa del mondo.
di Damiano Palano
Tra le date che scandiscono il cambiamento d'epoca, e il passaggio dall'Italia di ieri all'Italia di oggi, una non può essere dimenticata, perché continua a parlare - più di altre - a molti italiani, e soprattutto alle generazioni nate tra la metà degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta. Per le ragazze e i ragazzi nati in quel periodo, le date che hanno scandito la storia italiana, imprimendo una cesura profonda, un taglio netto fra il 'prima' e 'dopo' - date come, per esempio, il 16 marzo 1978 o il 14 ottobre del 1980 - non hanno infatti un grande significato. E se ancora oggi conservano un valore, l'hanno assunto molto più tardi, in un processo di rielaborazione culturale successivo. Non certo perché non fosse ben chiaro già allora, persino a un ragazzino, cosa fosse accaduto in Via Fani, ma perché il significato reale di quei fatti e il peso che avrebbe avuto nella costruzione della memoria collettiva del paese sarebbero diventati chiari molti anni dopo. C'è però un'altra data, in cui quelle generazioni - e, insieme a loro, buona parte dell'Italia, al Sud come al Nord - sono nate davvero. E, per così dire, hanno scoperto il mondo come prima non avevano neppure mai osato pensarlo. Quella data è l'11 luglio del 1982. Perché in quella notte, la nazionale italiana di calcio, quella di Zoff, Gentile, Cabrini, Conti, Rossi, ecc., saliva per la prima volta - o, meglio, dopo le vittorie (lontanissime) del '34 e del '38 - sul tetto del mondo.
Tra le date che scandiscono il cambiamento d'epoca, e il passaggio dall'Italia di ieri all'Italia di oggi, una non può essere dimenticata, perché continua a parlare - più di altre - a molti italiani, e soprattutto alle generazioni nate tra la metà degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta. Per le ragazze e i ragazzi nati in quel periodo, le date che hanno scandito la storia italiana, imprimendo una cesura profonda, un taglio netto fra il 'prima' e 'dopo' - date come, per esempio, il 16 marzo 1978 o il 14 ottobre del 1980 - non hanno infatti un grande significato. E se ancora oggi conservano un valore, l'hanno assunto molto più tardi, in un processo di rielaborazione culturale successivo. Non certo perché non fosse ben chiaro già allora, persino a un ragazzino, cosa fosse accaduto in Via Fani, ma perché il significato reale di quei fatti e il peso che avrebbe avuto nella costruzione della memoria collettiva del paese sarebbero diventati chiari molti anni dopo. C'è però un'altra data, in cui quelle generazioni - e, insieme a loro, buona parte dell'Italia, al Sud come al Nord - sono nate davvero. E, per così dire, hanno scoperto il mondo come prima non avevano neppure mai osato pensarlo. Quella data è l'11 luglio del 1982. Perché in quella notte, la nazionale italiana di calcio, quella di Zoff, Gentile, Cabrini, Conti, Rossi, ecc., saliva per la prima volta - o, meglio, dopo le vittorie (lontanissime) del '34 e del '38 - sul tetto del mondo.
Per quanto si trattasse 'soltanto' di un evento sportivo, quella notte e l'intera estate del 1982 furono con ogni probabilità un momento di snodo cruciale per la ridefinizione dell'identità italiana. Un momento che incise molto più di altre vicende politiche, pur importanti. Non soltanto perché quella notte venne vissuta da molti come il più importante avvenimento nell'esperienza collettiva del paese, e persino nelle vite individuali di ciascuno. Ma anche perché fu un momento che venne a dividere la storia dell'Italia contemporanea fra un 'prima' e un 'dopo'. Un 'dopo' in cui nulla sarebbe stato più come prima.
Davide Enia, un attore e autore di grande talento, ha dedicato il suo monologo probabilmente più popolare al momento cruciale dell'avventura della nazionale di Bearzot. In Italia-Brasile 3 a 2 - un monologo andato in scena per la prima volta nel 2002, pubblicato anche in volume dall'editore Sellerio di Palermo, e diventato ormai una sorta di piccolo classico contemporaneo - Enia rievoca proprio la straordinaria partita che contrappose la rappresentativa italiana alla nazionale verde-oro. Ma non tocca certo le corde della nostalgia. I pochi che non hanno visto lo spettacolo - sempre entusiasmante - o letto il libro possono infatti stare tranquilli, perché non c'è proprio nulla di quello che abbondava a piene mani in un testo teatrale all'apparenza simile, come Italia-Germania 4-3. In quest'ultimo lavoro (scritto da Umberto Marino e trasposto anche sul grande schermo da Andrea Barzini), l'unica nota che emergeva, alla fine, era solo un patetico alone di malinconia e di commiserazione. E la vittoria italiana nella semifinale di Mexico '70 era solo il pretesto per intonare l'ennesima elegia per una generazione in crisi di identità. In Italia-Brasile 3 a 2 non c'è nulla di tutto questo. Perché Enia, riuscendo a mettere a frutto le proprie qualità di autore e di interprete, racconta quella partita nell'unico modo possibile. Dato che Italia-Brasile - quella Italia-Brasile - è ormai una parte di noi, dato che le sequenze di quello scontro sono diventate un momento decisivo nell'esperienza collettiva, Enia non mette in scena la 'vera' partita, ma la partita - ancora più vera - giocata nel soggiorno di casa Enia, dinanzi al televisore (un solenne, avveniristico, quasi minaccioso, Sony Black Trinitron) nel torrido pomeriggio del 5 luglio 1982.
Dinanzi al racconto di quei febbrili novanta minuti, tutti noi non possiamo che riconoscerci negli indimenticabili personaggi del teatrino allestito da Enia, nei loro comici (ma così familiari) rituali scaramantici, nei loro odi viscerali, nelle loro passioni travolgenti, nei loro passaggi repentini dal più nero pessimismo alle più triviali spacconate. E non possiamo che tornare al soggiorno di casa nostra, o in qualsiasi altro luogo abbiamo seguito quello scontro epico, per incontrare ancora una volta la sagoma flemmatica di Socrates, le geometrie imprevedibili di Falçao, o le punizioni di Zico. Per rivivere le cavalcate di Bruno Conti e le gagliarde entrate di Claudio Gentile, o per ritrovare il punto esatto in cui il vecchio patriarca Dino Zoff riuscì a fermare sulla linea la spietata incornata di Leandro. Ma, soprattutto, non potremo mai dimenticare il momento in cui, indossando la maglia con il fatidico numero 20, il rachitico Paolo Rossi partiva verso le sue indimenticabili, rapaci, imprevedibili accelerazioni. Il momento in cui indirizzava il suo piede - così apparentemente legnoso, eppure così implacabile - verso l'angolo più lontano della porta del Sarrià di Barcellona.
Ed è forse proprio la figura di Paolo Rossi - o "Paolorrossi", come lo chiama Enia, nel suo vernacolo palermitano, ricco di invenzioni e persino di richiami classici - a racchiudere in sé gran parte della storia di quel mondiale:
"Paolorrossi... quello che 'non tornerai mai più il giocatore di calcio che sei stato un tempo'... quello che 'tornatene a casa'... 'sei la vergogna dell'Italia...'
Paolorrossi... quello che in 232 minuti cambia tutto.
Dal 5' minuto di Italia-Brasile al 57' minuto di Italia-Germania, Paolorrossi nato a Prato segna 6 gol consecutivi:
3: al Brasile
2: alla Polonia, in semifinale
1: il primo nella finalissima alla Germania Ovest
cambiando di fatto la storia della competizione mondiale
cambiando la storia della nazionale italiana di calcio che dal 1938 non vinceva suddetto titolo
cambiando la storia dell'Italia che si trova unificata nella più grande festa popolare di piazza da Aosta a Palermo dai tempi della Liberazione dal nazifascismo
cambiando la sua storia professionale, conseguendo il titolo di capocannoniere della competizione mondiale e venendo eletto quell'anno il migliore giocatore di calcio al mondo
e cambiando, sopra ogni cosa, la sua vicenda umana passando dalla merda che quotidianamente gli veniva gettata addosso infangandolo alla santificazione in vita per miracoli conclamati sul terreno di gioco" (pp. 45-46).
Quella partita, insieme all'epilogo della vittoria sulla Germania, al Santiago Bernabeu di Madrid, non si sarebbe semplicemente impressa nell'immaginario collettivo di una generazione. Ne sarebbe diventata l'unico tratto realmente autobiografico, l'unico momento realmente condiviso. E, soprattutto, sarebbe diventata il grande racconto attorno al quale annodare la trama di tutte le singole esistenze di giovani privi di qualsiasi rilevante riferimento ideologico, politico, culturale. Così, ognuno di loro - di tutti quelli che avevano spinto la testa e il piede di Pablito nelle fatali giornate spagnole - avrebbe vissuto i periodi di difficoltà, lo scherno degli amici, l'incapacità di ingranare, come se si trattasse della prima fase del Mundial. Come se si trovasse dinanzi al Perù e al Camerun: avversari tutto sommato inferiori, ma di cui risulta difficile venire a capo. Ognuno di loro avrebbe confidato che queste difficoltà fossero solo il 'primo turno', solo la fase di riscaldamento prima dello slancio. Nella convinzione che, dopo il risicato, sofferto passaggio del turno, le cose sarebbero cambiate del tutto. Nella certezza che la cavalcata sarebbe cominciata, travolgendo uno dopo l'altro - dinanzi allo stupore di tutti, contro tutti i pronostici, contro il discredito di tutti i critici e della stampa - le loro personali Argentina, Brasile, Polonia e Germania. Nella speranza che, alla fine, quello che tutti ritenevano un giocatore finito, si rivelasse - proprio come Paolo Rossi - l'imprevedibile, immarcabile centravanti capace di diventare, davanti agli occhi increduli del mondo, un grande campione. E che tutto si sarebbe concluso con il liberatorio, immortale urlo di Marco Tardelli.
Ma non è stato
solo un sogno individuale. E non è stato soltanto il sogno di una generazione
di ragazzi, che per anni – nei momenti più esaltanti, come in quelli di
maggiore difficoltà – sarebbe tornata a quella notte, a tutta la cavalcata del
Mundial di Spagna. È stato il sogno di un intero Paese, che, con la vittoria al
Mundial di Spagna, si scopriva diverso. Un paese che cambiava pelle proprio
nella canicola di quelle indimenticabili giornate dell’estate dell’82. Un paese
che, in quei giorni, si lasciava alle spalle il passato. E si indirizzava
davvero verso gli anni Ottanta. Abbandonando qualche zavorra. Ma lasciandosi
dietro anche qualcosa di più.
In un libro
ricco di sollecitazioni sugli anni Ottanta, Marco Gervasoni ha ovviamente ritrovato
proprio nel Mundial spagnolo lo snodo di un mutamento culturale profondo (M. Gervasoni,
Storia d’Italia degli anni Ottanta.
Quando eravamo moderni, Marsilio, Venezia, 2010). Nella sua ricostruzione,
Gervasoni ritrova per esempio nel Pertini del Santiago Bernabeu (e in quello
che giovava a scopone sull’aereo presidenziale, insieme a Bearzot) i tratti di
«un italiano nuovo e antico al tempo stesso», qualche volta insofferente verso
le regole del protocollo, persino protagonista di gaffe imbarazzanti, ma al
tempo stesso «immagine di un paese vitale, dinamico, di cui ci si poteva
sentire orgogliosi» (ibi, p. 29). Un
Pertini, insomma, che anticipava già alcuni dei tratti personalistici che
avrebbero in seguito segnato la politica italiana. Ma, soprattutto, Gervasoni
riscopre il senso (culturale e persino politico) che, già allora, veniva
assegnato alla vittoria da alcuni commentatori del Mundial. Gianni Brera, nelle
sue corrispondenze dalla Spagna, esaltava per esempio il catenaccio della
nazionale di Bearzot come un ritratto fedele dell’identità italiana, perché il
catenaccio esprimeva una «paura canina, cioè in certo modo feroce, perché è assodato
che i cani mordono quando hanno paura». Ma, dopo la vittoria, Brera non si
ritraeva certo dalle celebrazioni della «cara vecchia e smandrappata Italia»,
che aveva «sfruttato appieno le virtù della sua indole»: «al diavolo i malevoli
i cacaminuzzoli gli invidiosi gli incompetenti i pirla i fessi ai quali non è
piaciuta la vittoria italiana. Io triumphe, avventurata Italia. Dovessi per un
mese cantare le tue caste glorie, ebbene, lo farei con grato entusiasmo. […] Il
terzo titolo mondiale dell’Italia non si discute come non si discutono i
miracoli veri» (da «la Repubblica», 14 luglio 1982, citato da Gervasoni, Storia d’Italia degli anni Ottanta,
cit., p. 32). E ancora più esplicito era Mario Soldati, inviato dal «Corriere
della Sera» in Spagna per seguire gli aspetti di colore dei mondiali, che
scriveva, all’indomani della notte di Madrid: «è la prima volta, dal
lontanissimo (avevo dodici anni ma mi ricordo) 1918, durante la festa della vittoria
nella guerra ‘15-’18, la prima volta che mi sento patriottico all’antica […]
Non c’è stato anche il 24 luglio? Non c’è stato anche il 25 aprile? Sì, senza
dubbio, ma in queste due date certamente più gloriose, purtoppo l’Italia era
ancora divisa, divisa dentro di sé. Oggi non più […]. C’è qualcosa di nuovo
nell’aria» (M. Soldati, Ah! Il Mundial!,
Sellerio, Palermo, 2008, p. 120, citato sempre da Gervasoni, Storia d’Italia degli anni Ottanta,
cit., p. 32). E gli entusiasmi andavano ben al di là delle consuete iperboli
dei commentatori sportivi. Persino «l’Unità», quello che era ancora il
quotidiano del Pci di Berlinguer, non si sottraeva all’entusiasmo, leggendo
addirittura nella rinascita patriottica un segnale di rinnovamento politico.
Proprio sull’«Unità» del 13 luglio 1982 si leggeva, infatti: «è avvenuto
qualcosa di inedito, di travolgente, forse di effimero eppure di indimenticabile:
qualcosa su cui occorre riflettere, scavare, come merita un momento così sorprendente
della nostra biografia collettiva […]. Tutto ciò è converso nell’elemento
simbolico, costantemente esibito, del tricolore, cioè della nazione, da parte
di un popolo che, come molti riconoscono, non è né sciovinista, né xenofobo, a
cui anzi si rimprovera un deficit di unità, di cultura e di identità». E la
medesima lettura avrebbe spinto l’allora sindaco di Roma, il comunista Ugo
Vetere, a vedere, nell’entusiasmo delle masse capitoline all’arrivo degli
azzurri nella capitale, l’annuncio di una trasformazione sociale: «dalla pagina
che è stata scritta tutti insieme», secondo le parole di Vetere, «può crearsi
la possibilità di trasformare questa gioia, questa voglia di stare insieme in
ricerca, speranza, volontà collettiva, di avere di conquistare una società più
giusta, più bella, più umana» (ibi,
p. 30).
Certo,
nell’atmosfera di quei giorni la retorica non poteva che abbondare, diventando
una vera e propria marea montante. Ma, effettivamente, quella notte e
quell’estate, l’Italia, improvvisamente, si ritrovò unita attorno al tricolore
e alla maglia azzurra, riconquistando, dopo le divisioni e le lacerazioni anche
dolorose degli anni precedenti, un’omogeneità nuova. Un’omogeneità che, al di
là della retorica, neppure gli anni del terrorismo e dell’emergenza avevano
realmente garantito. E che, invece, la grande cavalcata spagnola aveva
magicamente ricomposto. Anche perché l’Italia poteva – o voleva – riconoscersi
nell’exploit imprevedibile di Paolo
Rossi, nella gloria tardiva di Dino Zoff, nella grinta di Claudio Gentile, nel
catenaccio di Bearzot. Nella sua ricostruzione, Gervasoni ritrova così
nell’estate del 1982 il passaggio emotivo, simbolico, culturale, dall’Italia
degli anni Settanta all’Italia degli anni Ottanta, o, meglio, da un’Italia
segnata dalla violenza e dal conflitto a un’Italia ottimista e rampante:
Gli italiani con il tricolore sentivano
di poter uscire da un paese credendo in loro stessi, in una nazione nuova,
solidale sì (il messaggio thatcheriano non poteva passare), ma allo stesso modo
della squadra di calcio, fondata sul merito delle singole individualità.
L’Italia immaginata dai tifosi era la stessa nazionale informale del
‘catenaccio’, delle piccole imprese e dei distretti snobbati dall’establishment
economico, l’Italia degli stilisti, che venivano dal nulla e dalla provincia,
guardati con sospetto dalle grandi industrie e dal cosiddetto salotto buono del
capitalismo italiano. Era la nazione istituzionale incarnata, più di tutti, da
Pertini, quella che alle regole e ai protocolli contrapponeva ‘l’umanità’ e
‘l’imprevisto’. […] Il Mondiale rappresentò la conferma di un nuovo stato
d’animo – e fu sprone ad andare avanti – che valeva per tutti, al di là delle
appartenenze politiche, culturali, sociali e, a quel punto, anche geografiche.
Lo spirito di ottimismo generato dalla vittoria della coppa poté così
convivere, nei mesi successivi, con eveti gravi, lo scandalo Ior, l’assassinio
di Dalla Chiesa, nuovi attentati del terrorismo. Gli italiani, però, si
sentivano già in un clima nuovo: anche se omicidi, scandali, crisi caratterizzarono
gli anni successivi, tutti erano proiettati verso un mondo nuovo (M. Gervasoni,
Storia d’Italia degli anni Ottanta,
cit., pp. 32-33).
Naturalmente, nella parole di
Gervasoni non è difficile ritrovare l’intento di riabilitazione degli anni
Ottanta, che d’altronde sostiene il suo volume. Ma, effettivamente, la vittoria
ai mondiali spagnoli fu un episodio chiave dell’autobiografia nazionale. Un
episodio che incise in profondità, perché, a partire da quel momento, l’Italia
non rappresentò più se stessa allo stesso modo. Dopo quell’estate, però,
l’Italia perse forse per sempre qualcosa. E questa perdita – rileggendo quegli
eventi quasi trent’anni dopo – non può che emergere in modo chiaro.
La vittoria
nella notte di Madrid e quella nella canicola del Sarrià furono infatti le vittorie
del ‘catenaccio’, il gioco all’italiana per eccellenza, l’arma nobile dei
poveri, l’arma delle squadre prive di talento ma ricche di passione. Ma, dopo
la vittoria al mondiale, le cose cambiarono rapidamente. Il campionato italiano
diventò – o iniziò a essere rappresentato – come ‘il più bello del mondo’,
quello in cui giocavano grandi campioni stranieri come Platini, Zico e
Maradona. E, ben presto, lo spettacolo televisivo richiese, o impose, una
svolta spettacolare anche al calcio. Il catenaccio fu abbandonato, la zona
sostituì la marcatura a uomo, e così, il calcio all’italiana, se non sparì del
tutto, divenne l’emblema del ‘vecchio’, un antico retaggio di cui la ‘nuova’
Italia si doveva liberare, non solo per rimanere al passo coi tempi, ma anche
per aderire alla nuova fisionomia di un paese vincente, individualista e
rampante. Ma, insieme al catenaccio, che aveva regalato al paese la più grande
gioia sportiva della sua storia, l’Italia doveva liberarsi anche del proprio passato.
Un passato di divisioni profonde, radicate, che non venivano affatto
rimarginate o superate, ma semplicemente rimosse da una sorta di
ri-unificazione puramente emotiva, destinata a dissolversi rapidamente. Alla
fine degli anni Ottanta, infatti, molti dei motivi su cui era cresciuto il mito
del successo italiano si dovevano svelare come semplici illusioni. E, una volta
scemato l’entusiasmo, sul tappeto dovevano rimanere soltanto il rancore, il risentimento
e il rimpianto.
Ma tutto
questo doveva venire dopo. L’estate del 1982 fu davvero irripetibile. E
l’avventura spagnola dei ragazzi di Bearzot fu una cavalcata straordinaria e
imprevedibile. Una cavalcata che solo l’epica può raccontare, e che il monologo
di Enia, con i suoi indimenticabili personaggi, stretti attorno al solenne Sony
Black Trinitron, riesce ogni volta a far rivivere. Facendoci ridere e
commuovere. E restituendoci, almeno per un attimo, l’innocenza perduta.
Damiano Palano
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