Di
Damiano Palano
Questa recensione al volume di Rachel Botsman, Di chi
possiamo fidarci? Come la tecnologia ci ha uniti e perché potrebbe dividerci (Hoepli,
pp. 328, euro 22.90), è apparsa su "Avvenire" il 19 maggio 2018.
Poco
più di vent’anni fa il politologo americano Robert D. Putnam pubblicò un
articolo dedicato ai mutamenti intervenuti nel modo in cui gli americani
giocavano a bowling. All’inizio degli anni Novanta il numero delle persone che
si dedicavano a questa disciplina risultava essere cresciuto rispetto al
passato. Ma mentre negli anni Sessanta e Settanta si giocava a bowling
all’interno di leghe sportive, nel corso del tempo era diventata un’attività individuale.
Anche se il tema poteva apparire futile, per Putnam quella trasformazione era la
spia di un processo ben più generale, che consisteva nel progressivo
logoramento della tradizione civica propria della società americana. In altre
parole, si stava sgretolando quella tradizione di civismo che Tocqueville aveva
celebrato nell’Ottocento e che era alla base della partecipazione dei cittadini
alla vita comunitaria. Le cause erano da individuare nel mutamento della
composizione familiare e nell’aumento del tempo trascorso davanti alla tv,
oltre che in altre dinamiche. Ma le conseguenze, ammoniva Putnam, erano allarmanti
anche per lo stato della democrazia. Perché le istituzioni politiche possono
funzionare in modo efficiente proprio in presenza di una solida base di civismo,
e cioè quando esiste un solido capitale sociale di fiducia.
Le ipotesi di Putnam hanno
aperto un dibattito sterminato. Qualcuno ha innanzitutto obiettato al
politologo che non tutte le forme di capitale sociale risultano necessariamente
benefiche per il rendimento delle istituzioni. Mentre altri si sono chiesti se
i mutamenti tecnologici non possano anche contribuire a rigenerare il capitale
sociale di fiducia ereditato dal passato. Ed è proprio questa l’idea sviluppata
da Rachel Botsman nel suo libro Di chi
possiamo fidarci? Come la tecnologia ci ha uniti e perché potrebbe dividerci (Hoepli,
pp. 328, euro 22.90). Anche per Botsman – esperta delle conseguenze che le trasformazioni
tecnologiche producono sull’economia – la fiducia è un ingrediente fondamentale
per la buona riuscita di quasi ogni attività sociale ed economica. Come scrive,
si tratta di una «relazione ottimistica con l’ignoto», ossia di quella molla
che consente agli individui di avviare attività incerte, nella convinzione che
avranno un esito positivo. Ma il punto è che la fonte da cui deriva la nostra
fiducia nel corso del tempo si è modificata. Nel passato la fiducia era
soprattutto locale, nasceva cioè
dalla conoscenza diretta dei propri simili ed era perciò fatalmente legata alla
piccola dimensione della comunità urbana. In seguito, con lo sviluppo
dell’economia mercantile, è diventata istituzionale:
prodotto cioè di grandi e autorevoli organizzazioni, capaci di svolgere un
ruolo di intermediazione ma anche di garantire l’affidabilità dei singoli
attori o il valore di una banconota. Oggi invece, proprio grazie alle
tecnologie, la fiducia tende a essere distribuita.
Non discende cioè dall’alto verso il basso, ma segue un percorso inverso. Se la
crisi finanziaria globale ha sancito infatti l’esplosione della sfiducia nei
confronti delle istituzioni finanziarie e politiche, sta gradualmente
conquistando terreno la fiducia distribuita, in cui è l’interazione – e non
un’autorità che sta al di sopra di tutti – a consolidare la reputazione e
l’affidabilità di ciascun operatore. Naturalmente gli esempi che vengono
considerati da Botsman sono eBay, BlaBlaCar o Airbnb, e cioè piattaforme che
funzionano proprio perché sono riuscite a superare l’ostacolo della diffidenza
verso gli estranei, non grazie alla creazione di un’autorità che regola le
transazioni, ma mediante un meccanismo di reciproco controllo.
Senza dubbio il libro ha il
merito di chiarire come funziona oggi la fiducia distribuita. Ma l’idea di un
superamento dalla fiducia istituzionale – che Botsman d’altronde non sposa fino
in fondo – rischia di essere fin troppo ingenua. Come ci mostrano le cronache,
anche nel web esistono asimmetrie di
potere sempre più evidenti. Le grandi piattaforme su cui si svolgono le nostre
transazioni non sono luoghi ‘neutrali’, ma hanno proprietari che possono
utilizzare le informazioni di cui dispongono tendenzialmente anche per
modificare il comportamento degli utenti, senza però assumersi alcuna
responsabilità. E non possiamo escludere che anche le piattaforme possano
essere investite da ondate di sfiducia. Ciò significa dunque che le istituzioni
– in primo luogo quelle politiche – avranno ancora un ruolo nell’ostacolare la
concentrazione di potere digitale. Ma anche che avranno il compito di impedire
che la fiducia distribuita rimanga vittima del proprio successo.
Damiano Palano
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