di Damiano Palano
In occasione dei quarant'anni dalla morte di Aldo Moro, si ripropone la lettura di un libro di Giovanni De Luna apparso su "Maelstrom" qualche tempo fa.
Nella storia ci sono date che, con il passare del tempo, si imprimono nella memoria collettiva, diventano il simbolo di un passaggio d’epoca e si tramutano nel segnale visibile di una transizione fra un ‘prima’ e un ‘dopo’. Nella storia dell’Italia del Novecento non è difficile riconoscere queste date. Ernesto Galli della Loggia, in Tre giorni nella storia d’Italia (Laterza, Roma – Bari, 2010), ne indica tre: il 28 ottobre 1922, il 18 aprile 1948, il 27 marzo 1994. Il 28 ottobre del 1922, l’epilogo farsesco della ‘marcia su Roma’ dà inizio al ventennio fascista, la vittoria democristiana alle elezioni del 18 aprile avvia la lunga stagione della ‘Prima Repubblica’, mentre l’affermazione elettorale di Forza Italia, il 27 marzo 1994, scandisce il primo atto di quella ‘Seconda Repubblica’ in cui siamo ancora oggi invischiati, senza poter dire se si tratti della fase del tramonto, della lunga agonia o del massimo fulgore. In effetti, ci possono essere pochi dubbi che in quel fatidico 27 marzo sia cominciata, in senso proprio, l’Italia di oggi, e che i suoi tratti – per noi divenuti ormai abituali – abbiano conquistato proprio allora, per la prima volta in modo visibile, il proscenio della storia. Ma è anche abbastanza ovvio che le radici siano molto più profonde. Forse, infatti, la ‘Prima Repubblica’ non finisce nel 1994 e neppure nel 1992, con l’arresto di Mario Chiesa, o qualche mese dopo, con i fischi dell’Hotel Raphael e le monetine lanciate sulla testa di Bettino Craxi. Forse, la ‘Prima Repubblica’ si conclude molti anni prima, il 16 marzo del 1978, con il sequestro di Aldo Moro. Per molti versi, è infatti attorno a quella tragedia nazionale che prendono forma un ‘nuovo sentire’, un nuovo patto interno alla classe politica e un nuovo immaginario, molto diverso da quello del decennio precedente.
La storia del mutamento dell’immaginario italiano, nel passaggio dagli anni Settanta agli anni Ottanta, rimane in gran parte ancora da fare, ma probabilmente è proprio riesaminando quel cruciale mutamento d’epoca – che nell’arco di pochi mesi cambia davvero tutto – che si può comprendere l’Italia di oggi, la miseria politica e culturale della ‘Seconda Repubblica’, il decadimento del mondo intellettuale che ci troviamo di fronte, e forse persino quell’inesorabile declino che tende a spingere l’economia italiana verso una posizione sempre più periferica e marginale rispetto ai centri propulsivi della produzione mondiale. Un contributo importante alla ricostruzione di questo mutamento degli immaginari proviene ora dal nuovo lavoro di Giovanni De Luna, La Repubblica del dolore. Le memorie di un’Italia divisa (Feltrinelli, Milano, 2011, pp. 201, euro 15.00), che non affronta tanto una questione delicata come quella del ‘revisionismo’ storiografico e delle sue implicazioni politiche, quanto il nodo rappresentato dal mutamento dei modi in cui la memoria pubblica viene costruita. È infatti proprio esaminando il fallimento delle strategie tradizionali di costruzione della memoria ‘ufficiale’ di un Paese – e, ovviamente, soprattutto dell’Italia – che emerge, a partire dagli anni Ottanta, un tratto di discontinuità forte rispetto al passato: un tratto che porta in primo piano le «vittime», gli individui e il loro dolore ‘privato’.
L’analisi di De Luna prende le mosse dalla proliferazione che, negli ultimi anni, conoscono le «giornate della memoria». In Italia, l’istituzione per legge, nel 2000, del «giorno della memoria» per le vittime della Shoa (27 gennaio), viene per esempio seguita dall’istituzione del «giorno del ricordo» per le vittime delle foibe (30 marzo), del «giorno della libertà», in ricordo dell’abbattimento del Muro di Berlino (9 novembre), del «giorno della memoria» dedicato alle vittime del terrorismo (9 maggio), della «giornata del ricordo dei Caduti militari e civili nelle missioni internazionali per la pace» (12 novembre), ma a queste si aggiungono anche altre date, introdotte (o ripristinate) sempre con la medesima finalità di celebrare un sacrificio, di sollecitare il ricordo, di rafforzare la memoria condivisa. In questo senso, l’Italia non segue un percorso differente dagli altri paesi occidentali, perché interventi simili si possono ritrovare, come mostra De Luna, anche in Spagna, in Francia, in Russia, in Germania. E, d’altronde, gli stessi tentativi di ‘correggere’, o di limitare l’esercizio dell’attività storiografica, ponendo dei vincoli normativi a ciò che si può sostenere (anche nell’ambito di una ricerca scientifica), nascono dal medesimo obiettivo di costruire una «memoria ufficiale» mediante strumenti istituzionali. In tutto questo, apparentemente, non c’è nulla di nuovo, nel senso che, nel corso della loro storia, gli Stati hanno invariabilmente tentato di forgiare un’identità condivisa – una ‘nazione’ – mediante un’iconografia, un epos, una mitologia non di rado semplificata, retorica, biecamente strumentale, di cui la scuola era naturalmente il canale di trasmissione fondamentale. Ma nella recente proliferazione delle leggi sulla memoria, così come negli interventi legislativi sull’esercizio dell’attività storiografica, c’è in realtà qualcosa di radicalmente nuovo: qualcosa in cui, secondo De Luna, si nasconde una sorta di paradosso, per cui quello stesso Stato che, per un verso, diventa progressivamente meno potente, e che si ritira sempre più dalla società, per un altro, infittisce gli interventi «tesi a dilatare gli spazi delle appartenenze simboliche, con sempre più frequenti incursioni legislative nel passato per creare – attraverso una ‘memoria ufficiale’ rinnovata -, nuovi valori di adesione e di condivisione su cui fondare una versione più attuale della cittadinanza» (p. 20). Questo paradosso è a bene vedere solo apparente, perché, secondo la tesi di De Luna, a rendere complementari questi due elementi – la perdita di potere dello Stato nell’edificazione dell’identità della ‘nazione’ e la proliferazione dei suoi interventi in materia ‘memorialistica’ – sono proprio i nuovi caratteri assunti della memoria istituzionale.
La «memoria ufficiale» di un Paese non ha naturalmente nulla di ‘biologico’ o ‘naturale’, nel senso che è sempre una costruzione artificiale, in qualche modo indispensabile per ogni Stato. In questo senso, la memoria ufficiale si profila, scrive De Luna, come una sorta di «patto»: un patto «in cui è lo Stato a fissare i termini per cui ci si accorda su ciò che è importante trasmettere alle generazioni future» (p. 21). «La sua costruzione» - come osserva De Luna – «consiste appunto in un incessante lavorio attraverso il quale lo Stato e le sue istituzioni includono (o escludono) sempre nuovi elementi dai confini di quel ‘patto’, ne rinnovano i contraenti e i contenuti, a seconda delle fasi politiche che si rincorrono nella storia di un paese. Lo scopo ultimo di un simile ‘patto’ è alla fine quello di alimentare i valori, le credenze, i simboli, le liturgie che legittimano un sistema politico, ancorandoli a un passato che viene proposto come comune e condiviso. Di qui l’importanza strategica che una memoria ufficiale così concepita assume nella costruzione di una ‘religione civile’, di uno spazio pubblico di reciproca accettazione tra ideologie e appartenenze contrastanti, di rispetto per le libertà individuali nel nome di valori consapevolmente accettati» (p. 21). Soprattutto nel corso dell’Ottocento, e per buona parte del Novecento, e gli Stati nazionali utilizzano per forgiare questa memoria strumenti come i manuali scolastici, i monumenti, le festività pubbliche, i rituali politici. Anche negli ultimi decenni, a cavallo fra il XX e il XXI secolo, non cessano di farlo, e anzi sembra che l’interventismo statale nel campo si infittisca sempre più. Eppure, questa moltiplicazione non scaturisce da un rafforzamento del potere dello Stato, quanto piuttosto dal suo affievolirsi rispetto alla società. Come scrive De Luna, ricordando le parole con cui Pierre Nora, già di fronte alle prime polemiche sul revisionismo storiografico, notava una sorta di ‘implosione’ della memoria ufficiale: «Priva di un quadro nazionale di riferimento, la memoria ufficiale aveva visto appannarsi non solo la sua ‘vocazione pedagogica rivolta alla trasmissione di valori’, ma anche la sua capacità di proporre ‘un quadro unitario in grado di abbracciare la coscienza della collettività’» (p. 38).
Anche l’Italia segue ovviamente questa traiettoria, segnata dalla progressiva disgregazione della memoria ufficiale, scaturita dall’incapacità di uno Stato sempre più debole nel definire i contorni di un passato condiviso, e dalla sempre più evidente difficoltà di rimarginare le lacerazioni del Novecento. In altre parole, in Italia come altrove, all’affievolirsi – o alla vera e propria implosione – della memoria ufficiale, si accompagna il riemergere e il riacutizzarsi di tutte quelle ferite che la storia del Novecento ha lasciato sul ‘corpo’ – sempre meno coeso – della ‘nazione’. Ma in Italia, agli effetti di questi processi, si aggiungono le conseguenze della crisi politica del principio degli anni Novanta, con il passaggio dalla ‘Prima’ alla ‘Seconda Repubblica’ e il tramonto dei vecchi partiti. «Con la crisi dei partiti della Prima Repubblica» - scrive De Luna - «una sorta di cortocircuito ha infatti attraversato il rapporto tra politica, memoria e storia segnando una ‘fase’ politica attraversata da una faille profonda nella nostra vicenda nazionale, in cui si è trattato non solo di ricostruire un nuovo assetto politico-costituzionale, ma anche di porre mano alla ridefinizione di gran parte degli elementi di quel patto sul quale, nell’Italia repubblicana, dal 1946 fino ad allora, si era fondata la nostra memoria ufficiale» (pp. 39-40). Nella storia della ‘Prima Repubblica’, il compito di costruire la ‘memoria ufficiale’ è assolto soprattutto dai partiti, oltre che – almeno nella primissima fase – da un vasto tessuto associativo, soprattutto attorno ai cardini della memoria della lotta contro il fascismo e della resistenza. Se l’antifascismo, come collante dell’intero sistema dei partiti, perde parte della propria forza già negli anni Cinquanta, a partire dal 1960, dopo la rivolta popolare contro il tentativo del governo Tambroni, torna invece a riconquistare la centralità simbolica, e così gli anni Sessanta e Settanta sono anche quelli in cui si definisce una memoria ufficiale che assegna una funzione cardine alla resistenza, o, quantomeno, a una specifica immagine della resistenza. «La memoria della resistenza fu quindi finalmente assunta come paradigma di riconoscimento dell’Italia repubblicana, proprio mentre, nei due decenni Sessanta e Settanta, i partiti politici assumevano il ruolo di protagonisti incontrastati nella costruzione della memoria pubblica di questo paese. Fu così anche nella grande arena dell’‘uso pubblico della storia’, dove le varie ‘vulgate’ si strutturarono in altrettanti compartimenti stagni, in una stagione di studi storici vissuta all’insegna della regola non scritta cuius regio, eius religio, in virtù della quale lo studio di ciascuno dei partiti politici era materia riservata per gli storici che si richiamavano alla sua tradizione e alla sua cultura politica; gli oggetti di studio, i temi della ricerca e quelli del dibattito storiografico si frammentarono in veri e propri feudi interpretativi, sorretti da archivi centralizzati, istituti e fondazioni, personale scientifico, tutti raccolti intorno agli eroi eponimi (Gramsci, Sturzo, Nenni, Einaudi, La Malfa) delle diverse tradizioni partitiche e delle varie culture politiche. Contemporaneamente, i partiti si affermarono come altrettanti imprenditori politici della memoria, monopolizzandone i ‘luoghi’ in cui elaborarla e le modalità con cui trasmetterla» (pp. 45-46). In parte, questo rituale prosegue per tutti gli anni Ottanta, ma, a ben vedere, i segni di un indebolimento di quell’edificio memorialistico iniziano già a emergere, con i tentativi di ‘reinventare’ una tradizione da parte soprattutto del Psi di Craxi, o con le discussioni sull’inno nazionale, o persino con l’epos nato attorno alla vittoria della nazionale italiana al Mundial spagnolo del 1982, destinato a diventare – forse più di ogni slogan politico – il vero cemento dell’immaginario di quel decennio (cfr. L’estate in cui diventammo campioni del mondo). Così, proprio guardando a quei segnali, il pantheon di miti ed eroi della resistenza sembra a De Luna già fragile negli anni Ottanta, tanto che, come scrive, «oggi appare chiaro come già allora si fosse dinanzi ai prodromi della bruciante lacerazione che si sarebbe aperta sul vuoto lasciato dal crollo verticale dei grandi modelli pedagogici dei partiti di massa» (p. 46).
Tutte quelle crepe si sarebbero manifestate qualche anno più tardi, quando la frana di Tangentopoli, facendo tabula rasa dei vecchi partiti, mostrò come in fondo, sotto il manto di una stanca retorica, la ‘memoria ufficiale’ fosse sempre più distante dal ‘Paese reale’. Per diversi motivi, quasi nessuno dei nuovi partiti usciti dalla tempesta giudiziaria poteva colmare il vuoto determinatosi con l’implosione della memoria ufficiale fondata sulla Resistenza. Non potevano farlo né Alleanza Nazionale, né il Partito Democratico della Sinistra, perché il loro passato era ovviamente troppo ingombrante sia per essere riutilizzato in chiave celebrativa, sia per essere definitivamente occultato, ma non poteva riuscire in una simile impresa neppure Forza Italia. Quello spazio fu oggetto invece dei tentativi di occupazione della Lega Nord, con i suoi esperimenti di vera e propria ‘invenzione della tradizione’, dalle iniziative del Quirinale – soprattutto sotto la presidenza di Ciampi – di rilegittimare i simboli tradizionali dell’unità nazionale, come il tricolore e l’inno di Mameli, e da una nuova, prorompente ondata di ‘revisionismo’ storiografico. Naturalmente, il rilievo scientifico delle polemiche storiografiche che accesero il dibattito pubblico – e che ancora oggi non si sono esaurite – era spesso estremamente scarso, se non del tutto irrilevante, dal momento che i ragionamenti apparivano invariabilmente segnati dalle finalità dell’immediata contesa politica. Come scriveva Pier Paolo Poggio, il revisionismo, fiorito negli anni Novanta (e in seguito ulteriormente cresciuto), più che rispondere alle necessità di un ripensamento meditato, «va incontro a una domanda del pubblico, aderisce all’esistente ed è preoccupato solo dall’immediata attualità che garantisce il consumo dei suoi prodotti, concepisce la storia dal punto di vista della sua fine, di un presente assoluto in cui il rapporto con il passato è piegato alle leggi dello spettacolo» (P.P. Poggio, Nazismo e revisionismo storico, Manifestolibri, Roma, 1997, p. 114, citato ibi, p. 66). Ma sono per molti versi proprio la ‘spettacolarizzazione’ della storia e il ripiegamento del passato sul presente a spiegare anche i molti interventi legislativi sulla memoria e l’istituzione delle giornate volte a ricordare le vittime dei più diversi drammi individuali e collettivi. Ed è in questo quadro che emerge come centrale quello che De Luna definisce come il «paradigma vittimario».
Lo spazio vuoto della memoria ufficiale viene infatti occupato proprio da un simile paradigma, un paradigma che diventa fondamentale non solo in Italia, ma che comunque assume in Italia un ruolo particolarmente rilevante, proprio in conseguenza dello sgretolamento della ‘Prima Repubblica’, dei suoi partiti e dell’epos resistenziale. Tra i diversi interventi sulla memoria, spesso incoerenti e non privi di notevoli deformazioni, ciò che emerge come tratto comune è infatti la centralità delle vittime: «Il termine che viene riproposto in tutte le leggi che abbiamo esaminato» - scrive De Luna - «è quello di ‘vittime’. Ricorre con tanta insistenza da poter essere effettivamente considerato la spia linguistica del tentativo di tenere insieme la Resistenza e i ‘ragazzi di Salò’, le foibe e i lager, il terrorismo delle Br e la mafia attraverso la costruzione, nel segno della compassione per le vittime, di una ‘memoria avvinta dall’emozione e assorbita dalla sofferenza’» (p. 83). Per quanto riguarda l’Italia, le prime tracce del paradigma vittimario possono essere rinvenute nella costituzione, negli anni Ottanta, dell’Associazione dei familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, ma in questa fase l’enfasi posta sulla condizione di «vittima» era per molti versi finalizzata all’affermazione di un’istanza collettiva, non priva di connotazioni polemiche contro le istituzioni. In seguito, la centralità posta sulle vittime assume invece connotazioni differenti: «da un lato una forte impronta di tipo contrattualistico a cui legare una perenne spirale rivendicativa, dall’altro la crucialità delle emozioni e dei sentimenti che ne dilatano i confini fino ai recessi più profondi e intimi della sensibilità individuale» (p. 93). Queste due dimensioni diventano preponderanti proprio in conseguenza del passaggio dalla ‘Prima’ alla ‘Seconda Repubblica’, perché – secondo il ragionamento di De Luna – nel momento in cui si ‘svuota’ lo spazio della memoria pubblica, la memoria tende a ‘privatizzarsi’, a diventare terreno di contesa di gruppi che rivendicano la condizione di «vittime»: «i nuovi gruppi protagonisti del ‘patto memoriale’ che hanno avvicendato i partiti politici e hanno rifiutato di caratterizzarsi sulla base di un’appartenenza ideologica, sono individuati dal fatto di riferirsi a un ‘comune passato di vittime’, utilizzato soprattutto per darsi un’identità, certificare la propria esistenza collettiva, esorcizzare i disagi e le incertezze del presente» (pp. 93-94). Se la rivendicazione della condizione di «vittima» scaturisce da una volontà di riconoscimento, o anche da istanze risarcitorie di tipo differente, le conseguenze della proliferazione del paradigma vittimario vanno nel senso di quella che De Luna – con un’espressione senza dubbio efficace – definisce come una «democrazia delle emozioni». In effetti, la spinta contrattualistica e quella sentimentale, a partire dagli anni Novanta, «delineano i tratti di una memoria vittimaria che alimenta una sorta di ‘democrazia delle emozioni’, segnata da relazioni e rapporti basati sull’intimità e sulle appartenenze, in un nuovo spazio pubblico attraversato da un ‘eccesso di personalizzazione’ delle istituzioni, da un linguaggio carico di pathos, da luoghi e rituali di memoria in cui ogni gruppo esibisce le proprie ferite e le proprie offese per sollecitare riparatori fondati sulla retorica del risarcimento e delle scuse» (p. 96). Ovviamente, come avviene per l’intera politica italiana, il ritrarsi di partiti e istituzioni viene in larga parte compensato – e incoraggiato – dall’espansione del mercato nello spazio pubblico e dall’estensione del ruolo della televisioni. E De Luna non può mancare di sottolineare come la spettacolarizzazione delle emozioni – di cui la Tv si nutre come proprio principale alimento – tenda a travasarsi dalla dimensione del puro intrattenimento anche alla sfera più propriamente politica e, dunque, della stessa memoria storica: «Pubbliche o private, tutte le reti televisive si affollarono di programmi che vendevano emozioni per provocare emozioni e vendevano contemporaneamente, attraverso la merce-emozioni, il proprio prodotto, mettendo in mostra indifferentemente gioia e dolore, felicità e lutto, amore e morte, in una macchina scenica tanto potente quanto sostanzialmente indifferente ai suoi contenuti» (p. 103). In una sorta di isomorfismo fra le istituzioni e lo spirito del tempo televisivo, la «televisione del dolore» doveva così contribuire a generare la nuova «democrazia del dolore», ponendo al centro il dolore delle vittime e dei loro familiari. Ma, fondata sul tessuto di emozioni fuggevoli, piegate alla logica di uno spettacolo vorace, che dimentica il dolore privato e collettivo con la stessa rapidità con cui lo celebra, la memoria condivisa della «democrazia del dolore» non può che essere inevitabilmente fragile. Come osserva De Luna, in un passaggio fondamentale del suo saggio: «La ‘religione civile’ che ne deriva risulta però in affanno, precaria, segnata da una memoria che implicita al suo interno una perversa competizione tra gli eredi delle diverse vittime; elemento di divisione e non di coesione sociale, così fragile dunque da mettere in discussione ogni forma di integrazione realmente efficace. Una sorta di ossessione memoriale finalizzata al culto di luoghi e momenti selezionati per rappresentare il sacrificio offerto ai valori legittimi, con riferimento non tanto alla storia, quanto a quei vissuti che possono diventare testimonianze dirette, integrali, genuine, meno aride e più umane di quelle proposte dal discorso storico ma anche più generiche, così ampie e onnicomprensive da rendere impalpabili i principi e i valori che ne suggeriscono la scelta, da vanificare lo stesso concetto del sacrum facere. […] senza il contrappeso di una statualità sufficiententemente autorevole, la ‘politica della pietà’ rischia di indebolire proprio quei legami sociali che vuole rafforzare. […] Alla fine, anche senza prendere in considerazione i casi estremi dei nessi tra pietà e terrore, resta il fatto che anche in situazioni ‘normali’, quando l’ammirazione di cui godono coloro che lottano per far riconoscere il proprio statuto di vittime diventa più grande di quella che si tributa a persone che hanno il coraggio di mettere a repentaglio la propria vita per difendere la libertà o la giustizia, si delinea un effettivo incoraggiamento alla costruzione di altrettanti recinti chiusi sulle proprie rivendicazioni, necessariamente in concorrenza gli uni con gli altri, sovradeterminati da una particolare esperienza dolorosa personale, così che tutto quello che scaturisce dalla centralità delle vittime sembra comunque voler trasformare lo Stato in una ‘federazione’ di interessi particolari» (pp. 98-99).
Con la sua lettura, De Luna riesce a dar conto in modo estremamente convincente della trasformazione della ‘memoria pubblica’, e al tempo stesso della fragilità dell’ethos della ‘Seconda Repubblica. Senza alcun dubbio, è proprio il ridimensionamento del ruolo delle istituzioni e dello Stato a spiegare la proliferazione quasi ossessiva di interventi sulla memoria pubblica e persino il paradossale tentativo di porre dei vincoli giuridici al dibattito storiografico. E – per quanto concerne il caso italiano – è proprio la crisi dei partiti, lo sfaldamento di quella forma che pure aveva segnato buona parte del Novecento e impresso un tratto genetico alla Repubblica, a determinare le spinte verso la ‘privatizzazione’ e la ‘spettacolarizzazione’ della memoria che segnano il trionfo della «democrazia del dolore». Quelle tendenze che esplodono negli anni Novanta crescono però – e De Luna d’altronde lo sottolinea con forza – già negli anni Ottanta, ed è forse proprio per questo che il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro diventano la vera pietra fondativa dell’immaginario della Seconda Repubblica, congiungendo – in un filo ideale – il 9 maggio 1978 con il 27 marzo 1994.
Da un certo punto di vista, il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro inaugurano infatti la vicenda italiana della Tv del dolore, con le celebri sequenze dell’auto e degli uomini della scorta, riprese da una troupe della Rai casualmente presente nei pressi di via Fani e commentate da Paolo Frajese (i risvolti mediatici del rapimento sono stati di recente ricostruiti da Ivo Mej, nel volume Moro rapito! Personaggi, testimonianze, fatti, Barbera, Siena, 2008). Ma il sequestro e l’uccisione di Moro costituiscono soprattutto il momento di svolta anche da altri punti vista. Dopo il tragico 16 marzo della strage di via Fani, e dopo il dramma del 9 maggio ‘78, con il ritrovamento del cadavere di Moro, l’immaginario politico cambia definitivamente. L’uccisione di Moro – con tutti i suoi misteri (e forse proprio per questi) – diventa la pietra di paragone per misurare ogni posizione politica. E per condannare tutto quanto – più o meno direttamente, più o meno esplicitamente, più o meno volontariamente – possa configurare una qualche parentela ideologica con quel delitto. Non è comunque solo per lo spettacolo doloroso dei cadaveri di via Fani che, proprio il 16 marzo del 1978, inizia a prendere forma l’immaginario della ‘Seconda Repubblica’. E non è solo l’orrore del 9 maggio a innescare il radicale mutamento nel sentire comune. Inoltre, come ormai tutti sappiamo, in quei giorni, attorno al sequestro Moro, si coagulano trame occulte e interessi inconfessabili (anche se fin troppo prevedibili). Ma, anche in questo caso, non è però (solo) il manto steso dalla P2 su ogni fase del sequestro a indicare quale sia il reale sostrato, destinato a stagliarsi, a partire da quel momento, in modo sempre più netto. La storia del ‘complotto’ piduista contro lo Stato è, al tempo stesso, riduttiva e consolatoria. Semmai, si potrebbe dire, quel progetto e quelle velleità di pacifico colpo di Stato, si limitano a intercettare lo Zeitgeist, a farsi interpreti di un’esigenza condivisa da una parte della società italiana, e soprattutto dalle classi dirigenti italiane (e, in generale, occidentali). Da quel momento, è quasi banale ricordarlo, tutti i temi al centro del progetto piduista iniziano a conquistare una centralità crescente, finendo col prefigurare quella che è diventata, effettivamente, la ‘Seconda Repubblica’. Eppure sarebbe ingenuo ritrovare dietro il sequestro Moro solo la pietra di fondazione del progetto politico che avrebbe condotto all’ascesa politica di Forza Italia, o tentare di scoprire sotto il cappuccio della P2 il ghigno caricaturale della nostra attuale classe politica. Perché si tratta di un cambiamento ben più radicale. Un cambiamento che investe tutte le forze politiche. E, soprattutto, un cambiamento che investe anche il nostro modo di vedere la politica e società, riducendo persino i confini dell’esprimibile.
A partire da quel momento, l’intero sistema dei partiti cerca il proprio reale sostegno simbolico e ideologico non nella Resistenza e nella lotta contro il fascismo, bensì nella lotta contro il terrorismo. La condanna del terrorismo è infatti l’elemento capace di offrire alla classe politica e al sistema dei partiti un formidabile strumento di legittimazione. Una classe dirigente in larga parte corrotta, talvolta rapace, spesso parassitaria, inizia a trovare la propria legittimazione non più nelle proprie promesse, nelle proprie capacità, nei propri ideali, ma esclusivamente nei propri nemici. Le vittime del terrorismo diventano così, effettivamente, le pietre di fondazione di un nuovo sentire politico. E il cadavere di Moro si trasforma nel simbolo non tanto degli anni Settanta, o dell’orrore degli anni di piombo, quanto di una nuova lettura della storia d’Italia. Una nuova lettura che vede gli anni Settanta – ma, in fondo, tutta la storia repubblicana – come il trionfo della violenza, dell’ideologia, del conflitto. Dunque, una lettura che può ritrovare nella follia degli anni Settanta la manifestazione violenta di un morbo che alligna dentro il corpo della Repubblica, e che deve essere espulso una volta per sempre. Proprio la vittoria contro il terrorismo e la difesa della democrazia contro la barbarie della violenza riconfigurano allora i contorni di una nuova memoria condivisa, capace di ‘rilegittimare’ – anche se solo superficialmente – un sistema di potere per la verità sempre più fragile. Puntando sugli orrori del terrorismo, il sistema dei partiti della ‘Prima Repubblica’ può tornare infatti a legittimare se stesso, non più in base alle proprie promesse di eguaglianza e di libertà, non più per l’annuncio di un futuro di progresso, ma per la propria capacità di resistere dinanzi al baratro della violenza, per la propria capacità di aver garantito l’ordine e la sicurezza. Molti anni fa, nei suoi Commentari sulla società dello spettacolo, Guy Debord scriveva: «Questa democrazia così perfetta fabbrica da sé il suo inconcepibile nemico, il terrorismo. Vuole infatti essere giudicata in base ai suoi nemici piuttosto che in base ai suoi risultati. La storia del terrorismo è scritta dallo Stato; quindi è educativa. Naturalmente le popolazioni spettatrici non possono sapere tutto del terrorismo, ma possono sempre saperne abbastanza da essere convinte che, rispetto al terrorismo, tutto il resto dovrà sembrar loro abbastanza accettabile, e comunque più razionale e più democratico». Naturalmente, il terrorismo degli anni Settanta non era – come voleva Debord – una costruzione dello Stato, o quantomeno non lo era in modo esclusivo. Il punto era però che, a partire da quel momento, il terrorismo – da evento politico – viene trasformato in un evento, per così dire, ‘post-politico’, ossia in un evento posto al di fuori della razionalità della storia. Ai terroristi viene negata qualsiasi razionalità ‘politica’ e – con un’operazione peraltro non priva di ambiguità – viene reinterpretato come un’espressione di ‘nichilismo’, di patologia, di una volontà distruttiva del tutto ‘inumana’.
Il patto che si stabilisce dopo il sequestro Moro definisce una sorta di nuova Grundnorm, una legge non scritta, condivisa dall’intero sistema dei partiti, dalle élite economiche, dal mondo della comunicazione, dagli uomini di cultura. Questa nuova Grundnorm si basa sulla condanna politica, morale, giudiziaria, del terrorismo, ma non coinvolge soltanto quanti impugnano le armi per uccidere, sulla base di una più o meno credibile giustificazione politica. In verità, il nuovo patto, che si definisce in seguito al 16 marzo, implica molto di più. Richiede, in qualche misura, una sorta di ricerca ‘genealogica’, volta a espellere dalla società italiana tutte quelle tradizioni che, in qualche modo, hanno preparato, suggerito, o implicitamente sostenuto la nascita del ‘terrorismo’. Come sappiamo, da quel momento gli intellettuali italiani vengono posti dinanzi a un aut aut – o con lo Stato, o con gli assassini travestiti di abiti politici – e chiunque esiti, chiunque – come fece in alcuni celebri scritti Leonardo Sciascia – metta in luce i limiti di un sistema politico corrotto, o chiunque cerchi di portare avanti istanze radicali, viene più o meno automaticamente iscritto nel fronte dei sostenitori della violenza e del terrore. Con questa operazione, ovviamente possono essere riletti interamente gli anni che hanno preceduto l’ascesa del terrorismo, ma non è neppure questa la conseguenza più rilevante. Adottando un immaginario ‘post-politico’, che colloca la violenza al di fuori della storia e il conflitto al di fuori della politica, anche gli stessi partiti fondatori della Repubblica devono rileggere la loro storia. Da quel momento, ogni forza politica – e, va da sé, soprattutto i partiti di sinistra – inizia a espungere dal proprio corredo genetico, e dal proprio albero genealogico, ogni elemento sospetto, ogni traccia che sembri ricondurre alla violenza. E non si tratta soltanto di un’operazione con cui il Pci cancella dal famigerato ‘album di famiglia’ le foto troppo compromettenti di qualche leader ambiguamente attratto dall’idea della lotta armata (anche se di una lotta magari lontana dai confini italiani e dal rassicurante sapore esotico). Si tratta di un’operazione chirurgica con cui viene rapidamente rimosso qualsiasi riferimento al conflitto. E che comporta l’accettazione di una visione della storia che si risolve in un’evanescente idea di progresso, colorata di buoni sentimenti. In effetti, queste forze politiche devono espellere dal loro stesso codice genetico la memoria di una resistenza sotto alcuni profili sin troppo affine ai miti della lotta armata, d’altronde ambiguamente coltivati per tutti gli anni Settanta e in fondo impliciti nello stesso armamentario retorico della Repubblica nata dalla lotta antifascista. Ma, in alcuni casi, e soprattutto in quello del Pci, devono espellere dalla loro storia, dalla loro identità, dalla loro memoria, la visione di un processo storico in cui la violenza, il conflitto, la rivoluzione non avevano certo un peso irrilevante. Ovviamente, questa rilettura avviene nella forma di una ‘rimozione’, più che in quella di una consapevole e meditata rielaborazione. Ma – a ben guardare – non è così difficile ritrovare proprio nei lunghi anni Ottanta le tracce delle diverse strategie di ‘rimozione’ che, all’interno del Pci e della sinistra italiana, sarebbero poi emerse in molte delle scelte compiute dagli eredi del più grande partito comunista dell’Occidente a partire dal 1989, dalla ‘svolta’ della Bolognina fino alla ‘svolta’ veltroniana del Lingotto.
Più di trent’anni dopo la strage di via Fani e l’uccisione di Moro, il nostro immaginario è ancora lo stesso, non solo perché il terrorismo – nelle sue tante declinazioni – rimane ancora il cemento della classe politica della ‘Seconda Repubblica’, o perché la condanna unanime del terrorismo rimanga il più formidabile strumento di legittimazione della democrazia occidentale. Ma soprattutto perché ci conduce in un mondo ‘post-storico’ e ‘post-politico’. Un mondo che non è in grado di immaginare il futuro in modo diverso dalla pura perpetuazione del presente. Un mondo che rimuove la politica e le sue ‘regolarità’ di conflitti e contrapposizioni come manifestazione del ‘male’. Un mondo in cui il dolore delle vittime – al di fuori di ogni logica storica, al di fuori di ogni visione di progresso, al di fuori di ogni prospettiva di futuro condiviso – appare sempre, invariabilmente, come un dolore insensato. E in cui i carnefici devono apparire inevitabilmente come ‘nemici del genere umano’, come espressioni di un «Male assoluto», con cui ogni compromesso è ovviamente impensabile.
Da questo punto di vista, il 16 marzo 1978 non è solo legato a doppio filo con il 27 marzo 1994. Quel fatale 16 marzo è legato anche al 7 aprile 1979, perché ne costituisce il presupposto logico, prima che il precedente storico. Ma, ovviamente, il giorno della strage di via Fani trova la sua prosecuzione – e, se vogliamo, il suo senso reale – il 14 ottobre del 1980, il giorno fatidico della marcia torinese dei ‘quarantamila’. Dentro quella ‘marcia’, nell’immaginario che esprime, nell’ideologia che la sostiene, nel sentimento che la ispira, non facciamo davvero fatica a ritrovare l’orizzonte simbolico della ‘Seconda Repubblica’, con i suoi miti, le sue ingenue illusioni, i suoi rancori, la sua rassegnazione. Il 14 ottobre del 1980, la ‘marcia dei quarantamila’ e la sconfitta dell’occupazione operaia di Mirafiori concludevano infatti, in modo irreversibile, la lunga ‘stagione dei movimenti’, quella sorta di ‘maggio strisciante’ che aveva preso avvio molti anni prima, nell’autunno del 1967, ed era proseguito poi per più di un decennio, sconvolgendo, lacerando ma anche rinnovando profondamente la società italiana. La marcia dei quadri e impiegati della Fiat, assumendo una valenza simbolica che andava ben oltre la singola vertenza contrattuale, concludeva davvero gli anni Settanta, perché dopo quel momento – al di là di fiammate effimere e di episodi marginali – le grandi identità collettive avrebbero abbandonato la scena pubblica. D’altronde, il clima, le aspettative, i timori della ‘marcia dei quarantamila’ ci parlano ancora oggi, perché in quei volti grigi che sfilarono per le strade del centro di Torino - reclamando la possibilità di tornare a lavorare ed esprimendo la volontà di farla finita con la protesta operaia, con la violenza, con il terrorismo – non è difficile riconoscere i tratti anche dell’Italia di oggi. Non semplicemente perché ci ritroviamo la prefigurazione di Marchionne e la filosofia (immutabile) dei suoi sostenitori, ma soprattutto perché incontriamo quello stesso rancore diffuso, onnipresente, che è diventato l’elemento dominante del nostro vivere quotidiano. Un rancore che costituisce il corredo naturale dell’impotenza, della frustrazione, del servilismo, e che ci spinge ogni giorno, nel momento in cui commiseriamo la nostra condizione, a invidiare quella del nostro vicino e a cercare di trascinarlo un po’ più in giù, in una corsa sfrenata verso l’abolizione di ogni dignità. Un rancore che induce a covare un feroce risentimento per le garanzie che alcuni ‘privilegiati’ conservano ancora, e che ci sono invece state sottratte (o che non abbiamo mai avuto). E a chiedere con forza, con cattiveria, che, in nome di un principio di giustizia, quelle piccole, miserabili, e ormai striminzite garanzie – invece di essere estese a ciascuno di noi – vengano davvero tolte a tutti e a tutte.
Damiano Palano
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