di Damiano Palano
Questa recensione al volume di A. Masi, Idealismo e opportunismo della cultura italiana. 1943-1948 (Mursia, pp. 485, euro 22.00), è apparsa sul quotidiano "Avvenire"
Dopo
gli anni del lungo esilio trascorso in Russia, Palmiro Togliatti giunse a
Napoli il 27 marzo 1944 a bordo del mercantile inglese Ascania. Il viaggio per tornare in Italia era stato piuttosto
tortuoso e probabilmente anche avventuroso. Ma forse ancora più complicato era stato
il ripensamento della strategia che il Partito Comunista Italiano avrebbe
dovuto sostenere. Probabilmente per intervento diretto dello stesso Stalin, a
partire dal marzo 1944 il Pci abbandonò infatti la pregiudiziale
anti-monarchica, accettando l’ipotesi di entrare a far parte di un governo
sostenuto anche dalle forze badogliane. Si trattava per molti versi della presa
d’atto del nuovo quadro che si era delineato con l’occupazione del paese da
parte degli Alleati. E proprio perché l’Italia era di fatto sotto il controllo
delle forze occidentali, il Pci avrebbe dovuto adottare una strategia diversa
da quella degli altri partiti comunisti. Una strategia anticipata da Togliatti
fin dal novembre 1943 e poi fissata nella «svolta di Salerno», che prefigurava
la costruzione di una democrazia basata su una vasta rete di organizzazioni di
massa. Ma che nell’immediato richiedeva il contributo di tutte le forze
politiche anti-fasciste. Da lì in avanti l’obiettivo di Togliatti sarebbe
diventato il «partito nuovo», ossia un partito capace di radicarsi nei diversi
strati della società italiana. E in grado di coinvolgere il mondo intellettuale.
Le tappe con cui il Pci
riuscì a diventare un punto di riferimento per una parte consistente degli
intellettuali italiani sono state ricostruite negli anni da molte prospettive. In
questa discussione si inserisce anche il libro di Alessandro Masi, Idealismo e opportunismo della cultura
italiana. 1943-1948 (Mursia, pp. 485, euro 22.00). Storico dell’arte e
giornalista, Masi analizza infatti la questione ponendo in primo piano il
rapporto tra la linea di politica culturale proposta da Giuseppe Bottai negli
ultimi anni del regime fascista e quella in seguito adottata da Togliatti dopo
il 1944. A differenza di Mussolini, scettico sul ruolo degli intellettuali e
soprattutto convinto del loro disfattismo, Bottai riteneva che fosse necessario
riguadagnare il favore di scrittori e artisti. Il «Primato», la rivista che
fondò nel 1940, si propose proprio l’obiettivo coagulare i fermenti che
serpeggiavano nelle nuove generazioni, al tempo stesso convogliando quelle
energie all’interno dell’alveo del regime. Con la caduta del fascismo, il
progetto di Bottai naturalmente fu abbandonato. Ma il suo «modello» – secondo
la lettura proposta da Masi – influenzò (almeno implicitamente) l’indirizzo
adottato da Togliatti fin dal suo arrivo a Napoli.
La battaglia per la conquista
del mondo della cultura fu in effetti centrale per Togliatti. Non casualmente
riversò enormi energie nella rivista «Rinascita». E considerò inoltre decisiva
la critica rivolta al pensiero di Benedetto Croce, che per molti intellettuali
meridionali aveva invece rappresentato un simbolo dell’opposizione al fascismo.
Svolgendo un’operazione davvero simile a quella di Bottai, Togliatti cercò cioè
di accreditare il Partito Comunista come forza capace di ospitare al proprio
interno tutti i fermenti di rinnovamento che covavano nella società italiana,
senza forzare sul dogmatismo dottrinario e senza neppure richiedere una piena
adesione ai principi del marxismo. Ma quel progetto incontrò ben presto qualche
difficoltà. E la prima fu senz’altro rappresentata dal ‘caso’ di Elio
Vittorini. Pur militando nel Pci, Vittorini rifiutò di definire Uomini e no come un romanzo «comunista»,
dichiarando inoltre che «cercare in arte il progresso dell’umanità» era
tutt’altro che «lottare per tale progresso sul terreno politico e sociale». Ma
soprattutto «Il Politecnico», la rivista settimanale che aveva fondato nel
1945, venne stigmatizzato dallo stesso Togliatti per la sua ambizione di
perseguire una ricerca puramente ‘culturale’.
Il ‘caso Vittorini’ fu però
solo il primo episodio di una lacerazione destinata ad aggravarsi dopo il 1948,
quando – in un clima politico ormai mutato – le coordinate della politica
culturale di Andrej Ždanov vennero accolte
anche dal Pci. Naturalmente molti di quegli artisti che avevano aderito al Pci
– e che si erano alimentati al linguaggio delle avanguardie – non potevano affatto
accogliere i canoni del «realismo socialista» fissati da Ždanov. Ma ciò non impedì allo stesso Guttuso di
pronunciare un elogio del dirigente sovietico all’indomani della sua morte (rivendicando
al tempo stesso il diritto dell’arte a esprimersi senza costrizioni politiche).
«Rimpiangere Ždanov e nello stesso tempo difendere l’autonomia
relazionale dell’arte dalla politica», scrive a questo proposito Masi, «era
un’illusione, anzi una contraddizione, in cui gli intellettuali ancora si
crogiolavano». Alcuni anni dopo, quando i carri di Mosca entrarono a Budapest,
quella contraddizione divenne per molti sempre più insostenibile. L’illusione
su cui la politica culturale togliattiana si era retta iniziò ad andare in
pezzi. E cominciò proprio allora a prendere forma il «lungo addio» tra
intellettuali e Pci.
Damiano Palano
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